Casa familiare: assegnazione e godimento dopo il decesso del proprietario

Alberto Figone
07 Febbraio 2018

L'assegnazione della casa familiare rappresenta un argomento molto dibattuto al momento della crisi della coppia. Nel contempo, il diritto di abitazione è garantito per il caso di decesso del coniuge (ed oggi anche della persona civilmente unita) in favore del superstite. La l. n. 76/2016 ha poi introdotto una particolare facoltà di godimento della casa comune, per il caso in cui la morte colpisca il convivente di fatto proprietario della casa. L'autore si propone di fare il punto sui vari aspetti sopra menzionati, alla luce dell'interpretazione giurisprudenziale e, quindi, del “diritto vivente”.
Introduzione

L'assegnazione della casa familiare è in oggi disciplinata dall'art. 337-sexies c.c., che contempla una regolamentazione uniforme per tutti i casi di scioglimento della coppia genitoriale con figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti (separazione personale, divorzio e cassazione della convivenza di fatto, nullità del matrimonio). Prima del d.lgs. n. 154/2013, la norma di riferimento era rappresentata dall'art. 155-quater c.c., che prevedeva una disciplina analoga a quella attuale, espressamente estesa anche a figli di genitori non coniugati fra loro. In precedenza, le regole sull'assegnazione della casa coniugale presentavano un certa mancanza di omogeneità, dovendosi fare riferimento alle differenti normative sulla separazione e sul divorzio, che la Corte costituzionale in più occasioni aveva cercato di rendere uniformi (Corte cost. 27 luglio 1989, n. 454; Cass. civ., S.U., 28 ottobre 1995, n. 11297).

A sua volta, l'art. 540 c.c. riserva al coniuge superstite il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare (insieme con il diritto d'uso sui mobili che la corredano), in caso di decesso del coniuge proprietario dell'immobile e di quanto ivi sito; la l. n. 76/2016 ha introdotto una regolamentazione per più aspetti simile per il caso in cui l'evento morte intervenga in una situazione di convivenza di fatto.

La varietà del titolo in forza del quale l'immobile, già destinato a casa familiare, possa continuare ad essere goduto da uno solo dei componenti della coppia, impone una disamina distinta delle fattispecie.

Natura giuridica e presupposti dell'assegnazione

Molto si è discusso in dottrina sulla natura giuridica del diritto di assegnazione della casa familiare; sono state così proposte tesi differenziate. La prevalente giurisprudenza afferma trattarsi di un atipico diritto personale di godimento, e non di un diritto reale (Cass. civ., 9 settembre 2016, n. 17843; Cass. civ., 10 febbraio 2016, n. 2675).

Presupposto implicito dell'assegnazione è l'affidamento, in favore del genitore beneficiario, dei figli minorenni della coppia, ovvero la collocazione (in regime di affidamento condiviso o a terzi), piuttosto che la coabitazione di uno di essi con i figli maggiorenni, ma non autosufficienti, ovvero portatori di handicap ex art. 337-septies c.c.. È ormai ripetitiva l'affermazione secondo cui l'assegnazione della casa familiare mira a proteggere i figli, garantendo loro il mantenimento dell'habitat domestico, tanto più importante al momento del venir meno della convivenza dei genitori (Cass. civ., 29 settembre 2016, n. 19347; Cass. civ., 8 settembre 2016, n. 11783; Cass. civ., 28 settembre 2015, n. 19123 ). Da tale premessa deriva che, di regola, l'assegnazione della casa presuppone l'esistenza di prole nei termini sopra individuati; in mancanza non si potrà far luogo ad alcuna assegnazione, in quanto il godimento della casa non si pone come un mezzo assistenziale di tutela dei diritti del coniuge (o convivente) economicamente più debole, ai quali l'ordinamento appresta altre forme di tutela, come l'assegno di mantenimento o divorzile nel matrimonio, o gli alimenti in relazione alla convivenza di fatto (cfr. per tutti, Cass. civ., 28 settembre 2015, n. 19193; Cass. civ., 22 luglio 2015, n. 15367). In mancanza di assegnazione, il godimento della casa sarà disciplinato in base al titolo (proprietà o altro diritto reale, titolarità del contratto di locazione o comodato).

Sta di fatto che l'art. 337 c.c. prevede che il Giudice assegni la casa familiare «tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli», e non già solo ed esclusivamente in relazione alla collocazione o all'affidamento dei figli stessi. Vi possono essere così delle fattispecie in cui l'interesse dei figli potrebbe cedere a quello, preminente, del genitore, se pur non affidatario o collocatario, a continuare ad abitare nella casa (si pensi ad abitazioni con particolari strutture o ausili realizzati per una persona affetta da handicap: App. Venezia, 6 marzo 2013).

Nozione di casa familiare

Tenuto conto della peculiare funzione che il legislatore attribuisce al provvedimento relativo alla casa familiare, occorre definire che cosa si intenda con tale locuzione. La giurisprudenza fa riferimento a quell'immobile che abbia costituito il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza, e quindi con esclusione di ogni altro immobile, di cui la coppia avesse la disponibilità, come ad es. le “seconde case” (così già Cass. civ., 23 giugno 1980, n. 3934). Non dovrebbe pertanto costituire casa familiare l'immobile, destinato ad accogliere la famiglia secondo un progetto condiviso, frustrato poi dalla sopravvenuta crisi della coppia. Nulla osterebbe all'assegnazione anche se il minore mai abbia abitato nell'immobile, ove i genitori, prima del conflitto, abbiano destinato ad abitazione familiare e qui abbiano stabilmente convissuto (Cass. civ., 19 febbraio 2016, n. 3331). Diversa è la fattispecie in cui il minore da tempo si sia trasferito in altra abitazione, facendo così perdere alla prima casa la natura stessa di habitat domestico (Cass. civ., 16 maggio 2013, n. 11981).

Salvo che sia diversamente disposto, l'assegnazione comprende anche i vani e gli spazi di pertinenza dell'immobile già destinato a casa familiare (cantina, box, giardino, ecc.)

Può verificarsi che la casa familiare abbia dimensioni ragguardevoli e sia comodamente divisibile, anche sotto il profilo urbanistico, senza snaturarne la natura e la funzione. Si ritiene che, in questi casi, il Giudice possa procedere ad un'assegnazione parziale; ciò a condizione che i figli non vengano limitati nel godimento degli spazi che già occupavano e comunque non abbiano a risentire pregiudizio (come potrebbe avvenire nel caso di un'alta conflittualità tra i genitori, legittimati ognuno ad occupare una parte dell'abitazione; cfr. Cass. civ., 8 giugno 2016, n. 11783 e Cass. civ., 18 giugno 2008, n. 16593).

Il valore economico dell'assegnazione

Dispone l'art. 337-sexies c.c. che dell'assegnazione il Giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici dei genitori, considerato l'eventuale titolo di proprietà. È di tutta evidenza come l'assegnazione determini un beneficio per il genitore, che non sia proprietario del bene, ovvero ne sia comproprietario con l'altro: essendo il diritto funzionale alla tutela dei figli, nessun contributo di natura alloggiativa dovrà essere corrisposto a favore del coniuge non assegnatario, che sia proprietario o comproprietario del bene. La situazione può risultare assai onerosa quando quest'ultimo genitore, oltre a dover reperire nuovo alloggio, sia tenuto al pagamento di un mutuo, contratto proprio per l'acquisto della casa familiare. Al riguardo, il godimento della casa potrebbe avere un valore corrispondente al canone di locazione ritraibile dall'immobile (Cass. civ., 17 febbraio 2015, n. 25240); si è peraltro precisato che, in caso di revoca dell'assegnazione, l'assegno di mantenimento non deve essere sempre incrementato di somma corrispondente al canone di mercato dell'immobile rilasciato (Cass. civ., 21 luglio 2015, n. 15272).

La giurisprudenza ha poi evidenziato che l'assegnazione della casa non può essere considerata in occasione della divisione dell'immobile in comproprietà tra i coniugi, al fine di determinare il valore di mercato del bene qualora l'immobile sia attribuito al coniuge titolare del diritto di godimento, posto che tale diritto è attribuito nell'interesse dei figli e dunque, l'affidatario, potrebbe realizzare un'indebita locupletazione a suo favore, con l'alienazione, dopo la divisione, dell'intero cespite a prezzo integrale (Cass. civ., 9 settembre 2016, n. 17483).

Quanto alle spese per la conservazione ed il godimento dell'immobile, dovrà aversi riguardo alla disciplina della locazione, salvo che non sia diversamente disposto: sull'assegnatario graveranno tutte le spese di ordinaria amministrazione e sull'altro invece, ove ne sia proprietario esclusivo, quelle di straordinaria (Trib. Catanzaro, 14 luglio 2014; Trib. Napoli, 14 ottobre 2011).

Cause estintive dell'assegnazione

L'art. 337-sexies c.c. ha ripreso la formulazione del precedente art. 155-quater c.c., individuando quali cause di estinzione del diritto di assegnazione: il mancato utilizzo stabile della casa di abitazione da parte dell'assegnatario (v. al riguardo Cass. civ., 14 luglio 2015, n. 14727), l'instaurazione di una convivenza more uxorio di questi, ovvero un suo sopravvenuto matrimonio. Superfluo rammentare come la Consulta, con sentenza Corte cost., 30 luglio 2008, n. 308, avesse già avuto ad escludere un contrasto dell'art. 155-quater c.c. con i precetti costituzionali, affermando che, essendo la previsione finalizzata alla tutela dei figli, la formazione di una nuova famiglia (matrimoniale o meno) da parte dell'assegnatario non comporta automaticamente la perdita del relativo diritto in capo a costui, dovendosi valorizzare il diritto dei figli al mantenimento dell'habitat domestico.

Stante la finalità dell'assegnazione, il diritto verrà meno anche per ulteriori specifiche ragioni, quali: il trasferimento del figlio (minorenne o maggiorenne) altrove e la sopravvenuta autonomia economica di quello maggiorenne.

Opponibilità ai terzi

Il più volte citato art. 337-sexies c.c., al pari del pregresso art. 155-quater c.c., prevede che il provvedimento di assegnazione della casa come quello di revoca sono trascrivili ed opponibili ai sensi dell'art. 2643 c.c.. A suo tempo, l'originaria formulazione dell'art. 155 c.c. nulla disponeva sul punto, mentre l'art. 6, l. n. 898/1970 disponeva che l'assegnazione, in quanto trascritta, fosse opponibile al terzo acquirente, ai sensi dell'art. 1599 c.c. (norma propria del regime locatizio). Più volte era intervenuta la Corte costituzionale (Corte cost., 27 luglio 1989, n. 454; Corte cost., 15 marzo 2002, n. 57) e la Suprema Corte, anche a Sezioni Unite (Cass. civ., S.U., 26 luglio 2002, n. 11096); si era così pervenuti ad affermare che, là dove non trascritta, l'assegnazione della casa fosse opponibile ai terzi aventi causa dal proprietario nei soli limiti del novennio dalla trascrizione stessa, in forza del cit. art. 1599 c.c.. Tanto l'art. 155-quater c.c., quanto l'art. 337-sexies c.c., come si è anticipato, hanno espunto il richiamo all'art. 1599 c.c., con la conseguenza che, stando alla lettera della norma, in oggi l'opponibilità ai terzi dell'assegnazione sarebbe subordinata all'intervenuta trascrizione del provvedimento di assegnazione (ordinanza presidenziale, piuttosto che sentenza). Ovviamente, un'eventuale assegnazione, ancorché trascritta, non sarebbe opponibile al creditore ipotecario che abbia iscritto il suo diritto in epoca antecedente (Cass. civ., 20 aprile 2016, n. 7776).

Resta salva la possibilità per l'assegnatario di agire con l'azione revocatoria, a fronte di trasferimenti dell'immobile, effettuati a fini di recare pregiudizio.

La tipicità degli atti assoggettati a trascrizione esclude che possa essere oggetto di trascrizione (con efficacia “prenotativa”) il ricorso con cui si richiede l'assegnazione della casa (magari nel fondato timore che il convenuto, proprietario esclusivo, possa nel frattempo alienarla a terzi).

Assegnazione: locazione e comodato

L'immobile destinato a casa familiare può essere goduto in forza di contratto di locazione o di comodato. Nel primo caso, non può che richiamarsi l'art. 6, l. n. 392/1978: il coniuge (o il convivente) assegnatario, succede nella titolarità del contratto concluso dall'altro, ovvero ne acquisisce la titolarità esclusiva (se stipulato da entrambi; cfr. Cass. civ., 30 aprile 2009, n. 10104).

La giurisprudenza si è invece più volte occupata di fattispecie relative al comodato (tenendo che sovente, per motivi economici, le nuove coppie non sono in grado di potersi permettere un alloggio dove abitare e preferiscono ricorrere alla generosità dei loro parenti, per lo più i genitori). Sul punto si registrano posizioni abbastanza uniformi: quando il contratto di comodato (anche per fatti concludenti) viene stipulato per le esigenze familiari del nucleo del comodatario, l'eventuale assegnazione in favore dell'altro coniuge (o del partner) non determina la cessazione del rapporto, ma il subingresso nello stesso dell'assegnatario, il quale avrà titolo di goderne (salvo che non sia stato previsto inizialmente uno specifico termine di scadenza) fino alla cessazione del diritto (per mancato uso dell'immobile, interruzione della convivenza con il figlio minore o con il maggiorenne, sopravvenuta indipendenza economica di costui). Quel contratto di comodato infatti, non può qualificarsi come precario, ex art. 1810 c.c., siccome sottoposto, per comune implicita volontà delle parti, al soddisfacimento delle esigenze familiari (da ultimo Cass. civ., 9 febbraio 2016, n. 2506; Cass. civ., S.U., 29 settembre 2014, n. 20448, ove si precisa che l'onere della prova circa la destinazione dell'immobile a casa familiare, è a carico dell'assegnatario; Cass. civ., 2 ottobre 2012, n. 16769). Resta salvo il diritto del comodante di ottenere la restituzione dell'immobile, in presenza di un urgente e imprevisto bisogno, come prevede l'art. 1809 c.c..

Il godimento della casa familiare dopo il decesso del coniuge proprietario

Il già ricordato art. 540, comma 2, c.c., attribuisce al coniuge superstite i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso comune sui mobili che l'arredano, se di proprietà del defunto o comuni. Detti diritti gravano sulla porzione disponibile. Si tratta di un vero e proprio legato ex lege, anzi un prelegato (Cass. civ., S.U., 27 febbraio 2013, n. 4847; Cass.civ., 27 gennaio 2016, n. 1588; Cass. civ., 16 novembre 2015, n. 23406), spettante al coniuge superstite, pure ove non accetti l'eredità. Il diritto ha natura reale, con la specificazione che il diritto di abitazione non va commisurato ai bisogni del superstite, dovendo corrispondere allo stato di fatto esistente al momento della successione. Oggetto del diritto è il luogo in cui si è svolta la vita familiare, con esclusione, ancora una volta, di seconde case.

Molto si è discusso circa la spettanza dei diritti di abitazione e di uso in caso di separazione, escludendosene comunque l'attribuzione in caso di separazione con addebito, posto che la relativa pronuncia esclude la vocazione del coniuge quale erede legittimario; ovviamente nessun diritto compete al divorziato, che coniuge non è più. La Suprema Corte si è espressa di recente, escludendo che il coniuge separato senza addebito possa vantare diritti di abitazione e d'uso, solo qualora la cessazione della convivenza renda impossibile individuare una casa adibita a residenza familiare (Cass. civ., 22 ottobre 2014, n. 22456, ove si precisa che la ratio dell'art. 540 c.c. deve rinvenirsi non tanto nella tutela dell'interesse economico del coniuge, quanto nell'interesse morale, legato alla conservazione della memoria dello scomparso; Cass.civ., 12 giugno 2014, n. 13407).

Se il coniuge superstite separato è già assegnatario della casa coniugale, in quanto affidatario o collocatario di figli, potrebbe sorgere un problema di coordinamento tra il diritto di godimento di fonte giudiziale e quello attribuito in forza dell'art. 540, comma 2, c.c., a titolo successorio. Due le tesi sostenute: i) il titolo giudiziale manterrebbe la sua efficacia fino al permanere dei presupposti per l'assegnazione, e solo dopo che questi siano venuti meno, essi sarebbero surrogati dal titolo successorio; ii) quest'ultimo avrebbe immediatamente efficacia, assorbendo quello giudiziale, sì da rendere da subito autonomo il diritto di abitazione rispetto a vicende successive afferenti l'affidamento e l'autosufficienza dei figli.

La norma nulla dispone delle sorti del diritto di abitazione nelle ipotesi in cui il coniuge superstite si risposi, ovvero instauri una relazione di fatto con altra persona. È da ritenere che detti eventi non estinguano il diritto di abitazione, come già ebbe ad affermare un risalente precedente di merito, che esclude la rilevanza anche di una clausola di decadenza che fosse imposta dal testatore (Trib. Taranto, 14 luglio 1978).

Nulla dispone l'art. 2648 c.c. circa la trascrizione dei legati ex lege, lasciando così il dubbio sulle formalità occorrenti per rendere opponibile il diritto di abitazione ai terzi. La Suprema Corte ha escluso che l'opponibilità ai terzi sia subordinata ad una trascrizione (Cass. civ., 30 aprile 2012, n. 6625)

Le norme or ora esaminate trovano applicazione anche nelle unioni civili, con conseguente attribuzione di un legato ex lege pure al civilmente unito, che subisca la morte dell'altro.

Il godimento della casa comune dopo il decesso del convivente proprietario

La l. 20 maggio 2016, n. 76, nel disciplinare il regime giuridico della convivenza di fatto, contempla all'art. 1, comma 42, l. n. 76/2016, una disciplina per taluni aspetti modellata su quella matrimoniale. La norma si apre facendo espressamente salvo quanto previsto dall'art. 337-sexies c.c. già esaminato. La casa familiare potrebbe essere già stata assegnata all'ex convivente, che non sia proprietario (o proprietario esclusivo) della casa medesima, prima del decesso dell'altro, siccome affidatario o collocatario di figli. Tanto premesso, si precisa che, alla morte del proprietario della casa adibita ad abitazione comune, il convivente superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza, se superiore a due anni, e comunque non oltre i cinque anni. La previsione ha una sua notevole pregnanza: essa attribuisce infatti al convivente un diritto che in precedenza non aveva; ancora di recente si è infatti affermato che, con il decesso del proprietario, viene meno il titolo che legittimava la detenzione qualificata del convivente, con conseguente illegittimità della perdurante occupazione dell'immobile (Cass. civ., 27 aprile 2017, n. 10377).

Come si può notare, il diritto del convivente superstite riguarda solo l'immobile, con esclusione dell'uso dei beni che l'arredano, se di proprietà esclusiva del defunto. Non si tratta di un diritto di abitazione, ma di un inedito diritto “a continuare ad abitare”, di durata limitata nel tempo, da due anni al massimo di cinque. A monte, si porrà il problema se, prima del decesso, possa dirsi instaurata una convivenza di fatto tra le parti, che presuppone necessariamente la coabitazione nell'immobile in cui “continuare” ad abitare. La legge infatti non prevede quali siano i requisiti “temporali” della convivenza (dovendosi comunque escludere, ai presenti fini, la necessità di una convivenza anagrafica ufficializzata) ed in particolare quello della pregressa durata. Il periodo minimo di permanenza è elevato a tre anni, ove nella casa coabitino figli minori o disabili del convivente superstite (non necessariamente anche del defunto).

Da quanto sopra, consegue che, ove tra i genitori già conviventi, sia intervenuta la cessazione della convivenza prima del decesso del proprietario della casa di abitazione e questa sia stata assegnata dal Giudice al superstite, quest'ultimo avrà titolo per continuare ad abitarvi fino al raggiungimento dell'indipendenza economica dei figli o al loro trasferimento altrove. In presenza, invece, di una coppia coesa, il diritto del coniuge superstite è potenzialmente più contenuto nel tempo ed egli potrebbe correre il rischio di rilasciare, in tempi ragionevolmente brevi, la casa con i figli, anche comuni, ove questi non vantino diritti successori sull'abitazione stessa.

Ai sensi dell'art. 1, comma 43, l. n. 76/2016, il diritto di abitazione viene meno ove il superstite cessi di abitare stabilmente nella casa comune, ovvero contragga matrimonio o unione civili o instauri una nuova convivenza di fatto (nello stesso immobile). Ovviamente, se il titolo di godimento fosse invece l'affidamento dei figli comuni, non potrà che ripetersi quanto esaminato in precedenza, con esclusione dell'automatica perdita del diritto.

Per il caso di morte del conduttore della casa condotta in locazione, o di suo recesso, il convivente ha diritto, se lo ritiene, di succedergli nel contratto: si tratta di norma già prevista nell'art. 6, l. n. 392/1978.

Conclusioni

La disciplina del godimento della casa comune, dopo gli eventi che incidono sul vincolo delle parti, pone nuove ed inedite questioni con l'entrata in vigore della l. n. 76/2016, che dovranno essere affrontate valorizzando i contributi giurisprudenziali e dottrinali già da tempo copiosi. Ciò con la consapevolezza dell'importanza, nell'attuale situazione economica e sociale, che l'utilizzo di un immobile comporta.

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