La domanda di rettifica di sesso è proponibile dopo un anno dall'entrata in vigore della legge n. 164/1982?
05 Marzo 2018
Massima
È ammissibile nel nostro ordinamento la proposizione della domanda giudiziale di rettificazione del sesso oltre il termine di un anno ex art. 6, comma 1, l. n. 164/1982, non costituendo tale norma un presupposto della proponibilità o della procedibilità dell'azione, qualora il soggetto richiedente si sia sottoposto ad intervento medico chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali primari precedentemente all'entrata in vigore della citata legge. L'intervento demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali è un passaggio meramente eventuale «la cui necessità è, in ultima analisi, valutata dal Giudice secondo un apprezzamento che tenga conto di tutte le circostanze e le specificità del caso concreto» nell'ambito di una indagine circa la serietà e la univocità del percorso di transizione scelto, nonché, il raggiungimento dell'approdo finale. Il caso
Il ricorrente propone azione volta ad ottenere l'accertamento della propria rettifica di sesso nonché la modifica del nome sull'atto di nascita, essendosi sottoposto ad operazione chirurgica nel maggio del 1979. Il Tribunale di Terni dichiara inammissibile la domanda. Con sentenza del 18 maggio 2015, la Corte d'Appello di Perugia, a sostegno del rigetto, richiama il termine decadenziale di un anno (di cui all'art. 6, l. n. 164/1982) a decorrere dalla entrata in vigore della legge stessa, come limite entro il quale esercitare tale azione nel caso in cui il richiedente si sia già sottoposto a trattamento medico-chirurgico. Secondo i Giudici del gravame, la norma in questione, al fine di sanare la posizione di quanti si sono sottoposti illecitamente ad operazione di modifica del sesso prima della legge, prevede tale termine da intendersi come condizione di proponibilità dell'azione stessa ritenendo che una difforme interpretazione non possa trovare accoglimento nel nostro ordinamento. A sostegno del proprio ricorso per Cassazione, l'istante denuncia, in primis, la violazione dei diritti fondamentali di cui all'art. 3 Cost., degli artt. 1, 7, 9, 20, 21 e 45 della Carta dei Diritti dell'Unione Europea e degli artt. 8, 12, 14 CEDU, nella misura in cui viene negata ad un individuo la propria identità sessuale pur in presenza dei presupposti materiali di intervenuta modifica dei caratteri sessuali. Sul punto, si evidenzia che mentre l'art. 1, l. n. 164/1982 pone come unica condizione per l'esercizio dell'azione di rettifica del sesso l'intervenuta modifica dei caratteri sessuali, senza richiedere espressamente l'intervento chirurgico di demolizione/modifica dei caratteri sessuali primari, l'art. 6, l. n. 164/1982, si riferisce ai casi in cui, essendo già intervenute modificazioni psicofisiche, non sia più possibile richiedere un'autorizzazione preventiva al Tribunale, residuando, pertanto, la possibilità di demandare al Giudice soltanto la pronuncia di rettificazione. Dunque, il termine di un anno non è da intendersi come condizione di proponibilità/procedibilità dell'azione: in senso difforme, infatti, si configurerebbe la violazione di diritti personalissimi (artt. 2, 3, 16 e 32 Cost.) creando una disparità di trattamento rispetto a quanti, essendosi sottoposti all'operazione di adeguamento successivamente all'entrata in vigore della legge, potranno regolarizzare la loro situazione proponendo domanda di rettifica sine die. Vengono dedotte, altresì, la violazione del diritto di circolazione, poiché l'istante è sprovvisto di un documento di identità corrispondente al proprio aspetto esteriore, la errata interpretazione della legge alla luce della normativa e della giurisprudenza europea, nonché l'errata valutazione delle evidenze probatorie atteso che il richiedente, a livello anatomico e sociale, è ormai una donna a tutti gli effetti. Infine, viene sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, l. n. 164/1982 nell'ipotesi di conferma dell'interpretazione fornita dalla Corte territoriale. La Corte di Cassazione ritiene connesse e fondate tutte le motivazioni dedotte nel ricorso e non condivide l'interpretazione della Corte d'Appello per due ordini di ragioni. In primis, si evidenzia come al mancato rispetto del predetto termine consegua «non già la decadenza dall'esercizio dell'azione di rettifica, bensì semplicemente una preclusione rispetto all'esperibilità della procedura abbreviata di cui al secondo comma dell' art. 3» che consiste nella sola modifica del dato anagrafico senza che sia necessaria una autorizzazione al trattamento stesso già intervenuto. Inoltre, alla luce dell'art. 7, che prevede l'estinzione dei reati cui abbia eventualmente dato luogo il trattamento medico chirurgico antecedente alla l. n. 164/1982, il termine di un anno per la domanda di rettifica assume la specifica funzione di circoscrivere nel tempo tale effetto estintivo. A supporto di tale interpretazione, in secundis, la Corte richiama ragioni di natura sistematica da rintracciarsi nei mutamenti normativi intervenuti con il d.lgs. n. 150/2011 che hanno ridisegnato le procedure de quibus, prevedendo due diversi interventi dell'Autorità giudiziaria, preposti a funzioni di diversa natura, l'uno necessario, volto ad ottenere una sentenza costitutiva di rettificazione dei dati anagrafici, l'altro eventuale, che autorizza all'intervento medico-chirurgico per l'adeguamento dei caratteri sessuali solo quando il trattamento in oggetto “risulta necessario”. Attraverso il rimando ad una precedente pronuncia (Cass. civ., n. 15138/2015, v. A. Figone, Si può procedere alla rettificazione del sesso anche senza modifica dei caratteri sessuali primari, in IlFamiliarista.it), con la quale la Corte aveva già escluso che la preventiva demolizione (totale o parziale) dei caratteri sessuali primari fosse necessaria per perfezionare la rettifica del sesso, i Giudici della Cassazione confermano il carattere meramente eventuale del trattamento medico/chirurgico, conformemente all'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa de qua. E dunque, se l'intervento di modificazione anatomica non è sempre necessario ai fini della rettifica del sesso, ne consegue che, a maggior ragione, l'autorizzazione giudiziale mediante sentenza passata in giudicato (procedura di cui all'art. 31, comma 4, d.lgs. n. 150/2011) potrà essere aggirata (in quanto non più necessaria) quando l'interessato ha già mutato i propri caratteri sessuali. La sentenza impugnata, pertanto, viene cassata con rinvio alla Corte d'Appello di Perugia perché si attenga ai principi esposti. La questione
Nell'esercizio dell'azione di rettifica del sesso, il termine di un anno previsto dall'art. 6, l. n. 164/1982 entro cui proporre la domanda, nel caso in cui l'interessato si sia già sottoposto a trattamento medico-chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali, è da considerarsi condizione di procedibilità o proponibilità dell'azione tanto che, oltre tale limite temporale, si decade definitivamente dal diritto di ottenere giudizialmente la rettifica del sesso negli atti dello stato civile? Le soluzioni giuridiche
L'iter argomentativo seguito dalla Corte muove dalla l. n. 164/1982 (come modificata dal d.lgs. n. 150/2011) la quale regolamenta la procedura di rettificazione del sesso in Italia, prevedendo l'emissione di una sentenza passata in giudicato che attribuisca ad un soggetto sesso diverso da quello dichiarato nell'atto di nascita «a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali» (art. 1, l. n. 164/1982) e stabilendo, altresì, che qualora all'entrata in vigore della presente legge il soggetto si sia già sottoposto a trattamento medico/chirurgico per l'adeguamento dei caratteri sessuali, la relativa azione di accertamento debba essere proposta entro un anno (art. 6, l. n. 164/1982). Partendo dal presupposto che la prescrizione in oggetto non pone alcuna chiusura rispetto all'esercizio di un diritto fondamentale che afferisce alla sfera dell'identità personale in termini di procedibilità/proponibilità, la Corte rileva che dal dato normativo ex se emerge come il mancato rispetto del termine non importi la decadenza dall'esercizio dell'azione di rettificazione, ma semplicemente una preclusione rispetto all'esperibilità della procedura abbreviata. Pertanto, nell'ipotesi in cui il richiedente si sia già sottoposto a trattamento medico, il Tribunale dovrà prenderne atto e disporre direttamente in camera di consiglio la rettificazione, non essendo più necessario, a quel punto, presentare domanda di autorizzazione giudiziale. Tale ricostruzione è sorretta da un'interpretazione sistematica dell'impianto normativo vigente, apportata dal d.lgs. n. 150/2011 che ha previsto l'intervento dell'Autorità giudiziaria in due momenti (l'uno necessario, l'atro solamente eventuale) disponendo che «quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzarsi mediante trattamento medico/chirurgico, il Tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato» (art. 31, comma 4, d.lgs. n. 150/2011). Dunque, il ricorso al Giudice è indispensabile e non surrogabile per ottenere una sentenza costitutiva con riguardo alla sola rettificazione anagrafica del sesso del richiedente - non potendo quest'ultimo ottenere il medesimo risultato in via autonoma - ma non anche per la richiesta di autorizzazione a sottoporsi al trattamento medico/chirurgico per l'adeguamento dei caratteri sessuali che resta, viceversa, un passaggio meramente eventuale. Sul punto, la Corte fa espresso riferimento all'orientamento, ad oggi prevalente, che in tema di rettificazione del sesso nei registri di stato civile, in linea con i principi sovranazionali a tutela della libertà individuale, esclude la necessità, appunto, dell'intervento medico/chirurgico, essendo «il desiderio di realizzare la coincidenza tra soma e psiche, anche in mancanza dell'intervento di demolizione chirurgica, il risultato di un'elaborazione sofferta e personale della propria identità di genere realizzata con il sostegno di trattamenti medici e psicologici corrispondenti ai diversi profili di personalità e di condizione individuale» (Cass. civ., n. 15138/2015). Si tratta di un'interpretazione che trova conferma anche nel dato costituzionale (Corte cost. n. 221/2015, v. Per la rettificazione anagrafica del sesso non è obbligatorio l'intervento chirurgico, in IlFamiliarista.it) laddove si riconduce alla libera scelta del singolo la decisione delle modalità a mezzo delle quali, con il sostegno medico e di altre figure specializzate, realizzare il proprio percorso di transizione, ovvero, quel cammino contrassegnato da tutti gli elementi che concorrono a formare l'identità di genere, attraversando una trasformazione psicologica, comportamentale e fisica. Ed è tramite il suddetto ragionamento che si è giunti a rilevare, in definitiva, che l'autorizzazione del Giudice (ex art. 31, comma 4, d.lgs. n. 150/2011), allorquando il soggetto si sia già sottoposto a trattamento medico, appare del tutto superflua e, dunque, non necessaria. Osservazioni
Il caso sottoposto al vaglio della Corte si colloca nell'ambito di un tema molto delicato e dibattuto che riguarda la sfera dell'individuo più intima e personale, quale è quella afferente all'identità di genere. La normativa di riferimento si caratterizza per una indeterminatezza terminologica che, nel tempo, ha prestato il fianco a svariate interpretazioni divergenti, così ingenerando disuguaglianze. Le intervenute modificazioni dei caratteri sessuali, che in tema di rettificazione del genere anagrafico giustificano ex lege l'emissione di una pronuncia giudiziale attributiva di un sesso diverso da quello enunciato nell'atto di nascita, infatti, sono state interpretate dai Giudici di merito, nella maggior parte dei casi, nel senso che ai fini della rettificazione di sesso fosse indefettibile l'intervento chirurgico, in uno al completamento di una terapia ormonale. Disomogeneità di pronunce, e di giudicati, vi sono state addirittura nel valutare se l'intervento chirurgico richiesto dovesse comportare la demolizione dei soli caratteri sessuali esterni, oppure, anche di quelli interni (es. asportazione dell'utero), ovvero, coinvolgere i caratteri sessuali secondari oltre che quelli primari (organi genitali). Soltanto un orientamento giurisprudenziale minoritario (tra cui Cass. civ., n. 15138/2015), nel richiamarsi ad una interpretazione costituzionalmente orientata, riteneva l'intervento chirurgico condizione non necessaria, rimessa alla libera scelta del singolo, nel rispetto del principio di autodeterminazione e dell'identità personale di ogni individuo. È in questo quadro che l'intervento della Consulta si è reso necessario al fine di fornire all'interprete le coordinate utili per allineare il diritto vivente ai diritti personalissimi ed inviolabili della Costituzione, in adesione ai principi ed alle fonti sovranazionali. Innanzitutto, è emersa l'esigenza di ampliare i confini dell'identità sessuale quale concetto complesso che ricomprende una serie di elementi, psicologici e sociali. Di conseguenza, del tutto condivisibile è apparso l'orientamento, sino a quel momento ritenuto minoritario, per il quale un individuo può raggiungere il proprio equilibrio psico-fisico con la trasformazione anche solo di alcuni dei caratteri sessuali. È da escludersi, pertanto, che tale percorso debba necessariamente prevedere un trattamento di modificazione anatomica da intendersi, invece, unicamente come una delle ipotesi possibili in quanto funzionale alla tutela del diritto alla salute, ovvero, al raggiungimento di uno stabile equilibrio psicofisico, «in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica» (Corte cost., n. 221/2015). L'acquisizione di una nuova identità di genere, pertanto, è frutto di un processo individuale che, al fine del conseguimento di un benessere complessivo, non postula l'obbligo di sottoporsi ad un'operazione di modifica prettamente chirurgica, ma che necessita invece di una rigorosa verifica giurisdizionale circa la serietà e la univocità del percorso di transizione scelto, nonché, del raggiungimento dell'approdo finale. Una lettura della norma, questa, che tiene conto dell'evoluzione sociale e culturale in atto, volta ai valori di libertà e dignità, nonché, al riconoscimento del diritto all'identità di genere e al diritto all'identità personale, quali diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 CEDU). È questa l'interpretazione, oggi prevalente, della normativa che regolamenta la rettificazione del sesso. Un orientamento che, contemplando e riconoscendo tutti i diritti dell'individuo, in quanto persona libera di autodeterminarsi, anche nella scelta del proprio individuale percorso di transizione, diviene foriero e promotore di una più ampia tutela degli interessi dei transessuali alla propria identità di genere, richiamando, altresì, tutti gli operatori del diritto ad una maggiore attenzione sul tema. - A. Lorenzetti, Diritti in transito. La condizione giuridica delle persone transessuali, Milano, 2013; - S. Patti, Mutamento di sesso e «costringimento al bisturi»: il Tribunale di Roma e il contesto europeo, in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2015, 39; - S. Patti, Rettificazione di sesso e intervento chirurgico, in Famiglia persone e successioni, 2007; - A. Schuster, La rettificazione di sesso: criticità persistenti, in articolo29.it; - S. Rodotà, La vita e le regole, tra diritto e non diritto, Milano, 2009, 88. |