Onere della prova sulla personalizzazione del danno in applicazione della tabella milanese
29 Novembre 2017
Massima
La nozione unitaria del danno non patrimoniale e la potenziale personalizzazione del danno morale come prevista dalle tabelle milanesi implicano, sul piano probatorio, l'onere per il danneggiato di allegare circostanze specifiche ed eccezionali idonee a fornire riscontro alla possibile personalizzazione. Il caso
Nel primo grado di giudizio l'allora attore (odierno ricorrente) ha citato innanzi al Tribunale i convenuti per sentirli condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali conseguiti all'incidente stradale del 17 giugno 2004, occorso mentre era alla guida del suo motociclo. La convenuta proprietaria dell'autovettura, coinvolta nel medesimo sinistro, ha formulato domanda riconvenzionale. Il Tribunale ha rigettato la domanda dell'attore e ha accolto la domanda riconvenzionale della convenuta condannando l'attore e la sua compagnia assicurativa, in solido, a pagare alla convenuta, a titolo di risarcimento del danno subito dall'autovettura, la somma di € 8.000,00 oltre interessi. L'attore ha, quindi, proposto appello avverso la sentenza del Tribunale e la Corte di appello, con sentenza datata 8 aprile 2014, in parziale accoglimento dell'impugnazione proposta, ritenuto il concorso paritetico dei due guidatori nella causazione del danno e reputate sufficienti le somme già erogate in favore dell'attore appellante in funzione del risarcimento della parte di danno imputabile alla convenuta appellata, ha confermato la pronuncia di rigetto della domanda principale e ha ridotto della metà la condanna emessa in accoglimento della domanda riconvenzionale. Avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione affidandosi a quarantuno motivi: con i primi diciotto ha censurato l'accertamento, operato dalla Corte di appello, della sua concorrente e paritetica responsabilità nella causazione del sinistro; con i successivi (dal diciannovesimo al quarantunesimo) ha censurato la liquidazione del danno. La questione
Per quanto qui di interesse, l'analisi della sentenza deve essere limitata a taluni dei motivi sollevati dal ricorrente quanto alla liquidazione del danno:
Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte ha evidenziato che, a fronte della nozione unitaria del danno non patrimoniale e del successivo recepimento nelle tabelle milanesi della potenziale personalizzazione del danno morale, il criterio della adeguata "personalizzazione" del risarcimento consente al giudice di incrementare le somme dovute a tale titolo e delle quali il parametro tabellare non abbia già tenuto conto, solo in presenza di specifiche circostanze allegate dal danneggiato (Cass. civ. sez. III, 7 novembre 2014 n. 23778; Cass. civ., 13 ottobre 2016 n. 20630). Del pari, il ricorso al criterio di liquidazione basato sul triplo della pensione sociale per la liquidazione del danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa è corretto «in difetto diprove sull'attività lavorativa e sul reddito». Osservazioni
La pronuncia in esame offre interessanti spunti in ordine all'onere probatorio che grava sul danneggiato in relazione alla liquidazione del danno non patrimoniale così evidenziando la centralità di taluni concetti ormai consolidatisi sul tema, nonché della idoneità delle tabelle milanesi a svolgere la funzione di parametro della valutazione equitativa del danno ex artt. 1226 e 2056 c.c.
a) danno non patrimoniale-danno morale-criteri tabellari-personalizzazione-onere probatorio.
Secondo quanto previsto dall'art. 2059 c.c., il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge. Se l'area della risarcibilità del danno patrimoniale si estende ad una atipicità intesa come riconoscimento della tutela risarcitoria rispetto a qualsiasi interesse meritevole di tutela rimettendo al giudice il compito di individuarne la rilevanza sul piano normativo, quella del danno non patrimoniale è subordinata ad una tipizzazione stabilita dallo stesso legislatore. L'originaria impostazione che, influenzata da una visione sanzionatoria del meccanismo risarcitorio, limitava la rilevanza del danno non patrimoniale al solo pretium doloris in ragione del rinvio a quanto previsto dall'art. 185 c.p. è stata superata da una successiva e ormai dominante opzione ermeneutica che, avendo come finalità quella di tutelare la vittima e, quindi, operando secondo una visione riparatoria, ritiene che la tipizzazione del danno non patrimoniale deve essere intesa come riconoscimento di tutela di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona, figura che è il centro di rifermento dei valori costituzionali, e, quindi, non solo nelle ipotesi espressamente previste dalla legge ma anche quando siano lesi per effetto della condotta illecita del danneggiante valori costituzionalmente riconducibili alla persona umana. Costituisce ormai ius receptum quello secondo il quale il danno biologico (lesione della salute) e il danno morale (cioè la sofferenza interiore) integrano componenti autonome dell'unitario danno non patrimoniale e si risolvono in una valutazione globale del medesimo: il principio della "omnicomprensività" della liquidazione del danno non patrimoniale comporta l'impossibilità di duplicazioni risarcitorie del medesimo pregiudizio attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici (Cass. civ., sez. III, 8 maggio 2015 n. 9320). La natura onnicomprensiva, invece, sta a significare che l'unitario risarcimento del danno non patrimoniale deve tener conto di tutte le conseguenze dannose dell'evento, con il limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e con il requisito che venga superata la c.d. “soglia di risarcibilità”, al di sotto della quale il danno è considerato bagatellare e non meritevole di risarcimento, in quanto deve tradursi in un pregiudizio serio e apprezzabile. Ora se è vero che, diversamente dal danno patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa che è diretta a determinare «la compensazione economica socialmente adeguata» del pregiudizio, «quella che l'ambiente sociale accetta come compensazione equa» (v. Cass. civ., Sez. Un. 11 novembre 2008 n. 26972; Cass. civ., 31 maggio 2003 n. 8828), è altrettanto vero che nel liquidare detto danno il giudice deve tenere conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi dello stesso nel singolo caso concreto, facendo luogo alla cd. “personalizzazione della liquidazione” (cfr., da ultimo, Cass. civ., 23 settembre 2013 n. 21716), operazione che valorizza i molteplici e diversi aspetti negativi causalmente derivanti dal fatto illecito e incidenti sulla persona del danneggiato. La Corte territoriale ha, quindi, applicato correttamente le c.d. tabelle di Milano assurte a parametro della valutazione del danno non patrimoniale, nella sua accezione ridisegnata dalle sentenze gemelle delle Sezioni Unite del 2008 e successive. Tabelle che - considerato che la regola equitativa di cui all'art. 1226 c.c. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa solo perché esaminati da differenti Uffici giudiziari-, assicurano, come riconosciuto dalla Suprema Corte, la uniformità di trattamento ex artt. 1226 e 2056 c.c. essendo esse già ampiamente diffuse sul territorio nazionale e, quindi, risultando conformi al principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l'abbandono (Cass. civ., sez. III, 7 giugno 2011 n. 12408). Può concludersi dunque che le tabelle milanesi consentono al giudice di liquidare, mediante una tecnica di forfettizzazione, le conseguenze ordinarie del danno non patrimoniale mentre, in presenza di specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso sottoposto ad esame dello stesso giudice, una loro adeguata valorizzazione sul piano liquidatorio è assicurata mediante il giudizio di c.d. personalizzazione. Trattasi di circostanze che, secondo il più recente orientamento della Suprema Corte, vanno individuate in quelle «legate all'irripetibile singolarità dell'esperienza di vita individuale nella specie considerata, caratterizzata da aspetti legati alle dinamiche emotive della vita interiore o all'uso del corpo e alla valorizzazione dei relativi aspetti funzionali, di per sé tali da presentare obiettive e riconoscibili ragioni di apprezzamento (in un'ottica che, ovviamente, superi la dimensione "economicistica" dello scambio di prestazioni), meritevoli di tradursi in una differente (più ricca e, dunque, individualizzata) considerazione in termini monetari, rispetto a quanto suole compiersi in assenza di dette peculiarità» (vds Cass. civ., sez. III, 21 settembre 2017 n. 21939). Il giudizio di personalizzazione richiede per sua stessa natura un diverso e specifico onere probatorio a carico del danneggiato che ne deve fornire prova atteso che il giudice può procedere alla liquidazione delle somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione previa analitica individuazione delle medesime senza poter ricorrere a motivazioni stereotipate (Cass. civ. sez. III, 7 novembre 2014 n. 23778; conf. Cass. civ., 13 ottobre 2016 n. 20630). Pertanto, la nozione unitaria di danno non patrimoniale, pur escludendo possibili duplicazioni risarcitorie, consente un risarcimento personalizzato –oltre quello già tabellarmente liquidabile- rispetto alle conseguenze specifiche che siano conseguenza del fatto illecito nei limiti in cui delle medesime il danneggiato fornisca prova ex art. 2697 c.c.
b) criteri di liquidazione del danno non patrimoniale: triplo della pensione sociale.
In materia di danno patrimoniale il disposto di cui all'art. 137 cod. ass. stabilisce che: «1. Nel caso di danno alla persona, quando agli effetti del risarcimento si debba considerare l'incidenza dell'inabilità temporanea o dell'invalidità permanente su un reddito di lavoro comunque qualificabile, tale reddito si determina, per il lavoro dipendente, sulla base del reddito di lavoro, maggiorato dei redditi esenti e al lordo delle detrazioni e delle ritenute di legge, che risulta il più elevato tra quelli degli ultimi tre anni e, per il lavoro autonomo, sulla base del reddito netto che risulta il più elevato tra quelli dichiarati dal danneggiato ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche negli ultimi tre anni ovvero, nei casi previsti dalla legge, dall'apposita certificazione rilasciata dal datore di lavoro ai sensi delle norme di legge. 2. È in ogni caso ammessa la prova contraria, ma, quando dalla stessa risulti che il reddito sia superiore di oltre un quinto rispetto a quello risultante dagli atti indicati nel comma 1, il giudice ne fa segnalazione al competente ufficio dell'Agenzia delle entrate. 3. In tutti gli altri casi il reddito che occorre considerare ai fini del risarcimento non può essere inferiore a tre volte l'ammontare annuo della pensione sociale». La norma individua, quindi, un parametro per procedere alla liquidazione delle conseguenze patrimoniali subite dalla vittima di un sinistro stradale quanto alla perdita della capacità di guadagno. Secondo un certo e più risalente nel tempo orientamento della Corte di legittimità il danno de quo può essere liquidato dal giudice ponendo a base del calcolo il triplo della pensione sociale anche quando il danneggiato non abbia provato l'entità del reddito perduto, costituendo tale criterio una soglia minima del risarcimento (Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2012 n. 7531; Cass. civ., sez. III, 6 agosto 2007 n. 17179). Di diverso avviso è altro e più recente orientamento della stessa Corte secondo il quale detta liquidazione dovrebbe avvenire ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima, e non il triplo della pensione sociale. Questo ultimo criterio potrebbe trovare applicazione solo se il giudice di merito accertasse che la vittima al momento dell'infortunio aveva sì un reddito, ma questo era talmente modesto o sporadico da rendere la vittima sostanzialmente equiparabile ad un disoccupato (Cass. civ., sez. VI-III, 4 maggio 2016 n. 8896). Trattasi di approcci ermeneutici che concepiscono in modo differente l'onere gravante sul danneggiato: secondo il primo, in caso di mancata dimostrazione del reddito posseduto dal danneggiato, il criterio del triplo della pensione sociale troverebbe applicazione come soglia minima risarcitoria prevista ex lege; per il secondo il giudice potrebbe fare applicazione di detto criterio solo se il reddito della vittima fosse modesto o sporadico. Orientamento questo ultimo che sembrerebbe attribuire al giudice un potere di indagine al limite se non addirittura oltre i confini del principio di disponibilità della prova che grava sulla parte danneggiata: la mancata allegazione di redditi già di per sé potrebbe essere interpretata come idonea a fornire prova dello stato di disoccupazione ma unitamente alla valorizzazione di altri e non ben definiti elementi indiziari potrebbe consentire al giudice di disattendere il criterio minimo del triplo della pensione sociale come previsto dalla norma in esame. Del resto già in passato (prima della entrata in vigore dello stesso Codice delle Assicurazioni) in alcune pronunce la Suprema Corte aveva manifestato un atteggiamento contrario al ricorso al criterio del triplo della pensione sociale di cui all'art. 4, comma 3, del d.l. 23 dicembre 1976 n. 857 conv. in l. 26 febbraio 1977 n. 39, nella liquidazione del danno biologico perché impedendone la personalizzazione ne impediva anche il risarcimento integrale (Cass. civ., sez. III, 8 gennaio 1999 n. 101; Cass. civ., sez. III, 25 novembre 1998 n. 11974). |