Revoca dell'assegno divorzile e restituzione delle somme percepite a tale titolo
15 Gennaio 2018
Massima
L'assegno di mantenimento in sede di separazione, che presuppone il permanere del vincolo coniugale e la necessità di mantenere un tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell'assegno di divorzio. Il caso
Con sentenza n. 1842 del 23 giugno 2015, il Tribunale di Monza (Trib. Monza, n. 1842/2015), nell'ambito di un giudizio di scioglimento del matrimonio, aveva dichiarato il diritto della moglie a percepire da parte del marito la somma mensile di € 1.400,000,00 a decorrere dalla data della notifica del ricorso introduttivo, ovvero dal maggio 2013. Il marito, con ricorso depositato il 22 gennaio 2016, proponeva appello avverso detta sentenza contestando la sussistenza dei requisiti per la attribuzione dell'assegno divorzile a favore della moglie. Sosteneva, infatti, l'appellante/L'appellante sosteneva, infatti, che il Tribunale di prime cure avesse erroneamente assunto “il tenore di vita” quale parametro valutativo della adeguatezza delle sostanze del coniuge percipiente, laddove tale criterio, in realtà, non è richiamato dall'art. 5 l. div., per essendo, invece, oggetto solo di costante interpretazione giurisprudenziale. Considerato, inoltre, che l'interpretazione dell'art. 5, l. n. 898/1970 avrebbe dovuto allinearsi con gli indirizzi della Commissione Europea, in ordine al necessario adeguamento del diritto all'assegno divorzile al principio di autosufficienza e dello stato di bisogno, l'appellante riteneva che dovesse essere escluso il diritto dell'ex moglie alla percezione di tale assegno in quanto titolare di beni e mezzi economici elevatissimi ed ampiamente in grado di garantire alla stessa una vita decorosa, dignitosa e assolutamente “ricca”. Aggiungeva poi il ricorrente che la sentenza del Tribunale di Monza aveva omesso di valutare la sussistenza del requisito della capacità del coniuge richiedente di procurarsi da sé i mezzi adeguati, di cui all'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, laddove in realtà, sosteneva l'appellante, la moglie svolgeva di fatto l'attività di imprenditrice immobiliare ed era dedita ad amministrare la propria ricchezza con conseguente percepimento di rendite finanziarie. Si costituiva in giudizio la moglie con memoria depositata il 25 novembre 2016 chiedendo, oltre il rigetto dell'appello avversario, il riconoscimento da parte della Corte del suo diritto a percepire un assegno divorzile della somma di € 3.600,000,00 mensili sulla base delle seguenti motivazioni: innanzi tutto, per la difesa andava considerato che il fondamento dell'assegno divorzile trae origine dalla norme costituzionali che garantiscono la parità dei coniugi, con la conseguenza, conformemente ai principi normativi e giurisprudenziali, che l'assegno di divorzio deve assurgere a strumento idoneo a riequilibrare le posizioni economiche delle parti e deve garantire la conservazione del tenore di vita matrimoniale proprio in virtù del suddetto principio della parità che si realizza tenendo conto delle sostanze, intese sia come lavoro professionale che casalingo, che entrambi i coniugi hanno adoperato per contribuire ai bisogni della famiglia secondo una scelta comune. Considerato dunque che il tenore di vita in costanza di matrimonio costituisce, per la difesa dell'appellata, un parametro dal quale partire per poi affrontare la specificità del caso concreto, e che la funzione assistenziale dell'assegno divorzile è collegata al valore della solidarietà post matrimoniale in senso di funzione di riequilibrio dei rapporti, doveva altresì considerarsi, a parere della difesa, che la moglie, durante il matrimonio, non aveva mai lavorato per scelta dello stesso marito, essendosi occupata della crescita quotidiana dei tre figli, consentendo in tal modo al marito di consolidare la sua carriera pubblica, politica ed imprenditoriale e di accumulare la sua ricchezza. Sulla base delle suddette considerazioni, la difesa della moglie avanzava appello incidentale avverso la sentenza del Tribunale di Monza in punto quantificazione dell'assegno divorzile, ritenendo all'uopo insufficiente la somma di € 1.400,000,00 mensili in quanto non inclusiva dell'apporto del coniuge economicamente più debole che, per dedicarsi alla famiglia aveva rinunciato alla possibilità di svolgere un lavoro e di essere produttiva di reddito per potersi formare un patrimonio personale con la conseguenza che, in contrasto ai principi del nostro ordinamento, si era attribuito un valore differente alle funzioni svolte da ciascun coniuge per la famiglia. La questione
La questione posta all'attenzione della Corte di Appello di Milano, per quanto peculiare in virtù della fama e delle non comuni caratteristiche delle parti sia sotto il profilo personale e politico che sotto quello economico-patrimoniale, attiene alla interpretazione e alla applicazione dei presupposti di cui all'art. 5, l. n. 898/1970, al fine di determinare il diritto o meno del coniuge ad ottenere il riconoscimento dell'assegno divorzile. È noto che si tratta di argomento giuridico e sostanziale di estrema attualità, stante le intervenute pronunce della Cass. civ., n. 11504/2017 e Cass. civ., n. 15481/2017, che hanno mutato il precedente orientamento in tema di individuazione dei presupposti per il riconoscimento del diritto all'assegno di divorzio. Le soluzioni giuridiche
L'esame del merito della controversia da parte dei Giudici della Corte parte, in primis, dalla valutazione e determinazione del patrimonio economico, reddituale e finanziario della moglie. Patrimonio, sottolineano i giudici, integralmente costituitole dal marito durante il corso del ventennale matrimonio. A ciò si deve aggiungere anche il valore dei numerosissimi gioielli avuti in dono dal marito valutati in decine di milioni di euro. Il calcolo e la stima effettuati hanno indotto l'organo giudicante a ritenere che tale ingente ricchezza mobiliare ed immobiliare rendessero la ex moglie del tutto autosufficiente economicamente ed in grado, anche per il futuro, di vedersi garantito un elevato tenore di vita. Anche il valore del patrimonio immobiliare, secondo i giudici, deve essere considerato al fine di valutare l'adeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente l'assegno che, nella fattispecie in esame, non ha nemmeno adempiuto all'onere probatorio di allegare e dimostrare l'entità e la qualità dei suoi attuali esborsi mensili, come da argomentazione difensiva. In buona sostanza, i Giudici adottano la nuova interpretazione dell'art. 5, l. n. 898/1970, così come esposta dalla difesa dell'appellante e confermata dalla Suprema Corte di Cassazione nelle sopra citate sentenze. Alla base di questo cambiamento, osserva la Corte, sta la valutazione della diversa funzione e della diversa ratio che ispirano l'istituto della separazione e quello del divorzio: se, infatti, nella separazione, che presuppone in permanere del vincolo coniugale, «i redditi adeguati» di cui all'art. 156 c.c. sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita avuto in costanza di matrimonio, nello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio l'eventuale assegno risponde solo al principio della solidarietà post coniugale. Ne consegue che, facendo proprie le argomentazioni della Suprema Corte di Cassazione, anche i giudici della Corte di Appello di Milano affermano che i presupposti per l'attribuzione dell'assegno al coniuge separato sono del tutto diversi e distinti da quelli per il riconoscimento dell'assegno divorzile e sono disciplinati in maniera autonoma: il primo, infatti, si fonda sul parametro del “tenore di vita” mentre il secondo si basa sul principio dell'”autosufficienza economica”. Fatta questa premessa, l'analisi giuridica effettuata dalla sentenza quivi in esame prosegue con l'interpretazione del concetto di «mezzi adeguati o impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive» in capo al richiedente, richiesto dall'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970: tale verifica, infatti, concerne il preliminare giudizio sull'an debeatur. Osservano i Giudici che l'adeguatezza è di certo un termine astratto e relativo, che per lungo tempo è stato rapportato dalla giurisprudenza al tenore di vita mantenuto in costanza di matrimonio che, a sua volta, rappresenta un indice anch'esso relativo in quanto muta nel tempo ed è legato a fattori di ordine sociale, personale e anagrafico, oltre che alla presumibile impossibilità di essere mantenuto dopo la separazione, in considerazione del generale impoverimento che consegue al fallimento di un matrimonio. Invece, a parere dei Giudici milanesi, si devono applicare i principi affermati dalle sentenze Cass. civ., n. 11504/2017 e Cass. civ., n. 15481/2017, attraverso la distinzione della verifica giudiziale delle due fasi in cui si articola l'esame della sussistenza del diritto all'assegno di divorzio: quella dell'an debeatur e quella successiva ed eventuale del quantum debeatur. La prima fase è informata al principio dell'autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi quali “persone singole”. Per accertare, dunque, la sussistenza o meno della indipendenza economica del richiedente l'assegno, si dovrà fare riferimento ai seguenti indici: 1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari tenuto conto degli oneri e del costo della vita nel luogo di residenza; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale in relazione all'età, al sesso ed al mercato del lavoro; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione. Sulla base di tutte le suesposte considerazioni, i Giudici della Corte di appello di Milano hanno ritenuto che la condizione della moglie, non solo di autosufficienza economica, ma anche di assoluto benessere tale da consentirle un tenore di vita elevatissimo, comportasse il venir meno del diritto a percepire l'assegno divorzile. Aggiungono i Giudici che, in questo caso, il complessivo patrimonio costituito dal marito durante il matrimonio a favore della moglie potesse ritenersi avere proprio le finalità di preservare e garantire alla stessa, anche per il futuro, le medesime aspettative. Nel revocare, dunque, il diritto della ex moglie alla percezione di qualsivoglia somma a titolo di assegno divorzile, la Corte di appello di Milano ha ritenuto equo ed opportuno fare decorrere tale revoca dal mese successivo alla pubblicazione della sentenza di scioglimento di matrimonio, avvenuta interinalmente mediante sentenza parziale del Tribunale di Monza del 17 febbraio 2014. Conseguentemente l'ex moglie è stata condannata alla restituzione delle somme percepite a titolo di assegno divorzile dalla suddetta data, ovvero dalla pronuncia di divorzio, oltre che alla rifusione a favore del marito delle spese processuali nella misura di tre quarti per entrambi i gradi di giudizio. Osservazioni
La sentenza in esame si distingue per avere ancora una volta confermato il mutato orientamento giurisprudenziale in ordine alla interpretazione ed alla valutazione della sussistenza dei presupposti per l'attribuzione dell'assegno divorzile. A ben vedere, le argomentazioni svolte nell'atto di appello dalla difesa del marito hanno preceduto quelle delle ormai note sentenze della Suprema Corte di Cassazione che, in sintesi, affermando la netta distinzione tra separazione e divorzio e, richiamando la diversità dei presupposti normativi per il riconoscimento dell'assegno nell'una e nell'altra procedura, hanno sancito che il tenore di vita goduto dai coniugi durante il matrimonio non debba più essere considerato quale parametro per affermare il diritto all'assegno divorzile, dovendosi verificare esclusivamente l'adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente o la sua impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. A sostegno della propria tesi, i Giudici milanesi richiamano la sentenza Corte cost. n. 11/2015, che ricorda che, per costante giurisprudenza, il parametro del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio rileva per determinare in astratto il tetto massimo della misura dell'assegno, ma in concreto concorre e va poi bilanciato caso per caso con tutti gli altri criteri indicati all'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970 Tali criteri (condizione e reddito dei coniugi, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla formazione del patrimonio comune, durata del matrimonio, ragioni della decisione) agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto e possono valere anche ad azzerarla. Se, dunque, da una parte il parametro dell'autosufficienza economica è quello che, oggi, determina la fase del processo di divorzio dedicata all'an, ovvero alla verifica della sussistenza dei presupposti per affermare il diritto del richiedente a percepire un assegno divorzile, dall'altra non va trascurato che la sentenza in esame e quelle della Cassazione già citate affermano che lo stesso parametro della indipendenza e autosufficienza economica appare un criterio a sua volta relativo che andrà ancorato a diversi indici che saranno i casi concreti a suggerire. Ciò che risulta pertanto importante sottolineare è che, a prescindere dalla decisione della Corte di Appello di Milano in esame, la relatività del concetto di autosufficienza economica non può essere vincolata ad automatismi o criteri rigidi e predefiniti, ma dovrà tenere sempre conto di una pluralità di fattori. Massima attenzione, dunque, dovrà essere prestata alle variabili dei casi concreti: se da una parte ciò comporta un maggiore onere probatorio per entrambe le parti, dall'altra le sentenze dei giudici dovranno essere adeguatamente motivate. Ne discende che, a parere di chi scrive, laddove può essere condiviso che l'assegno divorzile non si tramuti in rendita parassitaria e locupletatoria da parte del coniuge richiedente, è comunque indiscutibile che il diritto del coniuge economicamente più debole deve essere valutato alla luce di tutti i parametri citati dall'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, a loro volta applicati in combinato disposto con il concetto di autosufficienza e di autoresponsabilità economica rispettosa dei dettami costituzionali e adeguata caso per caso alla fattispecie sottoposta all'esame dei Giudici. Di non poco rilevo, a questo proposito, è la sentenza App. Genova, 12 ottobre 2017, n. 106, che si interroga sul significato e sul concetto di autosufficienza economica nell'attuale contesto che vede la perdita del potere d'acquisto del denaro, l'azzeramento degli interessi sui risparmi, l'alta tassazione sulla casa, il lavoro precario, la riduzione degli stipendi, la crescita della povertà ed il ridimensionamento economico delle classi medie. Se, infatti, il principio enunciato dalla Suprema Corte è quello per cui un coniuge che lavora è considerato autosufficiente e pertanto indegno di ricevere un assegno divorzile, in tal modo non si rischia di punire sistematicamente chi si è impegnato nel lavoro e al contempo nella gestione di casa e figli e, viceversa, favorire chi ha abbandonato l'attività lavorativa durante il matrimonio per avere sposato un benestante? Ne discende l'esigenza di una prudente applicazione del nuovo indirizzo giurisprudenziale. Ciò induce a ritenere che non si possa aprioristicamente affermare che un ex coniuge che lavori non abbia in assoluto diritto ad un assegno divorzile, ma occorrerà valutare un'eventuale integrazione del suo reddito alla luce dei concreti oneri che lo stesso debba sostenere tenuto conto dei fattori lavoro, salute e patrimonio. In questo senso, dunque, la sentenza in esame, per quanto non criticabile sotto il profilo della coerenza con il nuovo orientamento giurisprudenziale, non può, a parere di chi scrive, assurgere a regola generale stante, la peculiarità e l'anormalità dei personaggi protagonisti del divorzio de quo e dei loro ingentissimi patrimoni. Onde evitare la pregiudizievole applicazione oggettiva dei nuovi principi e salvaguardare l'esigenza di tutelare la specificità di ogni singola storia familiare, si ritiene necessario un intervento legislativo volto ad eliminare le incertezze interpretative che, in difetto delle opportune modifiche normative, sono destinate a creare ingiustizie. |