Attuazione delle delega sulle intercettazioni. Un’altra occasione mancata
29 Gennaio 2018
Abstract
La riforma rappresenta un'altra occasione mancata per disciplinare strumenti investigativi che la prassi ha introdotto da anni e che attendono una regolamentazione, come, ad esempio, le riprese visive nel domicilio di comportamenti non comunicativi o l'intercettazione delle comunicazioni mediante nuove tecnologie, quali VoIP, Skype, WhatsApp oppure l'impiego del GPS o il sempre più frequente utilizzo di velivoli a pilotaggio remoto (droni) per finalità investigative, capaci di procedere sia a intercettazioni di comunicazioni sia a riprese visive, mentre altri strumenti, come l'acquisizione dei tabulati telefonici e telematici necessitano, dopo l'allungamento a sei anni della data retention, di un urgente aggiornamento della relativa normativa per consentire anche al difensore l'accesso ai dati. La giurisprudenza creatrice di norme
La prima osservazione che nasce spontanea, leggendo il testo del d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, attuativo della delega contenuita nella l. 23 giugno 2017, n. 103 (cosiddetta riforma Orlando), è che il Legislatore ha mostrato tutta la sua incapacità, recependo in gran parte acriticamente le indicazioni giurisprudenziali. In altre parole, anziché essere il Parlamento a “dettare legge”, è la giurisprudenza che indica le scelte che poi il Legislatore formalizza in legge. In realtà, è da un po' di tempo che, nel nostro Paese, si verifica questo singolare corto circuito, per cui la Costituzione stabilisce che il giudice è «soggetto soltanto alla legge» ma spesso la legge viene suggerita proprio dal giudice, il quale poi, applicandola, talvolta addirittura la stravolge. L'ultimo esempio è il micidiale virus trojan horse, “sdoganato” dalle Sezioni unite Scurato del 2016, in violazione della “riserva di legge”, e poi legittimato dalla riforma come ordinario strumento di intercettazione. Perciò, se dovessimo esaminare “lo spirito della legge”, non potremmo esimerci dal constatare l'evidente supremazia dell'“ordine giudiziario” sul potere legislativo: uno squilibrio che farebbe rivoltare nella tomba Montesquieu. Come spesso capita in Italia, si va da un eccesso all'altro: la riservatezza, che non ha mai avuto in passato alcuna rilevanza, ora riceve un'apparente tutela. Nata all'insegna dell'idolo della privacy, la cosiddetta riforma Orlando si è rivelata, in tema di intercettazioni, un macchinoso sistema che intralcia le indagini e trascura i diritti processuali delle parti. Per la verità, la riservatezza non correva grandi rischi dalla diffusione delle intercettazioni, se sono attendibili le statistiche diffuse dalle Camere penali, secondo le quali su 7.730 cronache giudiziarie di sei mesi nel 2016 solamente il 7,3 % riportava il contenuto di intercettazioni e, di queste, solamente il 7,5 % riguardava estranei alle indagini. Inoltre, il Legislatore, che aveva annunciato di voler rendere più equilibrata la salvaguardia di interessi parimenti meritevoli di tutela a livello costituzionale, si è però dimenticato, da una parte, di rafforzare la presunzione di innocenza dell'imputato, il quale dalle cronache giudiziarie è sempre descritto come il colpevole, senza che il decreto legislativo abbia disciplinato le modalità della pubblicazione delle notizie riguardanti il procedimento penale, ignorando le direttive e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo; dall'altra, ha ignorato i diritti processuali della persona offesa dal reato, ingiustamente esclusa dalla selezione dei dialoghi utilizzabili e rilevanti. È risaputo che in Italia si effettua un eccessivo numero di intercettazioni, che la nuova disciplina legislativa non ridurrà di certo, anzi aumenterà per effetto della “semplificazione” per le intercettazioni nei procedimenti per reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. I dati parlano chiaro: nel 2015, come riportato nella Relazione sull'amministrazione della giustizia, in Italia sono state realizzate 132.749 intercettazioni, che sono il quadruplo del numero di intercettazioni compiute in Francia ed oltre quaranta volte il numero di captazioni effettuate in Gran Bretagna e negli Stati uniti. Inoltre, in Italia il codice di procedura penale attribuisce valore di prova, di per sé, alle parole pronunciate nelle conversazioni o comunicazioni intercettate, senza necessità di alcun riscontro ad esse, attribuendo in questo modo alle chiacchiere un'attendibilità che talvolta esse non hanno. Esistono infatti mitomani, bugiardi, millantatori, chi parla per millanteria, chi inventa di sana pianta, chi bluffa, chi si autoaccusa di ciò che non ha commesso, chi, per interesse personale, invece calunnia altri. D'altra parte, al telefono o in compagnia di altri, la persona parla liberamente senza essere responsabilizzata sulle conseguenze giuridiche che le sue affermazioni possono comportare per lo stesso dichiarante o per terze persone. È perciò rispettoso della legge, ma comporta conseguenze irrazionali, il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui le indicazioni di reità e correità, rese nell'ambito di conversazioni intercettate, non debbano essere corroborate da altri elementi di prova che ne confermino l'attendibilità, come avviene per le chiamate in reità o correità rese dinanzi all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria, anche qualora il soggetto, indicato quale fonte informativa nella conversazione intercettata, si avvalga poi della facoltà di non rispondere. La conseguenza paradossale è che, mentre il chiamante in reità o in correità è responsabilizzato, mediante gli avvisi ex art. 64, comma 3, c.p.p., sulle conseguenze giuridiche derivanti dalle sue dichiarazioni, le quali comunque devono trovare conferma, a norma dell'art. 192, comma 3, c.p.p. in «altri elementi che ne confermano l'attendibilità», ogni farneticazione, vanteria, millanteria, mitomania o, peggio, calunnia, solo perché detta al telefono o in compagnia, costituisce di per sé una prova che non necessita di riscontri. Il Legislatore dovrebbe, quindi, cominciare a pensare alla necessità di riscontri del tipo di quelli richiesti ex art. 192, comma 3, c.p.p., anche per le affermazioni contenute nelle captazioni, siano esse auto o etero accusatorie. È risaputo che nell'ordinamento inglese l'intercettazione, autorizzata dall'Home Secretary, di regola, non ha valore di evidence davanti al giudice ma solo funzione di spunto per le investigazioni, le quali in questo modo sono guidate alla ricerca di elementi di prova, diversi dall'intercettazione. E non risulta che in quel Paese il contrasto alla criminalità sia meno efficace che in Italia. La richiesta
È rimasto immutato il monopolio del P.M. per la richiesta di intercettazione (art. 267, comma 1, c.p.p.), con esclusione quindi del difensore, il quale potrebbe però avere interesse a richiedere il compimento di captazioni nei confronti di terzi per dimostrare l'innocenza del proprio assistito. Invece, resta, come in precedenza, l'obbligo del difensore di rivolgersi alla sua “controparte”, cioè al P.M., e tentare di convincerlo a chiedere un'intercettazione che costui, nella sua prospettiva accusatoria d'indagine, ritiene inutile. Il Legislatore dovrebbe perciò cominciare a pensare di estendere il potere di richiesta anche al difensore, sia dell'indagato sia della persona offesa. Naturalmente, i presupposti dell'intercettazione sarebbero gli stessi già previsti e le operazioni di intercettazione sarebbero eseguite dalla polizia giudiziaria. Non vi sarebbe nessun attentato alla segretezza delle comunicazioni o conversazioni perché sarebbe sempre il Gip a valutare se autorizzare o meno la captazione. Altro accenno critico riguarda il fatto che il P.M. può scegliere gli atti da esibire al Gip a sostegno della richiesta di intercettazione, limitando così il panorama conoscitivo e decisionale del giudicante. Sarebbe stato assai più rispettoso del ruolo di garante del Gip se si fosse imposto al P.M. l'invio dell'intero fascicolo delle indagini fino a quel momento compiute, anche perché non vi è alcun pericolo di discovery, rimanendo gli atti esibiti nella sfera di conoscenza del solo giudice fino alla conclusione delle operazioni di intercettazione. Quanto ai limiti di ammissibilità delle intercettazioni, la disciplina resta immutata, per cui, per gli stessi delitti indicati al comma 1 dell'art. 266 c.p.p. è consentita l'intercettazione di comunicazioni tra presenti, che può essere eseguita anche mediante l'inserimento di un captatore informatico su un dispositivo elettronico portatile, fermo restando che, come oggi, qualora l'intercettazione avvenga nel domicilio, è consentita solo se vi è «fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa». Immutata pure la disciplina dell'intercettazione di comunicazioni informatiche e telematiche (art. 266-bis). Una disciplina speciale è approntata sulla sola base del titolo di reato, in base alla distorta logica del Legislatore per cui la gravità dell'addebito diminuisce le garanzie processuali, in spregio della presunzione di innocenza. Secondo tale irrazionale sistema, tanto più grave è il reato ipotizzato, tanto meno forte sarebbe la presunzione di innocenza, mentre è esattamente il contrario. Attualmente quindi il Legislatore ha disegnato un “doppio binario” per l'indagato di particolari delitti, ai quali è riservato un procedimento diverso e assai meno garantito. In particolare,nei procedimenti per i reati di criminalità organizzata di stampo mafioso e terroristico, di cui all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p., l'art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, conv. con mod., dalla l. 12 luglio 1991, n. 203, prevedeva già, com'è noto, alcune deroghe ai presupposti ordinari dell'autorizzazione all'intercettazione. La riforma ha aggiunto che, per gli stessi reati, l'intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante inserimento del captatore informatico su dispositivo elettronico portatile «è sempre consentita» (art. 266, comma 2-bis, c.p.p.) e pertanto pure nel domicilio, anche a prescindere dall'attività criminosa in corso, per cui l'impiego sarà diffusissimo. Inoltre per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell'art. 4 c.p.p., la legge delega aveva autorizzato una “semplificazione”, che si è però tradotta in un ampliamento della sfera di operatività delle intercettazioni, considerato che si impone l'applicazione del citato art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152. Di conseguenza, negli stessi casi già previsti dall'art. 266, comma 1, lett. b), c.p.p., si consentono le intercettazioni in deroga ai presupposti ordinari e perciò quando esse appaiono semplicemente «necessarie» (non «indispensabili») in presenza di «sufficienti» (e non «gravi») indizi di reato, «per lo svolgimento delle indagini» (e non per «la prosecuzione») e quindi anche come primo atto di indagine. La seconda deroga consiste nel fatto che è previsto un termine di durata di quaranta giorni (e non quindici) con successive proroghe di venti giorni (e non di quindici). Ulteriore deroga è rappresentata dalla previsione che nei «casi d'urgenza» provvede lo stesso P.M. alla proroga dell'intercettazione, dovendosi poi osservare le disposizioni dell'art. 267, comma 2, c.p.p. per la convalida. Ancora altra deroga alla disciplina ordinaria consiste nel fatto che per i menzionati reati contro la pubblica amministrazione l'intercettazione nel domicilio è consentita anche se non vi è «fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa», ma tale requisito è invece necessario se nel domicilio è utilizzato il captatore informatico. Infine, ultima deroga consiste nel fatto che P.M. e ufficiale di polizia giudiziaria possono avvalersi anche di agenti di polizia giudiziaria. Il divieto di intercettazione del difensore
In tema di garanzie di libertà del difensore, resta fermo, anche se non è stata introdotta alcuna sanzione per renderlo effettivo, il divieto di intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e loro ausiliari, né a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite (art. 103, comma 5, c.p.p.). Salvo quanto previsto dall'art. 271 c.p.p. per la loro inutilizzabilità (e distruzione, a meno che costituiscano corpo del reato), i risultati delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, eseguiti in violazione di tale divieto, sono affetti ex art. 103, comma 7, c.p.p. da inutilizzabilità “assoluta”, che deve essere dichiarata, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, a norma dell'art. 191, comma 2, c.p.p. Fermo tale divieto di utilizzazione, quando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate, si è prescritto, a tutela della riservatezza (ma si tratta più propriamente di segretezza), che il loro contenuto non possa essere trascritto, neanche sommariamente, e nel verbale delle operazioni siano indicate soltanto la data, l'ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta (art. 103, comma 7, c.p.p.). Il decreto di autorizzazione
A parte quanto già previsto per i reati di cui all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. e per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, sono rimasti inalterati i presupposti dell'autorizzazione all'intercettazione, cioè i «gravi indizi di reato» e l' “assoluta indispensabilità” ai fini della «prosecuzione delle indagini». È invece imposto un più stringente obbligo di motivazione del decreto che autorizza l'intercettazione tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile: esso infatti, oltre i requisiti generali previsti dall'art. 267, comma 1, c.p.p. deve anche indicare le ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini. Ma la giurisprudenza ci ha abituato alle formule di stile, per cui è lecito paventare che anche questa volta sarà frequente nella prassi l'impiego di pseudo-motivazioni. Se invece si procede per delitti diversi da quelli di cui all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p., si esige una “motivazione rafforzata” che, come già detto, deve indicare «i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l'attivazione del microfono». Nulla è mutato in materia di esecuzione delle operazioni di intercettazione. È rimasta l'utopistica possibilità che il pubblico ministero proceda alle operazioni d'intercettazione «personalmente», mentre più realisticamente egli si avvale di un ufficiale di polizia giudiziaria “delegato all'ascolto”. Resta ferma la prescrizione, presidiata dalla sanzione di inutilizzabilità ex art. 271, comma 1, c.p.p., secondo cui le operazioni possono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica. Tuttavia, quando tali impianti risultano «insufficienti o inidonei ed esistono eccezionali ragioni di urgenza», il pubblico ministero può disporre, con provvedimento motivato, il compimento delle operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria (art. 268, comma 3, c.p.p.). Il mancato rispetto di questa prescrizione è sanzionato dalla inutilizzabilità ex art. 271, comma 2, c.p.p. Come in passato, quando si procede a intercettazione di comunicazioni informatiche o telematiche, il pubblico ministero può disporre che le operazioni siano compiute anche mediante impianti appartenenti a privati (art. 268, comma 3-bis, c.p.p.). La documentazione delle operazioni
L'art. 268, commi 1 e 2, c.p.p. è rimasto immutato, laddove prevede una duplice forma di documentazione, e cioè la registrazione delle conversazioni o comunicazioni intercettate e la verbalizzazione delle operazioni di intercettazione, e nel verbale deve essere trascritto, anche sommariamente, il contenuto delle comunicazioni intercettate (c.d. brogliaccio d'ascolto che secondo l'art. 268, comma 2, c.p.p. contiene la trascrizione sommaria, da inserire nel verbale, ma nella attuale prassi è un riepilogo cronologico delle conversazioni che l'operatore di P.G. inserisce nel sistema informatico). L'omessa verbalizzazione o registrazione comporta l'inutilizzabilità dei risultati dell'intercettazione, a norma dell'art. 271, comma 1, c.p.p. Il decreto legislativo mette nelle mani della polizia giudiziaria il compito non solo di ascoltare ma anche di valutare, almeno in prima battuta, l'utilizzabilità e la rilevanza delle comunicazioni o conversazioni intercettate. È questo il punto che ha suscitato le aspre critiche di alcuni procuratori della Repubblica, che hanno giustamente censurato l'attribuzione alla polizia giudiziaria di un tale delicato compito, ricordando la “vicenda Consip”, nella quale sembra appunto essersi verificata una trascrizione infedele. In realtà, questo è ciò che, nella pratica, è sempre capitato finora e la novità consiste solo nel fatto che la legge ha ufficializzato tale compito della polizia giudiziaria. Infatti, l'ufficiale di polizia giudiziaria “delegato all'ascolto” deve osservare il divieto di “trascrizione, anche sommaria”, delle comunicazioni o conversazioni «irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l'oggetto che per i soggetti coinvolti», nonché di «quelle, parimenti non rilevanti, che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge» (art. 268, comma 2-bis, c.p.p.). In tali casi, quando la polizia giudiziaria ritiene irrilevante la comunicazione o conversazione, nel verbale delle operazioni indica soltanto la data, l'ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta (art. 268, comma 2-bis, ult. periodo, c.p.p.), per cui non sono più ammesse le formule, prima usate, quali “conversazione irrilevante” e simili. Tuttavia, l'ufficiale di polizia giudiziaria che ritenga irrilevante un dialogo, deve informare «preventivamente il pubblico ministero con annotazione sui contenuti delle comunicazioni e conversazioni» (art. 267, comma 4, c.p.p.). Ricevuta «l'annotazione» della polizia giudiziaria, il P.M., dopo aver eventualmente ascoltato la registrazione, può disporre, con decreto motivato di “trascrizione coatta”, che le comunicazioni e conversazioni che la polizia giudiziaria ha reputato irrilevanti ai fini delle indagini, siano invece trascritte nel verbale quando ne ritiene la «rilevanza per i fatti oggetto di prova» e, qualora siano relative a dati personali sensibili, se, oltre che «rilevanti», sono «necessarie a fini di prova» (art. 268, comma 2-ter, c.p.p.). A nostro parere, tale complicato meccanismo di preventiva informazione al P.M. delle comunicazioni e conversazioni di dubbia rilevanza e di eventuale motivato decreto di “trascrizione coatta” potrebbe complicare l'attività della polizia giudiziaria, costretta ad un continuo carteggio con il P.M., e distoglierla dal suo compito istituzionale di investigazione, così come distrarre anche il P.M., impegnandolo nella motivazione di un decreto di trascrizione sommaria. Vi è da temere, perciò, che il sistema, nella pratica, si riduca al passaggio di comunicazioni prestampate tra polizia giudiziaria e autorità giudiziaria. La sequenza procedimentale impone un avvio immediato di tutti i verbali (contenenti anche le trascrizioni sommarie e le annotazioni della P.G.) e le registrazioni all'archivio riservato. Infatti, immediatamente dopo la scadenza del termine indicato nei provvedimenti di autorizzazione o di proroga per lo svolgimento delle operazioni, e quindi periodicamente, i verbali e le registrazioni delle comunicazioni o conversazioni sono trasmessi al pubblico ministero, per la conservazione nell'archivio riservato. Tuttavia il P.M. può disporre con decreto (non motivato) il differimento della trasmissione dei verbali e delle registrazioni, di regola destinate immediatamente all'archivio riservato, quando la prosecuzione delle operazioni rende necessario, «in ragione della complessità delle indagini», che l'ufficiale di polizia giudiziaria delegato all'ascolto consulti le risultanze acquisite, ma con lo stesso decreto il P.M. fissa le prescrizioni per assicurare la tutela del segreto sul materiale non trasmesso (art. 268, comma 4, c.p.p.). Il deposito per la difesa
Immediatamente dopo la conclusione delle operazioni di intercettazione, con il deposito per la difesa, cade il “segreto interno”. Infatti, il P.M., entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni, deposita nell'archivio riservato le annotazioni, i verbali delle operazioni e le registrazioni dei colloqui, unitamente ai decreti che hanno disposto, autorizzato, convalidato o prorogato l'intercettazione, e contestualmente forma l'elenco delle comunicazioni o conversazioni e dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche che il P.M. ritiene «rilevanti a fini di prova» (art. 268-bis, comma 1, c.p.p.). Ai difensori degli indagati è immediatamente dato avviso che, nel termine di dieci giorni (dalla ricezione dello stesso avviso), possono esercitare il loro diritto di difesa. Il termine è eventualmente prorogabile per non oltre altri dieci giorni ma non si comprende la ragione dell'imposizione del limite massimo, che potrebbe non essere sufficiente nelle indagini molto complesse. Comunque, entro tale termine i difensori hanno facoltà di esaminare gli atti, di prendere visione dell'elenco dei colloqui e dei flussi di comunicazioni che il P.M. ritiene rilevanti e utilizzabili, e solamente ascoltare le registrazioni e prendere cognizione dei flussi di comunicazioni, senza poterne estrarre copia, ex art. 268-bis, comma 2, c.p.p. Se dal deposito può derivare un «grave pregiudizio per le indagini», il Gip, può autorizzare, come in passato, un ritardato deposito non oltre la chiusura delle indagini preliminari, e quindi in vista del deposito successivo all'avviso di cui all'art. 415-bis c.p.p. oppure prima della richiesta di giudizio immediato (art. 268-bis, comma 3, c.p.p.). Resta da domandarsi quali siano le conseguenze nel caso in cui il P.M. non depositi gli atti relativi alle intercettazioni al termine delle operazioni. In fin dei conti, ciò è quello che è capitato sotto la previgente disciplina, la quale imponeva la selezione, lo stralcio e la trascrizione immediatamente dopo concluse le operazioni di intercettazione, ma è rimasta una prescrizione inapplicata. Il fatto che il termine sia previsto come meramente ordinatorio non elimina il grave vulnus per la riservatezza e per la difesa, quest'ultima tenuta all'oscuro della esistenza di atti di indagine. Tuttavia, se il P.M. non depositi tali atti nemmeno al momento della conclusione delle indagini, essi non possono essere ostesi tardivamente perché il fatto che siano stati sottratti alla conoscenza dei difensori, ha impedito l'esercizio del diritto di difesa (ad esempio, la possibilità di richiedere l'interrogatorio su quelle conversazioni o comunicazioni oppure di dedurre la controprova) e ne comporta l'inammissibilità e la conseguente inutilizzabilità. Diversa situazione si avrebbe se il P.M. non depositasse l'elenco dei colloqui e dei flussi di comunicazioni da lui ritenuti rilevanti e utilizzabili. È vero che i difensori non conoscerebbero le comunicazioni e conversazioni che il P.M. porrà a base della sua richiesta di trascrizione, tuttavia essi sono posti in grado di conoscere tutti i dialoghi e quindi anche apprezzarne la valenza accusatoria o difensiva, per cui l'omissione non sembra provocare una rilevante lesione del diritto di difesa. Poiché la legge delega per la selezione delle comunicazioni e conversazioni utilizzabili e rilevanti aveva prescritto una precisa scansione temporale, il Legislatore delegato ha introdotto una “procedura bifasica”: la prima fase consiste nel deposito di tutte le conversazioni e comunicazioni e dei relativi atti; la seconda riguarda l'acquisizione al fascicolo delle indagini da parte del giudice degli atti ritenuti utilizzabili e rilevanti, sulla base di un contraddittorio tra le parti, che può essere ordinariamente di tipo cartolare (attraverso richieste scritte, memorie e controdeduzioni), oppure con eventuale “udienza stralcio”. In realtà, la legge delega (comma 84 lett. a) nn. 2 e 4) ha voluto mantenere in vigore la «procedura di cui ai commi 6 e 7 del codice di procedura penale» cioè una selezione e la trascrizione immediata, subito dopo concluse le operazioni di intercettazione, mentre il Legislatore delegato l'ha soppressa e sostituita con gli artt. 268-bis, 268-ter e 268-quater c.p.p., i quali collocano nella fase delle indagini solo la selezione mentre la trascrizione può avvenire esclusivamente in dibattimento. Pertanto, sul punto sembra profilarsi un eccesso di delega, avendo il Legislatore delegato snaturato la procedura imposta dal delegante e reso possibile la trascrizione soltanto a dibattimento. Il nuovo sistema di acquisizione di verbali e registrazioni si caratterizza per la peculiarità del necessario previo passaggio al fascicolo delle indagini, in modo da consentirne la conoscenza ai difensori, prima della richiesta di trascrizione peritale in dibattimento. La procedura di acquisizione al fascicolo delle indagini è stata collocata nella fase delle indagini preliminari, immediatamente dopo l'avviso di deposito a chiusura delle operazioni, perché detta fase è stata ritenuta strutturalmente più adeguata per escludere già da questo momento le registrazioni inutilizzabili e ogni riferimento a persone solo occasionalmente coinvolte dall'attività di ascolto, al fine di impedire l'indebita divulgazione di fatti e riferimenti a persone estranee alla vicenda. Tuttavia non può escludersi l'eventualità che la valutazione sulla rilevanza e l'acquisizione possano avvenire successivamente. In questo caso, si prevede che, se sorga in udienza preliminare la necessità di acquisizione di prova decisiva ai fini della sentenza di non luogo a procedere, e questa sia costituita da conversazioni intercettate e non acquisite, alle operazioni di acquisizione provveda il giudice dell'udienza preliminare, osservando, «in quanto compatibili», le disposizioni degli artt. 268-ter c.p.p. per l'acquisizione al fascicolo delle indagini e 268-quater c.p.p. per la decisione del giudice.La modifica dell'art. 422 c.p.p. consente in questo modo al giudice dell'udienza preliminare una eccezionale attività di integrazione probatoria. È stato modificato anche l'art. 472 c.p.p., che ora prevede un'udienza dibattimentale riservata "a porte chiuse", per il caso in cui sorga la necessità di valutare richieste integrative di prova o richieste di revisione della decisione di rigetto da parte del giudice per le indagini preliminari, o ancora quando la rilevanza del materiale intercettativo non precedentemente acquisito si prospetti per la prima volta nel corso dell'istruzione dibattimentale. La disposizione è stata in questo modo adeguata alla pronuncia n. 255/2012 della Corte costituzionale, che aveva già suggerito una soluzione interpretativa costituzionalmente orientata, cioè quella di riconoscere al giudice, limitatamente al momento di acquisizione delle intercettazioni (ossia alla selezione delle comunicazioni utilizzabili e non manifestamente irrilevanti, destinate alla trascrizione mediante perizia, con stralcio delle rimanenti), il potere di disporre che il dibattimento si svolgesse a porte chiuse, in applicazione estensiva dell'art. 472, comma 2, c.p.p. In forza dell'art. 598 c.p.p., l'art. 472 c.p.p. è applicabile anche nel giudizio di appello, dato che in grado di appello si osservano, «in quanto applicabili», le disposizioni relative al giudizio di primo grado. Si è così introdotto un nuovo caso in cui si procede al dibattimento a porte chiuse. Pertanto, la selezione e il giudizio di rilevanza potrebbero essere formulati anche in dibattimento e addirittura in sede di giudizio di appello, ma in questi casi, previa richiesta di trascrizione peritale della registrazione, al fine della successiva acquisizione al fascicolo del dibattimento. Il P.M. può conseguire l'acquisizione al fascicolo delle indagini delle comunicazioni e conversazioni utilizzabili e rilevanti a fini di prova, secondo due diverse modalità. Una prima “modalità anticipata” di acquisizione, da parte dello stesso P.M., riguarda le comunicazioni o conversazioni utilizzate, nel corso delle indagini preliminari, per l'adozione di una misura cautelare (art. 268-ter, comma 1, c.p.p.). Essendovi stato un vaglio del Gip sulla rilevanza ed utilizzabilità delle comunicazioni e conversazioni, è superflua una nuova valutazione da parte del giudice. Ovviamente, non avendo la difesa partecipato alla selezione, il P.M., dopo l'esecuzione o la notificazione della misura cautelare, deve provvedere al deposito di tutte le comunicazioni, conversazioni e atti relativi, in modo che i difensori possano procedere alla selezione di quelle utilizzabili e rilevanti per la difesa. Il generico riferimento alla “misura cautelare” comprende sia quelle personali sia quelle reali (in realtà il solo sequestro preventivo, giacché quello conservativo non può aver luogo nella fase delle indagini preliminari), potendo entrambe le misure essere fondate sui risultati delle intercettazioni, sulle quali quindi è già intervenuto il vaglio del giudice della misura cautelare, ritenendole utilizzabili e rilevanti. Tale giudizio di rilevanza, che sarebbe stato preferibile configurare come esplicito ed emergente espressamente dalla motivazione dell'ordinanza cautelare, è invece stato disegnato come implicito, perché solo quelle che il Gip restituisce al P.M., a norma dell'art. 92, comma 1, norme att. c.p.p., sono esplicitamente dichiarate non rilevanti, mentre su tutte le altre intercettazioni, ancorché non menzionate nell'ordinanza cautelare, deve presumersi l'utilizzabilità e la rilevanza. In caso di avvenuta utilizzazione per l'adozione della misura cautelare, è lo stesso P.M. che, con un provvedimento che non potrà essere che un decreto non motivato, dispone l'acquisizione, con inserimento dei verbali e degli atti ad esse relativi nel fascicolo delle indagini. Non è escluso, però, l'intervento dei difensori con memorie e richieste di esclusione di alcune comunicazioni o conversazioni o di inclusione di altre, ritenute utilizzabili e rilevanti per la difesa. Non si può nemmeno escludere che lo stesso pubblico ministero possa avviare la procedura di “incidente di stralcio” davanti al Gip al fine di eliminare dal fascicolo delle indagini gli atti già ivi contenuti perché utilizzati in fase cautelare, ma dei quali egli ritenga successivamente l'irrilevanza e ne chieda quindi l'avvio all' “archivio riservato”. Anche in tal caso, ovviamente i difensori potranno operare le loro valutazioni e richieste. Come si è detto, il “giudice della cautela”, se tra gli atti allegati alla richiesta vi siano comunicazioni o conversazioni che egli reputa inutilizzabili o irrilevanti, ordina la restituzione al pubblico ministero per la custodia nell' “archivio riservato”. Tuttavia, tale valutazione del giudice della cautela non impedisce al pubblico ministero, dopo il deposito, di ritenerle invece rilevanti e quindi richiederne l'acquisizione al fascicolo delle indagini al Gip che ha autorizzato, prorogato o convalidato le intercettazioni. Come già osservato, tale “procedura anticipata” di acquisizione da parte dello stesso P.M. non esclude la difesa dalla procedura di selezione delle comunicazioni e conversazioni rilevanti e utilizzabili perché il P.M., dopo l'esecuzione della misura e comunque prima della conclusione delle indagini preliminari, deve mettere a disposizione della difesa tutto il materiale intercettato, compreso quello non posto a base della richiesta di misura cautelare, per consentire alla difesa e poi al giudice la ordinaria selezione prevista dagli artt. 268-ter e 268-quater c.p.p. Il P.M., dopo l'esecuzione della misura, deve quindi dare avviso ai difensori del deposito di tutti gli atti relativi alle intercettazioni, consentendo loro di interloquire con gli stessi tempi e modalità della procedura ordinaria. Questa prima modalità di acquisizione ci fa comprendere come il P.M. possa utilizzare gli atti relativi alle intercettazioni, sia prima di avviarli all' “archivio riservato”, sia dopo averveli già inviati, quando, sulla base di una sua valutazione, li ritiene utilizzabili e rilevanti, per porli a base della sua richiesta di misura cautelare. Tali atti, perciò, sono utilizzabili come elemento di prova anche prima di essere acquisiti al fascicolo delle indagini, visto che essi possono essere utilizzati per l'adozione di una misura cautelare. Naturalmente, come detto, il giudice della misura cautelare può essere di diverso avviso e, applicando la misura, restituire al P.M. gli atti che reputa inutilizzabili o irrilevanti, a norma dell'art. 92, comma 1, norme att. c.p.p., per l'avvio all' “archivio riservato”. La seconda modalità di acquisizione concerne, invece, le comunicazioni o conversazioni non utilizzate per l'adozione di una misura cautelare e sulle quali occorre quindi la valutazione di utilizzabilità e rilevanza del giudice. Infatti, «fuori dai casi di cui al comma 1», cioè per le comunicazioni e conversazioni non utilizzate per la richiesta cautelare, il pubblico ministero, entro cinque giorni dal deposito nell' “archivio riservato”, presenta al Gip la richiesta di acquisizione delle comunicazioni o conversazioni e dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche contenuti nell'elenco delle comunicazioni o conversazioni e dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche che il P.M. ritiene non solo utilizzabili, ma anche «rilevanti a fini di prova», dandone contestualmente comunicazione ai difensori (art. 268-ter, comma 2, c.p.p.). Solo a questo punto è possibile, anche se talvolta molto arduo, l'esercizio, “al buio”, del diritto di difesa, cioè sulla base soltanto dei dati relativi al giorno, ora e apparecchio intercettato e solo mediante l'ascolto di tutte le registrazioni, ma senza poterne estrarne copia. I difensori degli indagati, nel termine di dieci giorni (termine ordinatorio, che può essere prorogato dal giudice per un periodo non superiore a dieci giorni, in ragione della «complessità del procedimento e del numero delle intercettazioni») dalla ricezione dell'avviso di deposito, hanno facoltà di richiedere l'acquisizione delle comunicazioni o conversazioni e dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche, che essi ritengono utilizzabili e rilevanti a fini di prova, non compresi nell'elenco formato dal pubblico ministero, ovvero possono chiedere l'eliminazione di quelli, ivi indicati, che essi reputano inutilizzabili o di cui è vietata la sommaria trascrizione (art. 268-ter, comma 3, c.p.p.). Il termine a difesa di appena dieci giorni appare irrisorio, anzi derisorio, a fronte della durata delle intercettazioni, durante la quale il P.M. ha avuto nell'arco di mesi il tempo per valutare rilevanza e utilizzabilità delle conversazioni e comunicazioni captate. L'elenco dei difensori, unitamente agli atti allegati, è depositata nella segreteria del pubblico ministero che ne cura l'immediata trasmissione al Gip (art. 268-ter, comma 4, c.p.p.). Tuttavia sia il pubblico ministero sia i difensori, sino alla decisione del giudice, possono integrare le richieste e presentare memorie (art. 268-ter, comma 5, c.p.p.) e il pubblico ministero, in relazione alle comunicazioni o conversazioni utilizzate per l'adozione di una misura cautelare, può chiedere al Gip, con le modalità e nei termini indicati dai commi precedenti, l'eliminazione dal fascicolo dei verbali e delle registrazioni di cui ritiene, per elementi sopravvenuti, l'irrilevanza (art. 268-ter, comma 6, c.p.p.). Mentre in precedenza tutte le registrazioni confluivano automaticamente nel fascicolo delle indagini, per cui lo “stralcio” di quelle utilizzabili e rilevanti da parte del P.M. e dei difensori avveniva sull'intero materiale registrato e già contenuto nel fascicolo delle indagini, la riforma impone un macchinoso sistema per l'acquisizione a quest'ultimo fascicolo. Il P.M. deve depositare per la difesa tutte le registrazioni, annotazioni e verbali, e inoltre, entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni, deve indicare in un elenco del P.M. quelle delle quali chiede l'acquisizione al fascicolo delle indagini, con contestuale avviso ai difensori (art. 268-bis c.p.p.), i quali potranno solamente ascoltare le registrazioni ed esaminare gli atti, per poter indicare, in un loro “elenco”, quelle utilizzabili e rilevanti per la difesa. È un'autentica novità che un atto d'indagine possa confluire nel fascicolo delle indagini soltanto previa autorizzazione del Gip, al quale devono essere trasmessi tutti gli atti già depositati, comprese le registrazioni, in modo da dare al giudice la possibilità di ascoltarle. Ma nelle indagini complesse è praticamente impossibile che il giudice possa ascoltare tutte le registrazioni ed il rischio è che questi si limiti ad autorizzare quanto richiesto dal P.M., anche perché non si tratta di acquisire la prova ma soltanto di ammissione al fascicolo delle indagini. Si giocherà su questo nuovo fronte l'efficacia di giudice di garanzia delle intercettazioni, una nuova competenza funzionale attribuita al Gip, un particolare incidente non probatorio dagli effetti limitati all'acquisizione nel fascicolo delle indagini degli atti relativi alle intercettazioni. Insomma, così come il Gup, dopo aver emesso il decreto che dispone il giudizio, forma il fascicolo per il dibattimento, così il Gip acquisisce al fascicolo delle indagini le intercettazioni utilizzabili e rilevanti. Se nessuna delle parti, nel termine stabilito, indicasse al giudice le comunicazioni o conversazioni da acquisire, il Gip dovrebbe restituire tutti gli atti al P.M. per avviarli all'archivio riservato. L'art. 268-quater c.p.p. disciplina i termini e le modalità della decisione del Gip sull'acquisizione al fascicolo delle indagini delle registrazioni utilizzabili e rilevanti, prevedendo due possibilità, de plano oppure in seguito a udienza stralcio partecipata. Secondo la prima modalità, il Gip, eventualmente ascoltando le conversazioni e comunicazioni, decorsi cinque giorni dalla presentazione delle richieste, dispone con ordinanza, emessa in camera di consiglio non partecipata, cioè senza l'intervento del pubblico ministero e dei difensori, l'acquisizione delle conversazioni e comunicazioni indicate dalle parti, salvo che siano «manifestamente irrilevanti», e ordina, anche d'ufficio, lo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l'utilizzazione. Si tratta di un contraddittorio tra le parti di tipo cartolare con richieste scritte e memorie, che non sembra però contrastare con l'art. 24, comma 2, Cost. (art. 268-quater, comma 1, c.p.p.). La seconda modalità di acquisizione è possibile nell'udienza stralcio. Infatti, quando invece il Gip lo ritiene necessario, per avere chiarimenti dalle parti sulle ragioni delle rispettive istanze, può fissare, entro il quinto giorno successivo alla scadenza del termine (ordinatorio) di cinque giorni dalla presentazione delle richieste, l'udienza camerale “partecipata”, con tempestivo avviso al pubblico ministero e ai soli difensori, i quali hanno facoltà di presenziare e, in esito ad essa, il Gip decide con ordinanza sull'acquisizione (art. 268-quater, comma 2, c.p.p.). Gli atti e i verbali relativi a comunicazioni e conversazioni non acquisite sono immediatamente restituiti al pubblico ministero per la conservazione nell' “archivio riservato” (art. 268-quater, comma 5, c.p.p.). L'ordinanza di acquisizione fa venir meno il segreto investigativo sugli atti e i verbali delle conversazioni e comunicazione acquisite, i quali sono inseriti nel fascicolo delle indagini e sono perciò pubblicabili nel loro contenuto, ex art. 114, comma 7, c.p.p. Solo a questo punto ai difensori è consentito di far eseguire la trasposizione delle registrazioni acquisite su supporto informatico o altro strumento idoneo alla riproduzione dei dati e di ottenere copia dei verbali delle operazioni concernenti le comunicazioni e conversazioni acquisite. La Relazione illustrativa del decreto in commento definisce l'archivio riservato come il "luogo della segretezza investigativa" ma sarebbe meglio definirlo come la “cassaforte delle intercettazioni”. In esso, infatti, il P.M., appena concluse le operazioni di intercettazione, ha l'obbligo di avviare le registrazioni, i relativi verbali e le annotazioni, per la loro custodia. Soltanto previa valutazione di utilizzabilità e rilevanza da parte del giudice, tali atti possono transitare prima nel fascicolo delle indagini e da questo, poi, previa richiesta di prova e trascrizione peritale, al fascicolo del dibattimento, secondo il modello del procedimento probatorio. Pertanto, appena concluse le operazioni di intercettazione, tutti i verbali e le registrazioni e ogni altro atto ad esse relativo (compresi anche i decreti e le annotazioni) sono conservati integralmente nell'archivio riservato presso l'ufficio del procuratore della Repubblica che ha richiesto ed eseguito le intercettazioni; essendo coperti da segreto ex art. 269, comma 1, c.p.p. è vietata, a norma dell'art. 114, comma 1, c.p.p., la pubblicazione anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, sia dell'atto o anche solo del suo contenuto. Oltre al P.M. e ai suoi ausiliari, compresi gli ufficiali di P.G. “delegati all'ascolto”, è consentito in ogni caso al giudice per le indagini preliminari e ai difensori dell'imputato, per l'esercizio dei loro diritti e facoltà, l'accesso all'archivio riservato e l'ascolto delle conversazioni o comunicazioni registrate (art. 269, comma 1, c.p.p.). I divieti di utilizzazione
È rimasto immutato l'art. 270-bis c.p.p. che disciplina le comunicazioni di servizio di appartenenti al Dipartimento delle informazioni per la sicurezza e ai servizi di informazione per la sicurezza e il relativo divieto di utilizzazione per esistenza del segreto di Stato. Anche l'art. 271 c.p.p., che riguarda i divieti di utilizzazione, è rimasto immutato nel comma 1, per cui i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati qualora le stesse siano state eseguite «fuori dei casi consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le disposizioni previste dagli artt. 267 e 268, commi 1 e 3» c.p.p. È stato invece aggiunto un nuovo divieto di utilizzazione, per cui «non sono in ogni caso utilizzabili i dati acquisiti nel corso delle operazioni preliminari all'inserimento del captatore informatico sul dispositivo elettronico portatile e i dati acquisiti al di fuori dei limiti di tempo e di luogo indicati nel decreto autorizzativo» (art. 271, comma 1-bis, c.p.p.). Con il decreto legislativo il segreto investigativo viene ampliato inserendo, tra gli atti coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari, anche le richieste del pubblico ministero di autorizzazione al compimento di atti di indagine (come la richiesta di intercettazione) e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste (come i decreti che autorizzano, prorogano o convalidano l'intercettazione), che perciò non sono pubblicabili (art. 329 c.p.p.). È evidente la ragione della segretezza, funzionale a un proficuo svolgimento di un atto a sorpresa come le intercettazioni, fino a quando i difensori non ne possano avere conoscenza con il successivo deposito integrale. Al contrario, mentre resta vietata, in generale, la pubblicazione degli atti non più coperti dal segreto investigativo fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare, è introdotta l'eccezione per l'ordinanza cautelare di cui all'art. 292 c.p.p., che quindi è pubblicabile non solo nel suo contenuto ma integralmente. In realtà tale ordinanza, così come la relativa richiesta del P.M., erano già in precedenza pubblicabili in quanto atti non segreti . Il decreto legislativo si limita a prevedere la pubblicabilità dell'ordinanza cautelare, che, in realtà, è già oggi pubblicabile perché non è né un atto di indagine ex art. 114 c.p.p., né un atto del P.M. Si stabilisce invece che la pubblicabilità dell'ordinanza decorra dal 26 gennaio 2019, cioè dopo un anno di osservazione sulla tecnica di redazione dell'ordinanza. Il Legislatore avrebbe, invece, dovuto, più opportunamente, prevedere la pubblicabilità dell'ordinanza soltanto dopo la sua esecuzione o notificazione, per evitare di frustrane la finalità coercitiva. In conclusione, a nostro modo di vedere, sono ormai maturi i tempi per ritenere sicura la neutralità cognitiva del giudice e consentire agli organi di informazione l'accesso diretto agli atti delle indagini non più segreti, riconoscendo loro, come richiedono da anni, l'interesse che ex art. 116 c.p.p. li legittima a ottenere copia degli atti di indagine non più segreti, senza dover, come oggi, piatire la velina al P.M. o ai difensori. In questo modo sarebbe garantita un'informazione giudiziaria equilibrata e completa, che, rispettando la presunzione d'innocenza dell'imputato, dia ai cittadini una corretta immagine dell'amministrazione della giustizia, la quale deve essere una casa di vetro e non un tempio oscuro e chiuso, se vogliamo che la stampa sia davvero “il cane da guardia della democrazia”, come la definì la Corte europea dei diritti dell'uomo nella nota sentenza Goodwin v. Regno unito. La disciplina dell'utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi è rimasta sostanzialmente immutata. Pertanto, i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, «salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza» (art. 270, comma 1, c.p.p.). Si è aggiunto che i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile non possono essere utilizzati «per la prova di reati diversi» da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza (art. 270, comma 1-bis, c.p.p.). Si è inteso, in questo modo, vietare la cosiddetta intercettazione “a strascico” delle notizie di reato. Il procedimento applicativo delle misure cautelari
Si raccomanda, lasciando al senso di responsabilità del magistrato del P.M. e del Gio, di riportare nei loro atti, «quando è necessario», soltanto i «brani essenziali delle comunicazioni e conversazioni intercettate» (art. 291, comma 1-ter, e art. 292, comma 2-quater, c.p.p.), ma vi è il rischio che, senza alcuna sanzione, si perpetui la diffusione dei brani integrali, dal momento che l'elasticità nella valutazione sulla “necessarietà” e sulla “essenzialità” degli stessi ne potrebbe consentire la pubblicazione. Dopo l'esecuzione o la notificazione dell'ordinanza cautelare, il difensore ha diritto di esame e di copia degli atti posti a fondamento della richiesta e quindi eventualmente anche dei verbali delle comunicazioni e conversazioni intercettate e dei relativi decreti, ed ha in ogni caso diritto alla trasposizione, su supporto idoneo alla riproduzione dei dati, delle relative registrazioni (art. 293 c.p.p.). Il Legislatore si è così doverosamente adeguato al dictum della sentenza n. 336/ 2008 della Corte costituzionale. Le intercettazioni per la ricerca del latitante
Resta immutata la disciplina delle intercettazioni disposte «al fine di agevolare le ricerche del latitante» (art. 295, comma 3, c.p.p.), che è stata soltanto adeguata ai modificati riferimenti normativi. Si conferma infatti che, al fine di agevolare le ricerche del latitante, il giudice o il pubblico ministero, nei limiti e con le modalità previste dagli artt. 266 e 267 c.p.p., possono disporre l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione. Si applicano, «ove possibile», le disposizioni degli artt. 268 (per l'esecuzione delle operazioni), 268-bis (quanto al deposito di verbali e registrazioni), 268-ter (relativamente all'acquisizione al fascicolo delle indagini), 268-quater (per quanto riguarda la decisione del giudice), 269 (che disciplina l' “archivio riservato”) e 270 (ai fini dell'utilizzabilità in procedimenti diversi) c.p.p. Non è invece richiamato l'art. 271 c.p.p. perché i risultati delle intercettazioni disposte per la ricerca del latitante non possono avere valore probatorio e quindi non possono nemmeno essere dichiarati inutilizzabili. La trascrizione
La trascrizione peritale delle registrazioni è stata posticipata al dibattimento, al momento delle richieste di prova. L'art. 493-bis c.p.p., rubricato Trascrizione delle intercettazioni, stabilisce infatti che il giudice «dispone, su richiesta delle parti, la trascrizione delle registrazioni ovvero la stampa in forma intellegibile delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche acquisite». Per le operazioni di trascrizione e stampa si osservano «le forme, i modi e le garanzie previsti per l'espletamento delle perizie». Pertanto, se la perizia trascrittiva fosse eseguita senza consentire l'intervento del difensore o del suo consulente tecnico, sarebbe viziata da nullità “a regime intermedio”, ai sensi degli artt. 178, comma 1 lett. c), e 180, c.p.p. Delle trascrizioni, delle registrazioni e delle stampe le parti possono estrarre copia. Poiché la norma prevede che il giudice «dispone» la trascrizione richiesta, sembrerebbe trattarsi di una richiesta di prova sottratta ai parametri di valutazione di cui all'art. 190 c.p.p. ma non sembra ragionevole che il giudice dibattimentale non possa disattendere la richiesta stessa per il fatto che un giudizio di rilevanza è stato già espresso nella precedente fase acquisitiva. In realtà, l'art. 190 c.p.p. è strutturato letteralmente nello stesso modo («le prove sono ammesse a richiesta di parte»), ma non si può dubitare dell'operatività dei principi generali in materia di prova, per cui è ovvio che il giudice deve escludere la trascrizione delle intercettazioni vietate dalla legge e di quelle manifestamente superflue o irrilevanti. È discutibile se il giudice del dibattimento possa disporre d'ufficio, ex art. 507 c.p.p., la trascrizione peritale delle registrazioni, «quali nuovi mezzi di prove». Certamente la natura del potere ufficioso del giudice nel processo accusatorio porterebbe ad escludere una perizia trascrittiva d'ufficio, ma la giurisprudenza ha sempre ammesso la perizia d'ufficio e le Sezioni unite hanno accolto l'interpretazione più estensiva dell'art. 507 c.p.p., precisando che per «prova nuova» deve intendersi ogni prova non disposta precedentemente, senza che assumano rilevanza i motivi relativi all'origine della mancata assunzione. Inoltre, le Sezioni Unite hanno affermato che le parole «terminata l'acquisizione delle prove» indicano "il punto dell'istruzione dibattimentale in cui può avvenire l'ammissione delle prove", e "non il presupposto per l'esercizio del potere del giudice" (Cass., Sez. un., 6 novembre 1992, Martin). Anche la Corte costituzionale, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 111/1993, ha avallato tale interpretazione, dichiarando non fondata la questione di legittimità dell'art. 507 c.p.p. per violazione degli artt. 2, 3, 24, 101, 102, 111 e 113 Cost. e considerando la disposizione processuale come attributiva al giudice di un potere di integrazione probatoria suppletivo ma non eccezionale. Il nuovo reato di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente
È stata introdotta nel codice penale una nuova norma incriminatrice, rubricata Diffusione di riprese e registrazioni fraudolente, la quale punisce con la reclusione fino a quattro anni chiunque, al fine di recare danno all'altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati o registrazioni, pur esse fraudolente, di conversazioni, anche telefoniche o telematiche, svolte in sua presenza o con la sua partecipazione. La punibilità è esclusa se la diffusione delle riprese o delle registrazioni deriva in via diretta ed immediata dalla loro utilizzazione in un procedimento amministrativo o giudiziario o per l'esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca. Il delitto è punibile a querela della persona offesa (art. 617-septies c.p.). Il giudizio sulla nuova disposizione è positivo, giacché essa mira ad offrire una maggiore protezione alla privacy. Si tratta di una sorta di diffamazione non a mezzo stampa, ma a mezzo di riprese o registrazioni fraudolentemente compiute. L'unico accenno critico riguarda la limitazione del soggetto agente, che deve aver posto in essere la duplice condotta di partecipazione alla registrazione o all'incontro e di successiva diffusione. A nostro parere, per assicurare una reale tutela della reputazione, la norma penale incriminatrice dovrebbe essere estesa anche al soggetto che, pur non avendo partecipato alle riprese audio o video dell'incontro privato né alle registrazioni delle conversazioni, ma avendole da altri ricevute, le diffonda al fine di recare danno all'altrui reputazione. Le disposizioni transitorie
È stabilita una graduale entrata in vigore delle diverse disposizioni del decreto legislativo. In particolare è entrato immediatamente in vigore il 26 gennaio, dopo la ordinaria vacatio legis, sia la disposizione penale incriminatrice di cui all'art. 1 del decreto che introduce il reato di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente (art. 617-septies c.p.), sia l'art. 6, che prevede la “semplificazione” per l'intercettazione nei procedimenti per gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Saranno efficaci dopo centottanta giorni dall'entrata in vigore del decreto le disposizioni degli artt. 2, 3, 4, 5 e 7 del decreto, mentre l'art. 2, comma 1, lett. b), del decreto, che consente la pubblicazione dell'ordinanza cautelare, acquista efficacia decorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto. In conclusione
La riforma Orlando lascia un po' tutti insoddisfatti in materia di intercettazioni. I pubblici ministeri criticano l'attribuzione alla polizia giudiziaria della prima valutazione sulla rilevanza delle comunicazioni e conversazioni intercettate. I penalisti denunciano la compromissione del diritto di difesa per l'impossibilità in pochi giorni di esaminare il materiale raccolto in mesi di intercettazioni. I giornalisti vedono nel nuovo provvedimento, che oblitera nell'archivio riservato notizie di pubblico interesse, un “bavaglio alla stampa”. In effetti, il Legislatore, che aveva dichiarato di voler rendere più equilibrata la salvaguardia di interessi parimenti meritevoli di tutela a livello costituzionale, volendo tutelare la privacy, ha invece rafforzato le esigenze connesse all'indagine e si è dimenticato di attuare, da una parte, la presunzione di innocenza dell'imputato, il quale dalle cronache giudiziarie è sempre descritto come il colpevole, dall'altra i diritti processuali della persona offesa dal reato, esclusa dalla procedura di selezione delle intercettazioni. La riforma, che era stata annunciata come la panacea di tutti i mali che finora colpivano questo mezzo di ricerca della prova, si è rivelata, invece, un complicato sistema di “trascrizioni sommarie” e “annotazioni” da parte della polizia giudiziaria (alla quale è attribuito il delicato compito di valutare la rilevanza, che, in prima battuta, è assai difficile), ma con successiva verifica ed eventuale decreto di “trascrizione coatta” del P.M., ed un ulteriore macchinoso procedimento per l'acquisizione al fascicolo delle indagini, soltanto al fine di evitare che vi entri ciò che è irrilevante per le indagini; mentre l'accertamento del contenuto mediante la trascrizione peritale diventa un'eventualità e comunque sempre in dibattimento. Di conseguenza, ci si deve affidare alla “sommaria trascrizione” della P.G. non solo durante le indagini preliminari ma pure in udienza preliminare e nei riti speciali, i quali saranno ovviamente disincentivati. In fondo si intravede una punta di sfiducia nei confronti della tenuta della segretezza delle segreterie delle procure, dalle quali evidentemente si teme - ad onta del loro nome - una “fuga di segreti”, dal momento che il materiale intercettativo non confluisce più, come prima automaticamente, nel fascicolo delle indagini, ma deve essere immediatamente avviato al più sicuro “archivio riservato”. Forse, per evitare indebite propalazioni, sarebbe bastato lasciare inalterato il sistema normativo, blindando le segreterie delle procure della Repubblica.
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