Fatto diverso e riqualificazione del fatto: la necessità di una completa equiparazione a garanzia del diritto di difesa

22 Novembre 2017

La riqualificazione senza previo contraddittorio ai sensi dell'art. 521, comma 1, c.p.p. si pone in insanabile contrasto da un lato, per la necessaria equiparazione fra quaestio iuris e quaestio facti, con il principio di uguaglianza a fronte del differente trattamento dell'imputato in caso di fatto diverso ai sensi del comma secondo e, dall'altro, con il diritto di difesa ...
Abstract

La riqualificazione senza previo contraddittorio ai sensi dell'art. 521, comma 1, c.p.p. si pone in insanabile contrasto da un lato, per la necessaria equiparazione fra quaestio iuris e quaestio facti, con il principio di uguaglianza a fronte del differente trattamento dell'imputato in caso di fatto diverso ai sensi del comma secondo e, dall'altro, con il diritto di difesa, alla luce dei principi ricavabili dalla Cedu ma, ancor prima, dall'art. 24, comma 2, Cost.

Fatto nuovo, diverso e riqualificazione, alcuni punti fermi

Il principio di correlazione tra accusa e sentenza, apertamente inserito nel nostro codice di procedura penale all'art. 521 e delineato nel suo insieme dalle norme di cui al Libro VII, Capo IV (artt. 516-522), costituisce uno dei nodi più cruciali e allo stesso tempo problematici del nostro sistema processual-penalistico. Si potrebbe infatti definire come quel principio che, da un lato, vieta al giudice di giudicare un imputato per un fatto che non gli è stato previamente contestato e in relazione al quale non gli sia stato garantito il contraddittorio, dall'altro, dà diritto a chi subisce un processo di conoscere i fatti su cui verrà giudicato al fine di predisporre un'adeguata difesa.

Il Legislatore ha nettamente distinto i concetti di fatto nuovo, diverso e di riqualificazione giuridica del fatto. L'interprete deve essere pronto a confrontarsi con queste nozioni e sapere che per fatto nuovo si intende un fatto-reato non previamente contestato dall'accusa, ulteriore a quello per cui l'imputato viene in concreto giudicato. In questo caso sono gli artt. 517-518 c.p.p. a indicare la via: se durante l'istruzione dibattimentale il pubblico ministero si avvede dell'esistenza di un fatto nuovo deve procedere nelle forme ordinarie (e iscrivere la notizia di reato ai sensi dell'art. 335 c.p.p. se il reato è procedibile d'ufficio); a meno che: a) vi sia il consenso dell'imputato (improbabile) ad essere giudicato nel medesimo giudizio per il fatto nuovo e sempre che ciò non rallenti in modo significativo il processo, oppure b) si tratti di reato connesso ai sensi dell'art. 12 lett. b) c.p.p. o di circostanza aggravante (in questo caso il pubblico ministero procede immediatamente alla contestazione) e sempre che il reato non sia di competenza di un giudice superiore. Qualora non sia rispettato quanto sopra la sentenza sarà affetta da nullità (assoluta ex art. 179 c.p.p.) in relazione alla decisione riguardante il fatto nuovo (art. 522 c.p.p.).

Il fatto diverso attiene invece al profilo storico-fattuale di quanto in contestazione. Se, infatti, dall'istruzione emerge che i fatti si sono svolti in maniera differente da come sono stati descritti dall'accusa in relazione alle circostanze di tempo, al concreto atteggiarsi della condotta ecc., l'art. 516 c.p.p. impone al pubblico ministero di modificare l'imputazione e di procedere alla relativa contestazione. Se di ciò invece il giudice se ne avvedesse al momento della decisione, l'art. 521, comma 2, c.p.p. gli imporrebbe invece di provvedere alla trasmissione degli atti al pubblico ministero al fine di instaurare il contraddittorio sul punto. Qualora tali norme non siano rispettate, ancora l'art. 522 c.p.p. ci ricorda che la sentenza che giudica un imputato per un fatto diverso da quello descritto nell'imputazione è affetta da nullità (in questo caso a regime intermedio con necessità di una pronta contestazione).

Si parla, infine, di riqualificazione giuridica del fatto ai sensi dell'art. 521, comma 1, c.p.p. con riferimento a quelle situazioni in cui l'organo giudicante ritiene di dover dare al fatto contestato una definizione giuridica diversa, restando immutati i profili storico-fattuali della vicenda. Trattasi di operazione consentita dal nostro ordinamento, entro i limiti di competenza dell'organo giudicante.

La distinzione (criticabile) tra quaestio facti e quaestio iuris

Molte ricostruzioni operano una netta bipartizione fra questioni di fatto e di diritto, che troverebbe fondamento, tra l'altro, nelle norme sopra citate. Le prime, affermano alcuni, costituirebbero l'oggetto della prova, in linea con quanto stabilito prima facie dall'art. 187 c.p.p. Cambiando pertanto le questioni di fatto oggetto di prova nel caso di diversità della fattispecie, si rende necessaria la modifica dell'imputazione e un nuovo (o ulteriore) contraddittorio sul punto. La sussunzione di un determinato fatto storico sotto una fattispecie astratta piuttosto che un'altra costituirebbe, invece, una quaestio iuris non soggetta ad onere della prova.

Attenta dottrina (CENTAMORE), tuttavia, dissente da quanto sopra illustrato, ricordando come una netta bipartizione non si possa affermare. Si pensi in primo luogo all'art. 417 lett. b), c.p.p. che richiede che nella richiesta di rinvio a giudizio vi sia «l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l'applicazione di misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi articoli di legge». Orbene, l'indicazione degli articoli di legge violati costituisce il punto di partenza per qualsiasi avvocato al fine di studiare la strategia difensiva. È chiaro, infatti, che in relazione alla consistenza e credibilità dell'accusa in riferimento alle norme contestate, il difensore opterà per un rito speciale o, qualora sia convinto di poter contrastare efficacemente la tesi del pubblico ministero, per il rito ordinario. Ciò in quanto l'art. 187 c.p.p., ad una più attenta lettura, afferma che sono oggetto di prova non i fatti ma, più precisamente, «i fatti che si riferiscono all'imputazione». E se l'imputazione è formata tanto dal fatto, quanto dalle norme di diritto violate, non è dunque compito dell'accusa provare (con fatti) tutto ciò che consente di sussumere il caso concreto sotto una determinata fattispecie astratta, e quindi anche le c.d. quaestio iuris? Tale concetto, intuitivo nella pratica processuale di tutti i giorni, sembra creare più difficoltà laddove ci si trovi a confrontarsi con le due categorie in questione nella loro veste astratta.

Il ragionamento su esposto non è privo di conseguenze; non costituisce un vuoto narcisismo giuridico. È piuttosto la chiave di volta per comprendere che «quaestio iuris e quaestio facti formano un nucleo indissolubile che, per l'appunto, inquadra il thema decidendum» (CAIANELLO). Oggetto di prova è dunque non soltanto il fatto naturalistico ma anche la sua riconducibilità entro uno schema legale astratto (CENTAMORE). E allora si comprende come anche le quaestio iuris richiedano un contraddittorio effettivo, tanto quanto le questioni di fatto. La riqualificazione del fatto in sentenza (in qualunque grado, come si evidenzierà) si pone, però, in insanabile contrasto con questa conclusione, in quanto non consente alla difesa di instaurare un adeguato contraddittorio sulle questioni di diritto.

Si pensi, ad esempio, ad una decisione che ritenga di condannare l'imputato per oltraggio a pubblico ufficiale ex art. 341-bis c.p., dopo che l'accusa aveva contestato la resistenza a pubblico ufficiale ex art. 337 c.p. (trib. Milano, 20 marzo 2015, n. 1235). Per quanto il primo reato sia più favorevole, presenta un elemento costitutivo ulteriore rispetto al secondo, vale a dire la presenza di più persone, sul luogo del fatto, che percepiscano l'offesa. In questo caso, ove durante l'istruzione nessuno ha fatto riferimento a tale norma ma il contraddittorio si è effettivamente svolto solo sulla riferibilità dei fatti alla fattispecie di resistenza, il difensore non poteva certo immaginare di doversi difendere anche sull'elemento costitutivo della percezione (o quanto meno percepibilità secondo certa giurisprudenza) da parte di più persone dell'offesa oltraggiosa: su tale aspetto nessun contraddittorio è stato instaurato. Potrebbe rispondersi allora che il secondo grado serve anche a questo: a difendersi sulla nuova norma contestata. Tuttavia poter efficacemente costruire la difesa significa anche poter scegliere un rito speciale che consenta una diminuzione di pena qualora lo si ritenga opportuno; o, ancora, significa aver due gradi di merito per poter efficacemente esaminare ed eventualmente riesaminare (in caso di rinnovazione dell'istruzione ex art. 603 c.p.p.) i propri testimoni. Al contrario, laddove viene riqualificato il fatto nei termini sopra descritti, il difensore non potrà più optare per un rito alternativo o costruire in maniera completa ed efficace la propria difesa sui fatti oggetto della (nuova) imputazione. Tutto ciò con evidente lesione del diritto di difesa scolpito nell'art. 24 Cost. e del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. laddove si consideri che se in un caso simile un altro pubblico ministero dovesse immediatamente contestare la norma corretta, si avrebbe un'ovvia disparità di trattamento nei confronti della difesa che si è “ritrovata” con il

Il rapporto incerto della giurisprudenza con il sistema posto dall'art. 6 Cedu e dalla sentenza Drassich

Esaminati i concetti di fatto diverso e riqualificazione in generale e in particolare in relazione ai profili problematici posti dalla loro disallineazione sul piano delle conseguenze in punto di modifica dell'imputazione, è possibile dar conto dell'incidenza dei principi di matrice comunitaria sulle questioni testé illustrate. Il fondamento del principio di correlazione fra accusa e sentenza, quasi sacramente enunciato nella rubrica dell'art. 521 c.p.p., si trova nell'art. 111 Cost. che, fra gli altri, stabilisce il principio del giusto processo e del contraddittorio nella formazione della prova. Il comma terzo, in particolare, afferma che «la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa». Il concetto di informazione tempestiva all'indagato-imputato in merito all'accusa quale condizione necessaria affinché questi possa effettivamente esercitare il proprio diritto di difesa è di evidente origine comunitaria. È stato infatti aggiunto alla nostra Costituzione solo nel 1999 (art. 1 l. cost., 23 novembre 1999, n. 2) e ripercorre quasi pedissequamente l'art. 6, comma 3, lett. a) e b) Cedu. Quest'ultima norma, inoltre, entra nel nostro ordinamento quale fonte sub-costituzionale e parametro interposto di legittimità costituzionale, come ormai da tempo affermato dalle note sentenze gemelle della Corte costituzionale del 2007 (nn. 348 e 349 del 24 ottobre 2007). È questo, in definitiva, il contesto all'interno del quale vanno interpretati i concetti esposti nei primi due paragrafi.

La Corte di Strasburgo ha avuto occasione di sviluppare le nozioni di contradditorio e diritto di difesa in relazione alla riqualificazione del fatto nella nota sentenza Drassich (Corte Edu, Sez. II, 11 dicembre 2007). Uno dei principi fondamentali affermati dalla Corte dei diritti umani consiste nella totale equiparazione fra mutamento in iure e in facto in relazione alle garanzie difensive da riconoscere all'imputato. È vero anche che la Corte Edu si preoccupa di precisare che affinché vi sia stata violazione della Convenzione è necessario verificare: a) innanzitutto, in concreto, «se fosse sufficientemente prevedibileper il ricorrente che l'accusa inizialmente formulata nei suoi confronti fosse riqualificata»; b) «la fondatezza dei mezzi di difesache il ricorrente avrebbe potuto invocare se avesse avuto la possibilità di discutere della nuova accusa formulata nei suoi confronti»; c) quali siano state «le ripercussioni della nuova accusa sulla determinazione della penadel ricorrente», ad esempio se la nuova qualifica comporti una modifica in peius del trattamento sanzionatorio e del computo della prescrizione.

In questo quadro, come afferma BIONDI, la nostra Corte di cassazione si muove in maniera decisamente ondivaga, dando risposte diverse a situazioni simili (e ciò contro il principio di uguaglianza dell'art. 3 Cost.) e lasciando i giudici di merito spesso nell'incertezza di dover fornire proprie interpretazioni ad una tematica complessa ma densa di conseguenze sulla vita degli imputati. A volte la Suprema Corte ha affermato, optando per un maggiore (e corretto, a parere di chi scrive) garantismo, che il contraddittorio sulla riqualificazione deve essere sempre e comunque assicurato, a meno che la diversa definizione giuridica sia stata in qualche momento prospettata o oggetto di discussione per esempio in un procedimento incidentale de libertate (Cass. pen., Sez. VI, 25 maggio 2009, n. 36323, Drassich; Cass. pen., Sez., II, 26 febbraio 2010, n. 14674, Salord; Cass. pen., Sez. I, 18 febbraio 2010, n. 9091, Di Gati): ciò sin dalla stessa fase del giudizio di merito in cui viene modificato il nomen iuris (Cass. pen., Sez. VI, 12 febbraio 2010, n. 20500 e Cass. pen., Sez. V, 28 ottobre 2011, n. 6487), in quanto (lo dice la stessa Corte di cassazione!) l'impugnazione non sempre ha un effetto equipollente al mancato contraddittorio. Ancora, pare meritevole quell'orientamento che sottolinea che le cose non cambiano qualora la reformatio sia in senso favorevole all'imputato (Cass. pen., Sez. I, 29 aprile 2011, n. 18590), in quanto «la difesa ben può diversamente atteggiarsi (quanto alle opzioni strategiche) e modularsi (sul piano tattico), in rapporto alla differente qualificazione giuridica della condotta».

All'interno di questo primo gruppo di sentenze si inserisce un'interessante e recentissima pronuncia della Corte di cassazione (Cass. pen., Sez VI, 23 giugno 2017, n. 49054), arrivata dopo che i giudici hanno concesso un rinvio alla difesa annunciando la possibilità di riqualificazione del fatto all'interno di una fattispecie su cui già vi era stato contraddittorio in primo grado. Assicurando così all'imputato la possibilità di difendersi su una fattispecie che, comunque, non veniva contestata “a sorpresa” ma che era già stata oggetto di discussione, questa sentenza è certamente da segnalare per lo sforzo profuso al fine di tutelare l'effettivo esercizio del diritto di difesa.

Meno condivisibile è quella giurisprudenza (peraltro prevalente) la quale sostiene che il contraddittorio è comunque assicurato dalla possibilità di esperire il ricorso in Cassazione per contestare la diversa qualificazione giuridica e che sottolinea che i principi affermati nella sentenza Drassich valgono solo per le modifiche in peius (Cass. pen., Sez. II, 15 maggio 2013, n. 37413 e Cass. pen., Sez. VI, 24 maggio 2012, n. 22301). Si è già affrontata la questione dell'insufficienza del ricorso in Cassazione o anche di un solo grado di merito al fine di approntare una difesa adeguata, anche in relazione all'impossibilità di chiedere riti alternativi (non esistendo la possibilità di essere rimessi in termini in questi casi). Si aggiunga qui che, ove la Corte Edu afferma che bisogna valutare quali siano state le conseguenze della nuova accusa sulla determinazione della pena, non si riferisce, secondo chi scrive, solamente alle ripercussioni sul computo o sulla scelta materiale della pena. In un'ottica funzionale alla piena tutela del diritto di difesa, quale è quella adottata dalla Corte di Strasburgo, pare più corretto intendere tale enunciato in maniera più ampia; più precisamente, nel senso che secondo i giudici europei bisogna valutare se la determinazione della pena sia stata in qualsiasi modo influenzata, nel suo complesso, in peius o in melius (la Corte non lo dice), dalla diversa qualificazione data dal giudice ai fatti, per esempio perché, considerata la nuova definizione giuridica, il contraddittorio avrebbe reso possibile mettere in luce ulteriori fatti al fine di dimostrare il grado della colpa, andando così ad incidere sulla determinazione della pena. Si vuole dire che in ogni caso, non solo ove il nomen iuris sia modificato in senso sfavorevole all'imputato, potrebbe darsi che la riqualificazione senza previo contraddittorio incida sull'effettiva sanzione da applicare.

In questo quadro risulta oltremodo sconfortante muoversi per un avvocato, costretto a “tirare i dadi”, sperando di trovare un giudice più convinto della necessità di un'interpretazione convenzionalmente orientata del principio di correlazione tra accusa e sentenza e rischiando, al contrario, di doversi pentire della strategia adottata perché il giudice definisce diversamente i fatti contestati direttamente in sentenza, senza aver mai prospettato tale circostanza durante il dibattimento.

Il principio di economia processuale può prevalere sul diritto di difesa?

L'art. 111 Cost., già richiamato, pone altresì il principio di ragionevole durata del processo. Dottrina e giurisprudenza si sono sempre affannate a ricercare un difficile punto di equilibrio fra questa esigenza e le istanze difensive individuali, spesso antinomiche al principio di economia processuale.

Si legge spesso che il contemperamento avverrebbe attraverso il concetto del concreto pregiudizio per i diritti della difesa (CENTAMORE). Solo se l'imputato abbia subito un danno effettivo mediante la riqualificazione, allora dovrebbe sacrificarsi la ragionevole durata e consentire la piena attuazione del contraddittorio. Ma la risposta corretta dovrebbe essere un'altra, quale logica conseguenza di quanto già esposto nei paragrafi precedenti: vi è sempre lesione del diritto di difesa.

Se è vero che quando la difesa prospetta in prima persona diverse definizioni giuridiche dei fatti contestati, al fine di inquadrarli in un reato meno grave, è lo stesso imputato a “suggerire” la riqualificazione e automaticamente ad aprire il contraddittorio sulla nuova ricostruzione, nella maggior parte dei casi si assiste a riqualificazioni senza che nessuno abbia fatto riferimento ad un reato diverso durante il dibattimento. Non si può nemmeno esigere che il difensore preveda tutte le possibili ricostruzioni giuridiche dei fatti contestati, tale ipotesi richiedendo uno sforzo immane all'avvocato, obbligandolo a pensare a tutte gli inquadramenti possibili e difendersi su ognuno di essi. È l'accusa, nel nostro sistema, che deve provare la responsabilità penale dell'imputato, non quest'ultimo che deve essere lasciato alla mercé dell'imprevedibile. È vero che la Corte Edu parla di sufficiente prevedibilità della riqualificazione ma così si costringono le difese a difendersi su elementi non contestati (come si fa poi a capire quando una diversa qualificazione era prevedibile se nessuno ne ha parlato in dibattimento? Non esistono criteri certi e sufficientemente precisi in tal senso): non è più corretto obbligare l'accusa a farsi carico del corretto inquadramento giuridico dei fatti? Tanto meno dovrebbe essere il giudice a sostituirsi al pubblico ministero riqualificando autonomamente il fatto, vanificando, come più volte ripetuto, il lavoro difensivo svolto.

Si pensi al caso di riqualificazione del reato di furto in ricettazione o viceversa, cui più volte si è assistito (fra le altre, Cass. pen., Sez. II, 16 settembre 2008, n. 38889; Cass. pen., Sez. V, 13 dicembre 2007, n. 3161, Piccione). Come può un avvocato preparare una difesa efficace sia sulla circostanza che l'imputato abbia sottratto il bene (nel caso di furto), che su quella che il bene l'abbia ricevuto o acquistato? Sono situazioni (di fatto, lo si ripete) che presuppongono strategie difensive differenti (si pensi all'esame dei testimoni, che in tale ottica richiede che vengano fatte domande diverse se si tratti di contestare l'imputazione di furto o quella di ricettazione). Non sembra allora corretto, in casi come questo, far prevalere le esigenze di economia processuale sulle istanze di tutela dei diritti della difesa. Addirittura, si potrebbe dare il caso in cui il processo abbia addirittura una durata minore qualora a fronte della riqualificazione si consentisse il contraddittorio e la rimessione in termini dell'imputato che, convinto e inerme di fronte alla diversa definizione giuridica dei fatti, potrebbe ritenere conveniente optare per un patteggiamento.

Si aggiunga che il principio di ragionevole durata del processo, come afferma la stessa Corte costituzionale (Corte cost, 22 giugno 2001, n. 204; Corte cost., 11 dicembre 2001, n. 399; Corte cost. 19 novembre 2002, n. 458), proprio in quanto ragionevole deve essere bilanciato con altri valori costituzionali di rango pari o superiore, quali il diritto di difesa e il principio di uguaglianza. Basterebbe forse quest'affermazione per rispondere in senso negativo alla domanda posta come titolo del paragrafo.

In conclusione

Da quanto fin qui illustrato si comprende che il sistema scelto dal nostro Legislatore con il codice del 1989, come descritto nel primo paragrafo, mette in crisi la tenuta e il bilanciamento di diversi valori costituzionali, costringendo gli interpreti a difficili evoluzioni per contemperare il principio di correlazione tra accusa e sentenza, la ragionevole durata del processo, il diritto di difesa e il principio di uguaglianza.

Dall'art. 111, comma 3, Cost. e l'art. 6 par. 3 lett. a) e b) Cedu deriva però l'imprescindibile correlazione fra l'esatta conoscenza dell'addebito e il diritto di difesa: circostanza che si è tentato di dimostrare anche in questo breve approfondimento mostrando i vari aspetti della questione e partendo dall'assunto della Corte di Strasburgo secondo cui vi deve essere completa equiparazione fra quaestio facti e quaestio iuris. Si è poi provato ad illustrare la reazione incerta della giurisprudenza ai principi affermati dalla sentenza Drassich e come nemmeno le verifiche in merito alla prevedibilità della riqualificazione, alla fondatezza dei diversi mezzi di difesa esperibili di fronte alla nuova imputazione e alle ripercussioni sulla nuova pena sarebbero in grado di scongiurare la lesione del diritto di difesa, che in ogni caso deve prevalere sulle istanze di economia processuale.

Sarebbe sufficiente questo per far concludere (BIONDI) che non pare possibile interpretare l'art. 521, comma 1, c.p.p. in senso convenzionalmente conforme ma che sembra più corretto ritenere, invece, che questo contrasti con gli artt. 3, 24, 111, comma 3, e 117, comma 1, Cost. in relazione all'art. 6 Cedu, ove consente al giudice la riqualificazione del fatto senza che siano assicurate all'imputato le medesime garanzie previste dal comma secondo in caso di mutamento del fatto. Sebbene però il problema sia stato posto in questi termini alla Corte costituzionale, 17 marzo 2010, n. 117, questa non è entrata nel merito della questione della conformità della norma con i principi affermati dalla Convenzione, rimanendo ancorata alla diversità fra mutamento in iure e in facto dell'imputazione. Tuttavia sembra possibile, alla luce di quanto sopra, evidenziare la fondatezza di un'eventuale questione di illegittimità costituzionale che venga posta in futuro, da un lato attraverso un confronto coi principi affermati dalla Corte Edu, dall'altro attraverso un'attenta valutazione di tutti i diritti in gioco, senza che ciò si tramuti in una sentenza additiva. L'equiparazione fra questioni di fatto e questioni di diritto in relazione alla modifica dell'imputazione non è una possibile scelta per il Legislatore, quanto piuttosto una conseguenza necessaria ricavabile dalla nostra Costituzione.

A ciò si aggiunga che la direttiva 2012/13/Ue all'art. 6, rubricato Diritto all'informazione sull'accusa, prevede che gli Stati membri assicurino che alle persone indagate o imputate siano fornite informazioni sul reato che le stesse sono sospettate o accusate di avere commesso; informazioni che devono essere fornite tempestivamente e con tutti i dettagli necessari, al fine di garantire l'equità del procedimento e l'esercizio effettivo del diritto della difesa. Gli Stati membri inoltre (comma 2) devono assicurare che le persone indagate o imputate, che siano arrestate o detenute, siano informate dei motivi del loro arresto o della loro detenzione, e anche del reato per il quale sono indagate o imputate. Ancora, gli Stati membri devono garantire (comma 3) che, al più tardi al momento in cui il merito dell'accusa è sottoposto all'esame di un'autorità giudiziaria, siano fornite informazioni dettagliate sull'accusa, inclusa la natura e la qualificazione giuridica del reato, nonché la natura della partecipazione allo stesso dell'accusato; ma devono garantire altresì (comma quarto) che le persone indagate o imputate siano tempestivamente informate di ogni eventuale modifica delle informazioni fornite, ove ciò sia necessario per salvaguardare l'equità del procedimento.

In questa direttiva, equità del procedimento ed esercizio effettivo del diritto di difesa vengono poste ancor più profondamente in correlazione diretta con le modifiche dell'imputazione e con una corretta e tempestiva informazione circa qualsiasi variazione dell'accusa. Ciò è ribadito a chiare lettere dai considerando 27-29 della medesima direttiva. Ove anche non si dovesse riconoscere efficacia diretta alla direttiva in questione, potrebbe porsi una questione di legittimità costituzionale dell'art. 521, comma 1, c.p.p. per contrasto con gli artt. 11 e 117, comma 1, Cost., in relazione al parametro interposto costituito dalla norma appena illustrata.

Guida all'approfondimento

BIONDI, La riqualificazione giuridica del fatto e le spinte riformatrici che provengono dal diritto europeo. Uno sguardo alla direttiva 2012/13/UE sul diritto all'informazione nei procedimenti penali, in Dir. pen. cont.;

CAIANIELLO, Mutamento del nomen iuris e diritto a conoscere la natura e i motivi dell'accusa ex art. 6 Cedu: le possibili ripercussioni sul sistema italiano, in Giust. pen., 2008, 169 ss.;

CENTAMORE, L'applicazione dei principi dell'art. 6 Cedu. in materia di riqualificazione giuridica del fatto: fra orientamenti “tradizionali” e nuove prospettive. Nota a Cass. pen., Sez. II, 14 gennaio 2013, n. 1625, in Dir. pen. cont.;

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