Per escludere l’assegno di mantenimento la capacità lavorativa del richiedente deve accertarsi in concreto

Sabina Anna Rita Galluzzo
23 Febbraio 2018

Quali sono i requisiti necessari perché sorga il diritto all'assegno di mantenimento in sede di separazione e, in particolare, quale valenza attribuire alla capacità lavorativa del coniuge richiedente? Risponde la Cassazione con la sentenza in commento.
Massima

In tema di assegno di mantenimento, l'attitudine del coniuge al lavoro assume rilievo solo se venga riscontrata in termini di effettiva sopravvenuta possibilità di svolgimento di un'attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e non già di mere valutazioni astratte ed ipotetiche.

Il caso

In sede di separazione veniva stabilito un assegno di 2000 euro a carico del marito a favore della moglie. La decisione di primo grado veniva impugnata dall'uomo di fronte alla Corte d'appello che, respingendo il ricorso, confermava il diritto della donna all'assegno e ne aumentava l'importo fino 2900 euro, sulla base del fatto che i coniugi avevano deciso di comune accordo che la donna non avrebbe lavorato per dedicarsi alla casa e alla famiglia e che la stessa risultava priva di fonti di reddito a differenza del marito, che disponeva di elevate entrate.

L'uomo si opponeva a questa decisione impugnandola in Cassazione la quale, con l'ordinanza in esame, respinge il ricorso.

La questione

Quali sono i requisiti necessari perché sorga il diritto all'assegno di mantenimento in sede di separazione e, in particolare, quale valenza attribuire alla capacità lavorativa del coniuge richiedente? È noto infatti che l'attitudine al lavoro dei coniugi, in quanto potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione della misura dell'assegno di mantenimento da parte del Giudice, dovendo egli considerare non soltanto i redditi in denaro, ma anche ogni utilità o capacità propria dei coniugi suscettibile di valutazione economica. Ci si chiede peraltro se sia sufficiente ai fini di negare o diminuire l'assegno un'astratta capacità lavorativa del coniuge richiedente, quale potrebbe essere un titolo di studio o una determinata professionalità, o se invece sia necessaria una concreta ed effettiva possibilità di lavoro.

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione nel caso in esame conferma il diritto della moglie a percepire l'assegno di mantenimento riconoscendo che, a fronte di una sproporzione reddituale e patrimoniale tra i coniugi, il marito, professionista affermato e proprietario di numerosi immobili, è tenuto a corrispondere il contributo al mantenimento per la moglie, priva di fonti di reddito che non aveva lavorato durante il matrimonio per dedicarsi alla famiglia.

La Suprema Corte si allinea pertanto al costante e consolidato orientamento di legittimità che, in materia di separazione fonda il sorgere del diritto all'assegno sulla sussistenza di una disparità economica tra le parti e considera i "redditi adeguati", cui va rapportato l'assegno di mantenimento a favore del coniuge, quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Quest'indirizzo interpretativo, precisa l'ordinanza in oggetto, non viene, in tema di separazione tra i coniugi, superato dall'orientamento giurisprudenziale che si è invece venuto ad affermare (in attesa per ora di un intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione) in materia di divorzio, secondo il quale il parametro di riferimento cui rapportare il giudizio sulla adeguatezza o inadeguatezza dei mezzi del coniuge che richiede l'assegno di divorzio, e sulla possibilità o impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, va individuato nel raggiungimento della indipendenza economica del richiedente e non nella possibilità di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

In caso di separazione infatti a differenza dello scioglimento del matrimonio, precisa la Cassazione, permane il vincolo coniugale anche se sono sospesi gli obblighi di natura personale quali la fedeltà, la convivenza e la collaborazione ed è invece ancora attuale il dovere di assistenza materiale, ben diverso dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell'assegno di divorzile.

In tal senso si sono recentemente posti anche altri provvedimenti di legittimità che hanno sottolineato come l'orientamento tradizionale, che lega l'assegno di mantenimento alla differenza reddituale tra i due coniugi nonché all'impossibilità per il coniuge richiedente di mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, permane in materia di separazione personale dei coniugi perché il vincolo matrimoniale è tuttora esistente ed è solamente attenuato (Cass. civ., n. 28327/2017; Cass. civ., n. 12196/2017, v. Separazione: si applica il criterio del tenore di vita per determinare il mantenimento del coniuge, in IlFamiliarista.it).

Di diverso tenore invece, seppur limitata ai fatti di causa, è un'ordinanza della Corte di Appello di Roma (App. Roma, 5 dicembre 2017, v. Revocato il mantenimento previsto con ordinanza presidenziale per la moglie autosufficiente, in IlFamiliarista.it) che, pur in presenza di differenze reddituali tra i due coniugi, ha ritenuto in sede di separazione di revocare il diritto all'assegno stabilito in primo grado a favore della moglie sulla base del fatto che la donna era del tutto in grado, per la capacità di lavoro, di reddito e di patrimonio, di provvedere con i propri mezzi a sé stessa.

Ulteriore e rilevante aspetto preso in considerazione dalla Cassazione nel caso di specie è l'attitudine al lavoro proficuo dei coniugi, che, come potenziale capacità di guadagno, va valutata dal Giudice nel momento della determinazione dell'assegno di separazione. Si rileva in tal senso nel provvedimento che la donna non lavorava per dedicarsi alla famiglia anche se non vi erano sul punto prove di un preciso accordo.

Va evidenziato come la giurisprudenza abbia sempre rispettato, in sede di determinazione dell'assegno di separazione, l'accordo tra i coniugi assunto durante il matrimonio circa la mancata prestazione lavorativa di uno dei due sulla base della considerazione secondo cui la separazione instaura un regime che tende a conservare il più possibile gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, anche il tipo di vita di ciascuno dei coniugi. E questo anche nel caso in cui non vi sia in proposito, come nel caso di specie, un accordo esplicito ma solamente un'accettazione del fatto.

In questo contesto la giurisprudenza, cui si uniforma l'ordinanza in esame, ha più volte sottolineato che l'attitudine al lavoro, quale elemento di valutazione della capacità di guadagno, rileva in relazione al riconoscimento e alla quantificazione dell'assegno di mantenimento solamente se è riscontrata in termini di effettiva e concreta possibilità di svolgimento di un'attività retribuita. È necessario dunque tenere in considerazione ai fini della valutazione della capacità lavorativa ogni concreto fattore individuale ed ambientale, quali l'età del coniuge richiedente l'assegno, il suo titolo di studio, le competenze specifiche che ha acquisito, lo stato del mercato del lavoro nonché la collocazione geografica. Non è sufficiente pertanto limitarsi a mere valutazioni astratte ed ipotetiche (cfr. ex multis Cass. civ., n. 3297/2017; Cass. civ., n. 789/2017, v. L'ex moglie casalinga ha diritto all'assegno di mantenimento anche se in grado di lavorare, in IlFamiliarista.it; Cass. civ., n. 17971/2017; Cass. civ., n.12346/2014).

In tal senso l'attitudine al lavoro del coniuge richiedente l'assegno di separazione assume rilievo solo quando si può dimostrare che vi è stato un rifiuto di reali e concrete opportunità di lavoro.

Esemplare in proposito è stato un caso in cui la Cassazione ha sostenuto che anche la moglie che non ha un'attività lavorativa e non si impegna nel cercare nuove fonti di reddito nonostante la giovane età, l'elevato titolo di studio, e l'assenza di impegni familiari, pur dopo un periodo di convivenza breve, ha diritto all'assegno di mantenimento, in quanto l'inattività lavorativa del richiedente l'assegno può costituire circostanza idonea ad annullare l'altrui obbligo di versarlo, solo se conseguente al rifiuto accertato di effettive concrete, e non meramente ipotetiche, opportunità di lavoro (Cass. civ., n. 12121/2004). Più recentemente la Cassazione ha confermato la sentenza di merito che, nel quantificare l'assegno di mantenimento riconosciuto alla moglie, aveva tenuto in considerazione il titolo di studio universitario e l'abilitazione professionale da lei posseduti ma anche le sue presumibili difficoltà nell'inserimento nel mondo del lavoro dovute all'età ed alla mancanza di precedenti esperienze professionali (Cass. civ., n. 6427/2016; nello stesso senso Cass. civ., n. 4100/2017). In ogni caso si sottolinea che anche il rifiuto di accettare opportunità di lavoro non può essere considerato, di per sé, solo espressione di mancanza di volontà a provvedere al proprio mantenimento, se non si dimostri che le offerte erano adeguate alla qualificazione professionale e alla dignità personale del coniuge, tenuto anche conto delle condizioni economiche e sociali godute prima della crisi matrimoniale (Cass. civ., n. 17347/2010).

È necessario pertanto, ai fini di negare il diritto all'assegno del coniuge richiedente, che vi sia stata una concreta possibilità di lavoro retribuito da dimostrare adeguatamente. Non essendo emerso nulla in proposito dai fatti di causa, nella specie, il ricorso è stato rigettato.

Osservazioni

Dall'analisi dell'ordinanza in esame scaturiscono considerazioni in merito alla grande differenza di effetti che vi sono tutt'ora tra la separazione e lo scioglimento del matrimonio in relazione soprattutto ai requisiti necessari affinché sorga il diritto di uno dei due coniugi ad un assegno a carico dell'altro, nonché in termini di inattività lavorativa. Come più volte ribadito dalla giurisprudenza, tali differenze sono giustificate dalle sostanziali difformità tra i due istituti: l'uno che affievolisce solamente il vincolo matrimoniale, l'altro che lo scioglie. Perplessità peraltro sorgono considerando che attualmente tra la separazione e il divorzio può trascorrere un tempo anche molto breve. È noto infatti che lo scioglimento del matrimonio si può richiedere passati sei mesi dall'udienza presidenziale di separazione nel caso di consensuale, oppure trascorso un anno nel caso di giudiziale. Un coniuge che ha dunque diritto, secondo il consolidato orientamento interpretativo, in presenza di sproporzione tra i redditi, ad un assegno di mantenimento al momento della separazione può ritrovarsi, dopo soli sei mesi, a perdere tale diritto e questo persino nell'ipotesi di un matrimonio durato molti anni.