Il parto anonimo e l'accesso alle origini nell'adozione
19 Febbraio 2018
Premessa
L'attribuzione alla madre biologica della facoltà di non essere nominata nell'atto di nascita, ai sensi dell'art. 28, l. 4 maggio 1983, n. 184, va raccordata con la previsione di cui all'art. 30, comma 1, d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, ai sensi del quale la dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l'eventuale volontà della madre di non essere nominata. Il d.m. n. 349/2001 prevede che in caso di donna che vuole partorire in anonimato (figlio non riconosciuto o di filiazione ignota) sia indicato, nel certificato di assistenza al parto, il codice 999 per "Donna che non vuole essere nominata". Deve essere comunque assicurato un raccordo tra il certificato di assistenza al parto privo dei dati idonei a identificare la donna che non consente di essere nominata con la cartella clinica custodita presso il luogo dove è avvenuto il parto in modo da rendere sempre tecnicamente possibile l'individuazione della madre biologica. Sussiste una discrasia rispetto alla previsione contenuta nell'art. 9, l. 11 febbraio 2004, n. 40 sulla procreazione assistita, ai sensi del quale la madre del nato a seguito dell'applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita non può manifestare la volontà di non essere nominata. Tale difformità non appare irragionevole, ma frutto dell'intento di responsabilizzare chi opera l'anzidetta scelta procreativa. Il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche e delle circostanze della propria nascita trova un sempre più ampio riconoscimento a livello internazionale e sovranazionale. Tali principi sono stati affermati dalla giurisprudenza CEDU, da ultimo con sentenza della Corte EDU, 25 settembre 2012, n. 33783, Godelli c. Italia, che ha censurato la vigente disciplina interna dell'anonimato, laddove non dà alcuna possibilità al figlio adottivo e non riconosciuto alla nascita di chiedere l'accesso ad informazioni sulle sue origini, non consentendo la reversibilità del segreto. La Corte ha richiamato analoghi precedenti, in cui si afferma che il diritto di conoscere la propria ascendenza rientra nel campo di applicazione della nozione di “vita privata” (Corte EDU, n. 42326/2003, Odièvre c. Francia; Corte EDU, n. 53176/2002, Mikulić c. Croazia). Le pronunce di Strasburgo valorizzano l'art. 8 CEDU che protegge un diritto all'identità e allo sviluppo personale e il diritto di intessere e sviluppare relazioni con i propri simili e il mondo esterno. La salvaguardia della stabilità mentale costituisce un preliminare ineluttabile per il godimento effettivo del diritto al rispetto della vita privata. Dal punto di vista comparatistico, si deve ricordare che in Europa il parto anonimo o nell'anonimato appare minoritario; infatti, è previsto in Francia e in Italia, ma anche in alcune legislazioni, relativamente recenti (Austria, Lussemburgo, Russia, Slovacchia). In Francia viene assimilato al parto nel segreto e dal 2002 la normativa interna prevede la possibilità di contemperamento tra il diritto della madre all'anonimato e il diritto del figlio alla ricerca delle proprie origini. Tale ultimo diritto è poi espressamente riconosciuto in Germania, in Svizzera e in Olanda. Nella giurisprudenza costituzionale, la facoltà della donna di dichiarare nell'atto di nascita di non voler essere nominata è stata riconosciuta da Corte cost., 5 maggio 1994, n. 171, e da Corte cost., 25 novembre 2005, n. 425, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità relativa alla previsione dell'intangibilità della volontà di anonimato della madre biologica. Successivamente, Corte cost. 22 novembre 2013, n. 278 ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 28, l. n. 184/1983, sull'adozione dei minori, in quanto non prevede la possibilità per il Giudice di interpellare, con riservatezza, la madre non nominata nell'atto di nascita, per l'eventuale assunzione di rapporti personali e non giuridici con il figlio. In particolare, la Corte ha riconosciuto all'adottato il diritto a conoscere le proprie origini e ha rilevato i profili di irragionevolezza nell'irreversibilità dell'anonimato della madre biologica, prevedendo la possibilità di un interpello di questa da attuarsi all'interno di un procedimento caratterizzato dalla massima riservatezza. Viene operata anche dalla nostra Corte la riferita operazione di bilanciamento tra il diritto della madre all'anonimato, che si fonda «sull'esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l'emergenza di pericoli per la salute psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi», e il diritto del figlio a conoscere le proprie origini – e ad accedere alla propria storia parentale – atteso che tale «bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l'intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale». La sentenza, muovendo dalla distinzione tra “genitorialità giuridica” e “genitorialità naturale”, ha ritenuto «eccessivamente rigida» e in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. la disciplina dell'art. 28, comma 7, l. n. 184/1983, come sostituito dall'art. 177, comma 2, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, che consente alla madre la facoltà di dichiarare di non voler essere nominata, laddove non se ne preveda la revocabilità, in seguito alla richiesta del figlio, attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza. Il Reg. UE n. 679/2016 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, è stato emesso in abrogazione della Direttiva n. 95/46/CE del 24 ottobre 1995, attuata in Italia, da ultimo, con il d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (cosiddetto «codice della privacy»). Poiché esso entrerà in vigore a maggio 2018, nel frattempo, gli Stati membri sono chiamati a una verifica di compatibilità degli ordinamenti interni e a un'opera di adeguamento rispetto al medesimo, che comunque ha carattere self – executing, sicché il Giudice sarà chiamato a disapplicare le disposizioni interne contrastanti con le norme eurounitarie, sollevando nei casi dubbi questioni pregiudiziali davanti alla Corte di Giustizia. In proposito, tra gli obiettivi che sono alla base del Regolamento vi è la necessità di contemperare la protezione dei dati personali con il riconoscimento di ulteriori diritti personali, attraverso il principio di proporzionalità e il necessario bilanciamento di interessi parimenti meritevoli di tutela. Il principio del bilanciamento viene consacrato nei considerando 4 del Regolamento, ai sensi del quale: «Il trattamento dei dati personali dovrebbe essere al servizio dell'uomo. Il diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta, ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità. Il presente Regolamento rispetta tutti i diritti fondamentali e osserva le libertà e i principi riconosciuti dalla Carta, sanciti dai trattati, in particolare il rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e delle comunicazioni, la protezione dei dati personali, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, la libertà di espressione e d'informazione, la libertà d'impresa, il diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, nonché la diversità culturale, religiosa e linguistica». Va precisato in proposito che particolare attenzione viene posta rispetto al trattamento di particolari categorie di dati personali, ovvero i cosiddetti “dati sensibili”, rispetto ai quali il Regolamento autorizza gli Stati membri a stabilire «le condizioni per specifiche situazioni di trattamento, anche determinando con maggiore precisione le condizioni alle quali il trattamento dei dati personali è lecito» (cfr. considerando 11). In proposito, va menzionato l'art. 9, Reg. UE n. 679/2016, che attiene al trattamento di categorie particolari di dati personali, definiti nel par. 1 come «i dati che rivelino l'origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le opinioni religiose o filosofiche, o l'appartenenza sindacale, dati genetici, dati biometrici o volti a identificare in modo univoco una persona fisica, di dati relativi alla salute o la vita sessuale o alle orientamento sessuale della persona». Rispetto al divieto imposto dal paragrafo 1, il par. 2 lett. c) consente il trattamento di tali dati, qualora sia necessario per tutelare l'interesse vitale dell'interessato, di altra persona fisica, ovvero qualora l'interessato si trovi «nell'incapacità fisica o giuridica di prestare il proprio consenso». A fronte di tale previsione, un primo profilo di difficile compatibilità dell'art. 28, l. n. 184/1983, può rilevarsi nel disposto di cui al comma 4 a mente del quale le informazioni concernenti l'identità dei genitori biologici possono essere fornite, oltre che agli esercenti la responsabilità genitoriale, anche ai presìdi ospedalieri, quando ricorrano i presupposti della necessità e dell'urgenza e vi sia grave pericolo per la salute del minore. Alla luce del bilanciamento introdotto dal Regolamento rispetto ai dati sensibili, appare difficilmente conciliabile la possibilità di accedere ai dati sanitari dei genitori biologici soltanto a tutela della salute di un soggetto minorenne, mentre a tutela di un interesse vitale come la salute, tale possibilità dovrebbe essere consentita indipendentemente dall'età del soggetto (cfr. Trib. Napoli, ord., 9 ottobre 1998, che consente ai medici di conoscere l'identità della partoriente per la tutela dell'altrui salute. Occorre precisare che questa donna, una volta identificata, aveva consentito a fornire i dati genetici necessari; cfr., in senso analogo, Trib. min. Torino, 13 novembre 2004, a proposito della richiesta di donna ventiduenne, adottata, affetta da grave malattia, sottoposta ad intervento chirurgico ed a perdurante impegnativo trattamento terapeutico; conforme anche App. Palermo, decr., 11 dicembre 1992. Risolve, invece, in termini di difetto di legittimazione relativamente all'azione per l'accesso ai dati genetici del proprio padre, adottato e già deceduto, Trib. Sassari, decr., 16 gennaio 2002). Il problema, peraltro, era stato già sollevato in relazione agli artt. 60, 76 e 85, comma 2, d.lgs. n. 196/2003, a norma dei quali, ove il trattamento dei dati personali idonei a rivelare lo stato di salute riguardi dati e operazioni indispensabili per perseguire una finalità di tutela della salute o dell'incolumità fisica di un terzo, e manchi il consenso dell'interessato, può intervenire l'autorizzazione del Garante. La rigida applicazione del divieto di cui all'art. 28, comma 7, l. n. 184/1983, nel precludere l'accesso su richiesta dell'adottato maggiorenne o dei genitori adottivi motivata da gravi e comprovati motivi attinenti alla salute psicofisica dell'adottato (art. 28, commi 4 e 5), e quella formulata dal responsabile di una struttura ospedaliera in presenza di un grave pericolo per la salute del minore (art. 28, comma 4, l. n. 184/1983), contraddittoriamente rinuncia a tale presidio, in nome della riservatezza materna, cui sacrifica la salute e la vita stessa del figlio adottato, senza possibilità di apprezzamento di tali ragioni, né da parte dell'autorità amministrativa che conserva i documenti, né da quella giudiziaria chiamata a decidere sulla legittimità del relativo provvedimento (cfr. S. Stefanelli, Parto anonimo e diritto a conoscere le proprie origini, in Dir. e Fam., I, 2010, 426). Deve tuttavia osservarsi che il rigore del principio espresso dall'art. 28, l. n. 184/1983 sembra essere temperato dall'eccezione prevista dall'art. 93, comma 3, d.lgs. n. 196/2003, laddove si dice che, prima del decorso dei 100 anni, la richiesta di accesso al certificato o alla cartella può essere accolta relativamente ai dati della madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, osservando le opportune cautele per evitare che quest'ultima sia identificabile. Un ulteriore profilo di frizione fra la disciplina dell'art. 28, l. n. 184/1983 e gli orientamenti di diritto interno e sovranazionale che valorizzano la soggettività del minore, s'incentra sull'eccessivo innalzamento dell'età per poter esercitare il diritto di accesso, ovvero addirittura il venticinquesimo anno e, solo nella sussistenza di gravi e comprovati motivi attinenti alla salute psicofisica, con la maggiore età. Tale previsione sembra confliggere con gli orientamenti di diritto interno e sovranazionale che, con riferimento all'esercizio dei diritti personalissimi, soprattutto nell'ambito della tutela del diritto alla salute e di altri diritti indisponibili, attribuiscono crescente rilievo, sia a livello normativo, che nell'ambito del delicato bilanciamento degli interessi operato dal Giudice, al principio di autodeterminazione del soggetto incapace, talvolta privilegiando la volontà del minore rispetto a quella dei genitori o dei legali rappresentanti dello stesso. Invero, il Regolamento abbassa l'età minima in cui il minore possa consentire il trattamento dei dati personali che lo riguardano, prevedendo all'art. 8, Reg. UE n. 679/2016 che, per quanto riguarda l'offerta diretta di servizi della società dell'informazione ai minorenni, il trattamento di dati personali del minore è lecito ove abbia almeno sedici anni. Gli Stati membri possono stabilire per legge un'età inferiore a tali fini, purché non sia inferiore ai tredici anni. A maggior ragione, se viene abbassata l'età in cui il minore può autodeterminarsi rispetto al trattamento dei dati personali che lo riguardano, sembra incongrua la previsione di un limite di età così elevato per l'accesso a informazioni così rilevanti per la propria identità personale, come quelle relative alle proprie origini. Viene fissata peraltro un'età, qual è quella dei venticinque anni, che non trova alcun riscontro nella disciplina civilistica in tema di capacità naturale e giuridica tenuto anche conto che il minore può essere autorizzato al matrimonio al compimento del sedicesimo anno di età e che la riforma sulla filiazione del 2012 - 2013 ha abbassato i limiti di età per il consenso e l'assenso del minore in tema di riconoscimento, ai sensi dell'art. 250 c.c., dai 16 ai 14 anni. In merito all'art. 17, Reg. UE n. 679/2016, relativo al cosiddetto diritto all'oblio o, come viene definito nella rubrica, alla «cancellazione dei dati personali», che consiste nel diritto attribuito all'interessato, di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo, è previsto che esso non trovi applicazione per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica, ovvero quando è necessario per tutelare un interesse vitale dell'interessato o di un'altra persona fisica. Anche tale previsione impone un bilanciamento che dovrebbe essere esercitato in maniera particolarmente rigorosa, a tutela dell'interesse del minore e anche qualora detto diritto sia esercitato quando tale soggetto sia diventato maggiorenne, sicché tale interesse può cedere soltanto a fronte di una finalità che attiene, tra le altre, a una interesse pubblico primario nel settore della sanità. Ne consegue, mutatis mutandis, che il diritto all'oblio della madre anonima dovrebbe cedere, o trovare dei limiti, laddove si ravvisi la prevalenza del primario diritto alla salute del figlio. In definitiva, alla luce del quadro sovranazionale ed eurounitario, deve ritenersi che nella disciplina di cui all'art. 28, l. n.184/1983, anche al di là dei profili che sono stati oggetto di pronuncia della Corte costituzionale, possono sussistere ulteriori limitazioni al diritto all'identità personale del richiedente l'accesso alle origini, difficilmente compatibili con il quadro sovranazionale. Insomma, l'art. 28, l. n. 184/1983 sembra essere un retaggio di una concezione paternalistica dei best interests del minore, in quanto in nome dell'esigenza di protezione del medesimo, non viene dato adeguato spazio alla sua autodeterminazione (E. Lamarque, Prima i bambini. Il principio dei best interests of the child nella prospettiva costituzionale, Milano, 2016). Da ultimo, è stata emessa l'importante pronuncia Cass. civ., S.U., 25 gennaio 2017, n. 1946, che afferma il principio di diritto per cui (ancorché il legislatore non sia ad oggi intervenuto in adeguamento al principio espresso nella sentenza della Corte cost., 22 novembre 2013,n. 278) sussiste la possibilità per il Giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini, di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, con modalità procedimentali tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale idonee a garantire la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna, fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l'anonimato non sia rimossa in seguito all'interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità (v. A. Figone, In caso di parto anonimo la madre può essere interpellata: lo dicono le Sezioni Unite, in IlFamiliarista.it). La richiesta sottoposta all'esame delle Sezioni Unite, in materia di parto anonimo, in relazione al diritto del figlio non riconosciuto alla nascita ad accedere ad informazioni che lo riguardano, è scaturita dall'emissione di un decreto emesso dalla Corte d'appello di Milano (App. Milano, 10 marzo 2015), con il quale si era ritenuto che la mancanza di una disciplina normativa volta a regolamentare l'interpello della madre naturale precludesse la possibilità di dare corso all'istanza del figlio. Su sollecitazione del Procuratore generale, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite in virtù del ravvisato contrasto di tesi tra i giudici di merito e per la mancanza di pronunce della Corte di legittimità che affrontassero espressamente la questione della possibilità o meno per il figlio nato da parto anonimo di attivare, nel contrasto scaturito dalla pronuncia della Corte costituzionale, un procedimento d'interpello della madre anonima, alla luce del fatto che il tema investe valori costituzionali di primario rilievo reciprocamente connessi nei modi di concretizzazione e presenta un'oggettiva rilevanza generale. Nella relazione del Massimario alle Sezioni unite si evidenzia ampiamente la singolarità del ricorso in questione, proposto anche sull'impulso della nota proveniente dall'allora Presidente dell'Associazione italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia, che evidenziava la necessità di una pronuncia chiarificatrice in materia di interpello della madre biologica in caso di parto anonimo. In particolare, la Procura generale presso la Cassazione ha sollevato ricorso ai sensi dell'art. 363 c.p.c., che in rubrica titola «principio di diritto nell'interesse della legge», e che prevede che la sua enunciazione venga sollecitata dal procuratore generale non già con ricorso, ma come mera richiesta. Essa può essere sollevata dal Procuratore generale anche quando il provvedimento da cui scaturisce la questione non è impugnabile davanti alla Cassazione, situazione che si è verificata nel caso di specie, essendo il decreto della Corte d'appello di Milano da cui è nata la questione, un provvedimento di natura camerale e di volontaria giurisdizione pacificamente non ricorribile per Cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., mancando siffatti provvedimenti di decisorietà e di definitività (da ultimo, cfr. Cass. civ., sez. VI, n. 24477/2015). Ne consegue che tale ricorso non ha alcun effetto sulla procedimento in corso, se non di mero invito al giudice di merito di rivalutare la questione, avendo esso soltanto una funzione nomofilattica. In definitiva, le questioni di diritto sottese sono così individuabili: 1) la prima attiene al rapporto tra il diritto di ogni persona a conoscere le proprie origini e il contrapposto diritto all'oblio della donna che ha partorito avvalendosi dell'anonimato e la conseguente tutela che agli stessi è riconosciuta dopo la sentenza della Corte costituzionale del 2013; 2) la seconda investe l'interpretazione del dictum della Corte costituzionale e il suo inquadramento nell'ambito delle diverse tipologie di sentenze, al fine di individuare gli spazi limite dell'intervento del Giudice nell'esercizio del suo potere giurisdizionale. In ordine al tema del bilanciamento, molto interessante è anche la notazione della relazione del Massimario, per cui la ratio a fondamento della tutela del diritto di anonimato della madre è quella di scongiurare l'aborto e di incentivare la nascita di un fanciullo di cui altri si prenderebbero cura, nonché quella di non rovinare la reputazione di una giovane donna o di una donna sposata. La tutela dell'anonimato è dunque compatibile con la tradizionale visione patriarcale della famiglia. Sia la Procura generale che le Sezioni Unite hanno dato ampiamente conto di un contrasto di orientamenti nella giurisprudenza di merito, in particolare tra l'orientamento della Corte d'appello di Milano e quello della Corte d'appello di Catania e degli orientamenti della Corte di Strasburgo, in particolare la già citata sentenza Godelli con la quale, pur non essendoci stata una condanna diretta dello Stato italiano, comunque è stata individuata la violazione della CEDU, accordando un'equa soddisfazione alla parte ricorrente. In particolare, il contrasto interpretativo verteva sull'immediata applicabilità, o meno, della sentenza della Corte costituzionale, pur in assenza di un intervento del legislatore che tarda ad arrivare. Secondo un orientamento la sentenza della Corte avrebbe un carattere additivo ma con un contestuale rinvio alla legge per la disciplina di dettaglio, e che, stante la delicatezza e la pluralità di opzioni che il bilanciamento siffatto impone, tale scelta deve essere operata dal legislatore (cfr. App. Milano, 10 marzo 2015). Secondo un diverso indirizzo interpretativo, occorre avere riguardo al contenuto concreto della sentenza della Corte costituzionale, sicché la mancanza di una disciplina normativa non preclude al giudice di dare concreta attuazione al diritto fondamentale sancito dalla Corte costituzionale in favore dei nati da parto anonimo, spettando comunque al giudice di merito dettare la regola del caso concreto (cfr. App. Catania, 23 settembre 2015). Sul piano tecnico, la Suprema Corte utilizza l'argomentazione per cui la pronuncia della Corte cost. 22 novembre 2013, n. 278, non ha carattere meramente interpretativo ma ha natura additiva, sicché va a modificare l'art. 28, l. n. 184/1983, attraverso la previsione di un obbligo di interpello, in forma riservata, alla madre anonima sulla eventuale volontà di revocare l'anonimato. L'effetto di rimozione immediata della norma dichiarata illegittima si produce dunque, necessariamente in conseguenza di una sentenza additiva della Consulta, dovendosi parlare di protagonismo assunto dalla Corte costituzionale nel garantire l'osservanza dei diritti fondamentali, pur nell'inerzia del legislatore. A tale previsione, al di là dell'auspicata modifica del quadro normativo, deve attenersi comunque il giudice di merito, stabilendo le modalità più idonee per garantire la riservatezza della madre, operando nel caso concreto il bilanciamento di interessi a fondamento di questa delicata disciplina. Viene seguito un orientamento consolidato nella giurisprudenza costituzionale (Corte cost., 26 giugno 1991, n. 295), per cui la dichiarazione di illegittimità di un'omissione legislativa, mentre demanda al legislatore la regolamentazione generale e astratta di siffatto profilo, non preclude al giudice di merito di porre frattanto rimedio all'omissione nella trattazione del caso concreto. In definitiva, l'immediata inapplicabilità potrebbe dipendere soltanto da ragioni pratiche, cioè dall'impossibilità per il giudice di trovare la regola del caso concreto. Nel caso dell'accesso alle origini, tali ragioni non sussistono in quanto il punto di equilibrio fra la posizione del figlio adottato e il diritto all'anonimato della madre biologica è stato posto dalla Corte costituzionale, esistendo già un procedimento attraverso il quale l'interesse del figlio può trovare soddisfazione, e cioè quello delineato dall'art. 28, l. 4 maggio 1983, n. 184, opportunamente corredato dal giudice di tutte le misure necessarie a tutelare la riservatezza della madre (analoghe conclusioni sono state raggiunte con riferimento alla sentenza Corte cost., 11 giugno 2014, n. 170, sul divorzio imposto). Da ultimo si è ribadita la necessità che i tribunali per i minorenni procedano all'interpello della madre anonima con modalità rispettose della sua dignità e diritto alla riservatezza in Cass. civ., sez. I, 7 giugno 2017,n. 14162, (v. Parto anonimo: il diritto del figlio a conoscere le proprie origini ha un unico e insuperabile limite, in dirittoegiustizia.it). Quanto alle modalità di interpello, la Cassazione, richiamando prassi e protocolli seguiti dai tribunali per i minorenni nel disciplinare le modalità procedimentali dell'interpello della madre anonima, ha fornito concrete indicazioni finalizzate a contemperare il diritto di accesso alle proprie origini dell'istante, con la tutela della riservatezza e della dignità della genitrice biologica. Nell'ambito di queste prassi, ci si può interrogare sull'opportunità di avvalersi della polizia giudiziaria, piuttosto che del servizio sociale (l'utilizzo di quest'ultimo viene preferito dalla proposta di legge unificata pendente in Senato), a garanzia della riservatezza della madre che ha scelto l'anonimato, incombendo su entrambi gli obblighi di segretezza sull'attività del proprio ufficio. Un'ulteriore problematica concerne anche un possibile ruolo del pubblico ministero minorile nella procedura in esame, laddove non è previsto alcun intervento del medesimo in tal senso dalla normativa. Si segnala l'opportunità di svolgere, tramite il servizio sociale, un accertamento sulle condizioni psico – fisiche della madre, ai fini dell'interpello, prevista de iure condendo nella proposta di legge pendente. Prospettive de iure condendo
Allo stato pende in Commissione giustizia Senato l'AS. 1978, già approvato in testo unificato dalla Camera il 18 giugno 2015. Esso prevede la modifica dell'art. 28, l. 4 maggio 1983, n. 184, nel senso di ampliare il diritto dell'adottato a conoscere le proprie origini, ritenendolo strumentale al diritto costituzionalmente fondato all'identità personale, alla luce del riconoscimento ad esso attribuito dalla Convenzione di New York (art. 7), pur nel contemperamento con il diritto della madre biologica che non abbia riconosciuto il figlio e/o che abbia manifestato la volontà di non essere nominata nell'atto di nascita (art. 28, comma 7, l. n. 184/1983, come modificato dall'art. 177, d.lgs. n. 196/2003). La menzionata proposta di legge prevede la seguente disciplina, volta ad ampliare la possibilità per il figlio non riconosciuto alla nascita, di conoscere le proprie origini biologiche:
1. l'accesso alle informazioni sulla propria identità biologica non legittima azioni di stato, né da diritto a rivendicazioni di natura patrimoniale o successoria; 2. in caso di parziale o totale incapacità del figlio, l'istanza possa essere presentata da chi ne abbia la legale rappresentanza, ma solo per l'acquisizione delle informazioni di carattere sanitario. La disposizione consente alla madre che ha partorito in anonimato, decorsi diciotto anni dalla nascita del figlio, di confermare la propria volontà, attraverso una comunicazione al Tribunale per i minorenni del luogo di nascita del figlio stesso. In tal caso, qualora sia (successivamente) presentata istanza di interpello (vedi infra comma 7-bis) il Tribunale per i minorenni autorizza l'accesso alle sole informazioni di carattere sanitario, riguardanti le anamnesi familiari, fisiologiche e patologiche, con particolare riferimento all'eventuale presenza di malattie ereditarie trasmissibili. La disciplina delle modalità della comunicazione in esame- al fine di assicurare la massima riservatezza- sono demandate dal comma 2 dell'articolo 1 del disegno di legge ad un successivo decreto del Ministro della giustizia, da adottarsi entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge. La disposizione del comma 7 è integrata dal contenuto del nuovo art. 28, comma 7-bis, l. n. 184/1983, che disciplina il procedimento di interpello per l'accesso alle informazioni sulle proprie origini. Tale previsione pare diretta a sanare l'incostituzionalità parziale del comma 7 dell'art. 28, l. n. 184/1983, sancita dalla sentenza Corte cost. n. 178/2013. In conclusione
Pare opportuno ricordare, in conclusione una considerazione svolta in sede di audizioni parlamentari e ripresa nella relazione del Massimario, per cui «il garbo e la professionalità nella ricerca di una madre che abbia partorito in anonimato sono patrimonio proprio dei giudici minorili, in quanto giudici specializzati, i quali sono dotati di tutti gli strumenti per predisporre accurate modalità che garantiscano riservatezza e rispetto nei confronti delle parti interessate. Mai, dunque, ci sarà un articolato idoneo, per sé solo ad evitare abusi, un uso prepotente ed illegittimo, o anche irragionevole di funzioni pubbliche, ma sarà la crescita culturale dei magistrati e degli operatori incaricati e informati, e contemporaneamente della società in generale, che potrà scongiurare tutti i paventati pericoli». - G. Manera, L'adozione e l'affidamento familiare nella dottrina e nella giurisprudenza, 2004, Milano, 23; - L. Lenti, Il diritto dell'adottato a conoscere le proprie origini, in Minori e giustizia. 2003, 3, 1, 3, 144, - G. Casaburi, Il parto anonimo dalla ruota degli esposti al diritto alla conoscenza delle origini (Nota a Corte cost. 22 novembre 2013, n. 278, in Foro it. n. 1/2014, I, 4) |