Pari opportunitàFonte: D.Lgs. 11 aprile 2006 n. 198
31 Gennaio 2018
Inquadramento
Attraverso il principio di pari opportunità, l'ordinamento, di concerto con la normativa sovranazionale, si prefigge di realizzare l'uguaglianza giuridica e sociale fra uomini e donne, stabilendo un giusto rapporto fra i sessi. Lo scopo ultimo delle politiche e della normazione in materia di pari opportunità, in particolar modo nell'ambito lavorativo, è quello di dare vita ad un insieme di iniziative volte al superamento di condizioni sfavorevoli alla realizzazione di un'effettiva parità uomo-donna.
La parità di trattamento, corollario del concetto sopra riportato, rappresenta il risultato dei progetti di pari opportunità e si concretizza nell'assenza di discriminazioni - dirette o indirette - fondate su uno o più dei c.d. fattori di rischio (ad es. genere, razza e origine etnica, orientamento sessuale ecc.).
In tale contesto, la legislazione antidiscriminatoria rappresenta la modalità di attuazione del principio di pari opportunità e di parità di trattamento ed è identificabile in quel complesso di normazione speciale, tipica e tassativa, la quale sancisce il divieto di porre in essere atti idonei a diversificare in senso sfavorevole il trattamento di soggetti che versano in una situazione di particolare debolezza. Nel nostro ordinamento il divieto di discriminazione è stato oggetto di un'evoluzione protrattasi nel tempo che ha trovato una disciplina organica - per quanto concerne le discriminazioni di genere oggetto della presente trattazione - nel cd. Codice delle pari opportunità fra uomo e donna di cui al D.Lgs. n. 198/2006.La normativa sovranazionale
Il principio di non discriminazione trova programmatica menzione nella Convenzione OIL n. 111/1958 avente ad oggetto proprio la discriminazione in materia di impiego e nelle professioni. Qui viene specificato che il termine "discriminazione" comprende sia la distinzione o preferenza fondata sulla razza, sul colore, sulla religione, sull'opinione politica, la discendenza nazionale o l'origine sociale, sia ogni altra distinzione che abbia per effetto quello di negare o alterare l'uguaglianza di possibilità o di trattamento in materia d'impiego o di professione.
Il principio di non discriminazione trova esplicito riconoscimento normativo nelle fonti di diritto primario dell'Unione Europea e rappresenta corollario del più generale principio di parità, in senso formale e sostanziale, tra tutti gli individui. Esso è riconosciuto dall'art. 19 del Trattato sul funzionamento dell'UE, il quale attribuisce al Consiglio il potere di adottare all'unanimità, secondo procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni. Infine, la Carta dei diritti fondamentali dell'UE, siglata a Nizza il 7 dicembre 2000, ribadisce il principio della parità sessuale in tutti i campi, compreso quello dell'occupazione, del lavoro e della retribuzione ( art. 23 L. n. 300/1970), vietando tassativamente, all' art . 21 L. n. 300/1970, ogni discriminazione.
Dal 2000 ad oggi sono state approvate specifiche direttive con le quali è stato generalizzato il modello della parità uomo-donna, tra cui:
La normativa nazionale
Nel nostro ordinamento il principio di non discriminazione, che trae fondamento dal principio di uguaglianza sancito dall' art. 3 della Costituzione, trova una prima realizzazione con lo Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970) il quale introduce il divieto di discriminazione dei lavoratori per motivi sindacali, politici e religiosi, attraverso la generale previsione degli artt. 15 e 16 L. n. 300/1970(quest'ultimo espressamente dedicato al divieto di concessione di trattamenti economici di maggior favore aventi carattere discriminatorio).
In particolare, la sanzione della nullità degli atti o patti a fini discriminatori sindacali, in ragione dell'appartenenza o dell'attività sindacale, prevista dall'originario art. 15 L. n. 300/1970dello Statuto , è stata estesa sin da subito alle discriminazioni politiche e religiose nonché, attraverso successivi interventi di legislazione speciale, alle ragioni di razza, lingua e sesso (attraverso la L. n. 903/1977) e, ancora, alle situazioni di handicap, età, orientamento sessuale e convinzioni personali (con il D.Lgs. 216/2003), in attuazione del principio costituzionale di parità salariale e di parità normativa di cui all'art. 37 della Costituzione, secondo il quale la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, deve usufruire delle stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.
Ad oggi, il Codice delle Pari Opportunità raccoglie e riorganizza, all'interno del testo unico introdotto con il D.Lgs. 11 aprile 2006 n. 198 , tutti i provvedimenti esistenti nella legislazione italiana in materia di parità e pari opportunità. Il Titolo I del Libro III del Codice, che ha introdotto un'apposita disciplina in materia di pari opportunità in ambito lavorativo, merita in questa sede disamina particolare.
Per le eventuali fattispecie non tipizzate relative alle discriminazioni sul lavoro, la disciplina di riferimento resta quella degli artt. 1343 e 1345 del codice civile, in base ai quali l'intento discriminatorio rileva come illiceità del motivo unico determinante di un particolare (e viziato) comportamento datoriale.
La discriminazione diretta e indiretta
A norma dell' art. 25 , d.lgs, 198/2006 comma 1, del Codice delle Pari Opportunità costituisce discriminazione diretta ogni disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l'ordine di porre in essere un atto o un comportamento che produca un effetto pregiudizievole, discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso o, comunque, che dia origine ad un trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga. Tale formulazione conferma che per aversi discriminazione sessuale non è necessaria la sussistenza dell'intento discriminatorio, ma è sufficiente una oggettiva disparità di trattamento.
Il comma 2 dell'art. 25 citato definisce, invece, discriminazione indiretta ogni disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che, seppur apparentemente neutro, sia idoneo a porre i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a quelli dell'altro sesso. Per escludere il carattere discriminatorio del trattamento pregiudizievole in ragione dell'appartenenza di genere, dato il criterio neutro previsto dalla norma, è richiesta la dimostrazione dell'essenzialità di esso allo svolgimento dell'attività lavorativa.
Le discriminazioni di cui sopra possono manifestarsi anche sotto forma di discriminazioni c.d. "doppie o sovrapposte", "multiple o incrociate", ed ancora "trasversali", ossia ipotesi in cui la persona danneggiata cumula in sé differenti momenti di debolezza e svantaggio sociale, ciascuno dei quali riportabile a specifico fattore discriminatorio, e che, interagendo tra loro, producono ricadute negative esponenziali (ad es. nei casi in cui viene cumulato il fattore età a quello di genere).
La formulazione degli articoli del Codice delle Pari Opportunità rende, altresì, esplicita l'applicabilità del divieto di discriminazione anche ai trattamenti pregiudizievoli a danno degli uomini, confermando il carattere “bidirezionale” della disciplina (ad es. nei casi di cura dei figli, ove è discriminatorio il diniego dei riposi giornalieri e del congedo di malattia per il figlio, opposto al padre in virtù del lavoro casalingo della madre). Le pari opportunità, quindi, nella tensione volta al raggiungimento dell'uguaglianza sostanziale tra i generi, rappresentano anche il criterio guida per impedire la discriminazione maschile (c.d. discriminazione alla rovescia).
Le discriminazioni vietate dal Codice delle Pari Opportunità
La tutela antidiscriminatoria è riconosciuta in caso di: a) condotte integranti molestie ( art. 26 d.lgs, 198/2006 ), individuate in quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. La tutela antidiscriminatoria è estesa a quei comportamenti indesiderati ad evidente connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale. Conseguenza di tale disposizione è che gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro delle vittime delle molestie sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti medesimi. Del pari, discriminatori sono i trattamenti sfavorevoli posti in essere da parte del datore di lavoro ove costituiscano la reazione ad un reclamo o ad un'iniziativa volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne; La Legge di Bilancio 2018 rafforza, ora, la tutela del lavoratore contro le molestie, stabilendo espressamente che colui che agisce in giudizio per la dichiarazione di atti discriminatori sotto forma di molestie non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura che possa incidere negativamente, in modo diretto o indiretto, sulle sue condizioni di lavoro. Ne consegue che secondo la nuova disposizione sono nulli i provvedimenti di licenziamento ritorsivi o discriminatori, nonché quelli aventi ad oggetto mutamenti di mansioni ed ogni altra misura ritorsiva o discriminatoria adottati nei confronti del denunciante, il cui fondamento risieda nella denuncia medesima. b) discriminazioni nell'accesso al lavoro, orientamento, formazione e aggiornamento professionale ( art. 27 d.lgs, 198/2006 ), indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale. La tutela opera anche se la discriminazione sia attuata (i) attraverso il riferimento allo stato matrimoniale, di famiglia o di gravidanza oppure (ii) in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione ovvero a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l'appartenenza all'uno o all'altro sesso; c) discriminazione retributiva, nell'attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e nella progressione di carriera ( art t . 28 d.lgs, 198/2006 eart. 29 d.lgs, 198/2006 ). In particolare, il Codice sancisce che la lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore, specificando altresì che i sistemi di classificazione professionale, ai fini della determinazione delle retribuzioni, devono adottare criteri comuni per uomini e donne; e) discriminazione nell'accesso alle prestazioni previdenziali e pensionistiche ( art. 30 d.lgs, 198/2006 ), che codifica il diritto, per le lavoratrici in possesso dei requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia, di proseguire il rapporto di lavoro fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini. Per quanto riguarda gli assegni familiari, le aggiunte di famiglia e le maggiorazioni delle pensioni per familiari a carico, tali sovvenzioni possono essere corrisposte, in alternativa, alla donna lavoratrice o pensionata alle stesse condizioni e con gli stessi limiti previsti per il lavoratore o pensionato. Le prestazioni ai superstiti, erogate dall'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, gestita dal Fondo pensioni per i lavoratori dipendenti, sono estese, alle stesse condizioni previste per la moglie dell'assicurato o del pensionato, al marito dell'assicurata o della pensionata; f) discriminazione nelle forme pensionistiche complementari e collettive ( art. 30- bisd.lgs, 198/2006 ), per cui il divieto di discriminazione si estende al campo d'applicazione di tali forme pensionistiche e relative condizioni di accesso, all'obbligo di versare i contributi e al calcolo degli stessi, nonché al calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni da corrispondere per il coniuge e per le persone a carico e alle condizioni relative; g) discriminazione nell'accesso agli impieghi pubblici ( art. 31 d.lgs, 198/2006 ), secondo cui la donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge, tra i quali è espressamente escluso quello dell'altezza (ad eccezione di casi particolari individuati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) e fatte salve speciali disposizioni relative al Corpo nazionale dei vigili del fuoco; h) discriminazione per causa di matrimonio ( art. 35 d.lgs, 198/2006 ), che prevede la sanzione della nullità sia per quelle clausole, contenute nei contratti individuali e collettivi, o in regolamenti, che prevedono la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio, sia per i licenziamenti attuati a causa di matrimonio. In particolare, il Codice prevede una presunzione di nullità del licenziamento della dipendente ove comminato nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, fino a un anno dopo la celebrazione stessa, ad eccezione del caso in cui il datore di lavoro riesca a provare che il recesso è dovuto a giusta causa, cessazione dell'attività aziendale cui la lavoratrice era addetta, oppure ultimazione della prestazione o risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine.
Le deroghe al principio di parità di genere
Lo stesso 27 del Codice delle Pari Opportunità prevede che eventuali deroghe ai divieti di discriminazione nell'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale siano ammesse soltanto per mansioni di lavoro particolarmente pesanti individuate attraverso la contrattazione collettiva (quest'ultima, tuttavia, non è ancora strumento pregnante di intervento).
Non costituisce, inoltre, condotta discriminatoria il condizionare all'appartenenza ad un determinato sesso l'assunzione in attività della moda, dell'arte e dello spettacolo, quando ciò sia essenziale alla natura del lavoro o della prestazione.
Tale elencazione non ha evidentemente carattere tassativo, come confermato dalle stesse previsioni europee, che permettono agli Stati membri di “stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica specifica di un sesso non costituisca discriminazione laddove, per la particolare natura delle attività lavorative di cui trattasi o per il contesto in cui esse vengono espletate, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e il requisito proporzionato" ( dir. 2006/54/CE ).
I Consiglieri e le Consigliere di parità
Il Codice ha introdotto - a livello nazionale, regionale e provinciale - la figura del Consigliere/a di parità, con il compito di svolgere funzioni di promozione e di controllo dell'attuazione dei principi di uguaglianza, di opportunità e di non discriminazione tra donne e uomini nel lavoro.
Nell'esercizio delle loro funzioni, i Consiglieri di parità sono pubblici ufficiali e hanno l'obbligo di segnalare all'autorità giudiziaria la commissione di reati di cui vengano a conoscenza nell'esercizio delle loro funzioni. A tal fine, costoro intraprendono ogni iniziativa utile al rispetto del principio di non discriminazione e della promozione di pari opportunità per lavoratori e lavoratrici, programmando iniziative efficaci a livello territoriale.
I Consiglieri di parità sono dotati di legittimazione processuale propria, esercitabile sia nell'ambito di azioni “collettive” a tutela di quelle situazioni di rischio potenzialmente comuni ad una vastità di soggetti, sia nell'ambito di azioni individuali promosse dai singoli lavoratori, purché in presenza di apposita delega. La repressione delle discriminazioni
L'azione individuale
Per la tutela della parità di trattamento, il soggetto discriminato ha a sua disposizione, se non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, sia l'ordinaria azione in giudizio, sia il tentativo di conciliazione, tramite i Consiglieri di parità territorialmente competenti.
L' art. 38 d.lgs. 198/2006 del Codice delle Pari Opportunità prevede un ulteriore rimedio - alternativo all'azione ordinaria - per reprimere le discriminazioni sul posto di lavoro, costituito dalla speciale procedura d'urgenza, attivata dal lavoratore o, per sua delega, dalle organizzazioni sindacali e dalle altre associazioni e organizzazioni rappresentative in materia, o dai Consiglieri di parità territorialmente competenti. In questo caso, il soggetto discriminato può ricorrere al tribunale, in funzione di giudice del lavoro, del luogo ove è avvenuto il comportamento denunziato. Nei due giorni successivi alla presentazione del ricorso, il giudice convoca le parti e assume sommarie informazioni e, se ritiene sussistente la violazione di cui allo scritto introduttivo, ordina all'autore della condotta contestata, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. L'inottemperanza al decreto da parte del soggetto condannato è punita con un'ammenda fino ad Euro 50.000 o con l'arresto fino a 6 mesi.
Contro il decreto è ammessa, entro 15 giorni dalla comunicazione alle parti, opposizione davanti alla medesima autorità giudiziaria, che decide con sentenza immediatamente esecutiva.
Sia in caso di ricorso ordinario che in caso di procedimento ex art. 38 d.lgs, 198/2006 del Codice, il giudice, ove richiesto, può condannare l'autore della discriminazione al risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell' art. 2059 c.c. Il danno non è in re ipsa, ma occorre che venga dimostrato in concreto il pregiudizio subìto, in ossequio alle comuni regole civilistiche in materia risarcitoria. Per quanto attiene al profilo dell'onere della prova, l'art. 40 D. lgs. n. 198/2006 introduce un regime probatorio attenuato prevedendo che quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare in termini precisi e concordanti la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetti al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione.
L'azione collettiva
Il Consigliere nazionale o regionale di parità che rilevi l'esistenza di discriminazioni collettive, prima di promuovere l'azione in giudizio, può chiedere al datore di lavoro di predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni accertate entro un termine non superiore a 120 giorni. In tal caso, è necessaria anche la consultazione delle RSA o, in loro mancanza, delle associazioni territoriali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Queste ultime sono legittimate ad agire anche quando non si riescono ad individuare i soggetti lesi in modo immediato e diretto ( art. 37 d.lgs. 198/2006 ).
Se il piano è considerato idoneo, il Consigliere può promuovere il tentativo di conciliazione ed il relativo verbale, in copia autentica, acquista forza di titolo esecutivo con decreto del giudice del lavoro.
I Consiglieri, qualora non ritengano di promuovere la procedura di conciliazione o la medesima abbia esito negativo, possono promuovere l'azione ordinaria avanti il tribunale, in funzione di giudice del lavoro. Quest'ultimo, nella sentenza che accerta le discriminazioni, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina al datore di lavoro di definire un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, sentite le RSA o, in loro mancanza, gli organismi sindacali locali, nonché il Consigliere di parità. Nella sentenza, il giudice fissa anche i criteri e le tempistiche per la definizione e l'attuazione del piano.
Il Consigliere può promuovere anche il ricorso in via d'urgenza. Come visto sopra, il giudice, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritiene sussistente la violazione ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento pregiudizievole e adotta ogni ulteriore provvedimento che ne rimuova gli effetti negativi. Anche in questo caso, entro 15 giorni dalla comunicazione alle parti, è possibile proporre opposizione davanti alla medesima autorità giudiziaria, che decide con sentenza immediatamente esecutiva.
In caso di inottemperanza alla pronuncia del giudice, è prevista non solo l'ammenda fino ad Euro 50.000 o l'arresto fino a 6 mesi, ma, altresì, una sanzione pecuniaria di euro 51 per ogni giorno di ritardo, da versare al Fondo nazionale per i Consiglieri di parità. Riferimenti
Normativi:
Dottrina:
Giurisprudenza:
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