Analogie tra la responsabilità solidale della Banca e quella dell’Azienda ospedaliera per fatto dei propri medici
13 Marzo 2018
Inquadramento
La recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. I, 10 gennaio 2018 n. 369), muovendo da un particolare caso di aprocrifia della firma apposta ad un ordine di investimento in obbligazione dal padre in luogo del figlio, titolare del conto ed apparente investitore, confermando la decisione della Corte d'Appello di Lecce, ha ribadito una serie di principi consolidati in materia di obbligazioni solidali che possono così essere sintetizzati: a) il creditore può agire nei confronti di uno tra i debitori in solido, ai sensi dell'art. 1292 c.c; b) nei rapporti interni il condebitore convenuto può esercitare azione di regresso nei confronti degli altri soggetti responsabili ai sensi dell'art. 1299 c.c.; c) è ammesso regresso anticipato con la possibilità che nel giudizio, su chiamata del condebitore, siano evocati anche gli altri condebitori; d) il giudice può prescindere dalla determinazione della percentuale di concorso di responsabilità ma se è esercitata azione di regresso dovrà procedere a graduare le colpe; e) quando ad agire è la persona giuridica, ai sensi dell'art. 1228 e/o 2049 c.c., può rivalersi per l'intero sui responsabili, propri dipendenti o ausiliari; f) la responsabilità della banca per fatto dei propri dipendenti esiste ogniqualvolta il fatto è commesso dagli stessi nell'esercizio della loro attività lavorativa in un rapporto di occasionalità necessario tra l'attività e il danno prodotto.
Quadro giurisprudenziale
Sostanzialmente, la Suprema Corte ha richiamato taluni principi già affermati da tempo dalla giurisprudenza dominante in tema di artt. 2049 e 1228 c.c., principi applicati alla responsabilità della banca o dell'istituto finanziario per fatto dei propri dipendenti. Ed invero, in particolare l'art. 2049 c.c. testualmente recita: «I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti», sottende una forma di responsabilità aggravata, di natura oggettiva, nel senso che prescinde all'accertamento di profili di colpa in capo al datore di lavoro, e rafforza la posizione del danneggiato il quale potrà così rivolgersi direttamente al preposto, nel caso di danno subito per comportamento riferibile a fatto doloso o colposo del dipendente – elementi comunque che devono sempre ricorrere rispetto alla condotta dal danneggiante diretto – purché si tratti di condotte poste in essere nell'espletamento dell'attività lavorativa o che con questa siano legate da rapporti di “occasionalità necessaria”.
Sul punto è condivisibile il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui: «La responsabilità indiretta di cui all'art. 2049 c.c. per il fatto dannoso commesso da un dipendente postula l'esistenza di un rapporto di lavoro ed un collegamento tra il fatto dannoso del dipendente e le mansioni da questi espletate, senza che sia, all'uopo, richiesta la prova di un vero e proprio nesso di causalità, risultando sufficiente, viceversa, l'esistenza di un rapporto di "occasionalità necessaria", da intendersi nel senso che l'incombenza svolta abbia determinato una situazione tale da agevolare e rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso, e ciò anche se il dipendente abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, o persino trasgredendo gli ordini ricevuti, purché sempre entro l'ambito delle proprie mansioni. (Nella specie, l'attore aveva chiesto la condanna di una banca alla restituzione di una somma di danaro da lui versata presso una delle filiali dell'istituto - onde consentirne il corrispondente accredito in suo favore all'estero - ma mai accreditatagli dalla banca stessa, mentre l'istituto si era difeso sostenendo la propria estraneità al rapporto per infedeltà del direttore della filiale - denunciato per truffa ed appropriazione indebita - che aveva materialmente ricevuto la somma: il giudice di merito, ritenuto che, per un verso, le operazioni di versamento degli assegni circolari per l'importo della somma poi richiesta in restituzione dall'attore, eseguite nei locali della filiale della banca, rientrassero nella normale attività di quest'ultima, e che detti assegni erano stati materialmente consegnati al direttore preposto alla filiale stessa, il quale non aveva, dal suo canto, agito a titolo personale, ha ritenuto responsabile l'istituto di credito convenuto, con decisione confermata dalla S.C. che ha sancito, nella specie, il principio di diritto di cui in massima) »(Cass. civ., 20 marzo 1999 n. 2574; conf. ex plurimis Cass. civ., 6 luglio 2017 n. 16658; Cass. civ., 6 luglio 2017 n. 16663).
Inoltre, la Corte di Cassazione, nella pronunzia n. 14578/2007 ha evidenziato come «la responsabilità del preponente ex art. 2049 c.c. sorge … per il solo fatto dell'inserimento dell'agente nell'impresa, senza che assumano rilievo nè la continuità dell'incarico affidatogli, nè l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato: basta che il comportamento illecito del preposto sia stato agevolato o reso possibile dalle incombenze a lui demandate dall' imprenditore e che il "commesso" abbia svolto la sua attività sotto il controllo del primo»(Cass. civ., 3 aprile 2000, n. 4005; Cass. civ., 21 giugno 1999, n. 6233; Cass. civ., 22 marzo 1994, n. 2734).
È indicativo in tal senso che, per le attività illecite attuate dal promotore finanziario prima dell'entrata in vigore della l. n. 1 del 1991, sia stata riconosciuta, ai sensi dell'art. 2049 c.c. la responsabilità della società di intermediazione finanziaria ove l'agente, pur privo del potere di rappresentanza, avesse avuto il compito di promuovere, per conto della società, la conclusione di contratti di investimento finanziario ed avesse fatto sottoscrivere tali contratti ai risparmiatori, procedendo alla riscossione delle somme da questi ultimi versate (Cass. civ., 29 settembre 2005, n. 19166). Si è ritenuto sufficiente, in tali ipotesi, che il mandatario si fosse avvalso della sua qualità di rappresentante per consumare l'illecito e che l'attività da lui posta in essere apparisse, al terzo di buona fede, come rientrante nei limiti del mandato (Cass. civ., 27 giugno 1984, n. 3776). Anche l'attribuzione all'agente della facoltà di riscuotere i premi secondo la previsione dell'art. 1744 c.c. o, comunque, l'indicazione al creditore che lo stesso fosse autorizzato a ricevere il pagamento a norma dell'art. 1188 c.c., sono stati considerati idonei ad instaurare un rapporto di commissione atto a far sorgere, ex art. 2049 c.c., la responsabilità di chi aveva conferito l'incarico (Cass. civ., 17 maggio 1999, n. 4790).
Quanto poi ai caratteri del rapporto di preposizione ed al nesso di occasionalità necessaria tra fatto illecito del preposto ed esercizio delle mansioni a lui affidate, è noto come si ritenga sufficiente, per l'applicazione dell'art. 2049 c.c., che le suddette mansioni abbiano reso possibile od agevolato il comportamento produttivo di danno. Non rileva invece che tale comportamento abbia superato il limite delle mansioni stesse (Cass. civ., 19 luglio 2002, n. 10580; Cass. civ., 20 marzo 1999, n. 2574; Cass. civ., 10 dicembre 1998, n. 12417; Cass. civ., 9 ottobre 1998, n. 10034). In simili ipotesi, ove un istituto esercente attività finanziaria sia chiamato a rispondere del fatto illecito del proprio dipendente, l'orientamento giurisprudenziale assolutamente predominante e condivisibile ha fatto ampio riferimento o all'art. 1228, nel caso però di dipendente incardinato nella struttura ovvero all'art. 2049 c.c. nel caso di promotore libero professionista legato da un contratto di collaborazione con la società finanziaria, nell'ottica di una vera e propria responsabilità di tipo oggettivo, contraddistinta, in buona sostanza, dal cd. rischio di impresa. È, infatti, il soggetto preponente quello che meglio può attrezzarsi per prevenire in modo efficiente gli illeciti dell'agente e, pertanto, degli stessi deve rispondere. L'occasionalità necessaria è da intendere nel senso che l'incombenza svolta abbia determinato una situazione tale da agevolare e rendere possibile il fatto illecito e l'evento dannoso, e ciò anche se il dipendente abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, o persino trasgredendo gli ordini ricevuti, purchè sempre entro l'ambito delle proprie mansioni (Cass. civ., 7 gennaio 2002, n. 89; Cass. civ., 20 marzo 1999, n. 2574).
Il principio espresso per i dipendenti della pubblica amministrazione individua il nesso di occasionalità necessaria tra la condotta causativa del danno e le funzioni esercitate dal dipendente quando il dipendente non abbia agito quale privato per fini esclusivamente personali ed estranei all'amministrazione di appartenenza, ponendo in essere una condotta ricollegabile, anche solo indirettamente, alle attribuzioni proprie dell'agente (Cass. civ., 10 ottobre 2014, n. 21408; Cass. civ., 29 dicembre 2011, n. 29727). Se dunque il dipendente ha agito per un fine strettamente personale ed egoistico, sulla base di un comportamento non riconducibile all'esercizio delle mansioni, mancando ogni connessione causale fra mansione ed evento dannoso il nesso causale è da reputare interrotto. Il relativo accertamento compete al giudice di merito ed è sindacabile in sede di legittimità solo nei limiti del vizio motivazionale (Cass. civ., 10 novembre 2015, n. 22956).
Ancora dalla lettura della sentenza in commento emergono significative indicazioni in ordine alla configurabilità di un cumulo tra diverse forme di responsabilità: il terzo (in specie il padre), parimenti responsabile, che tuttavia risponde a titolo di responsabilità extracontrattuale unitamente al direttore della filiale il quale risponde a titolo di responsabilità contrattuale. La possibilità di cumulare titoli di responsabilità diverse, nell'ambito dello stesso processo, postula la commistione tra principi differenti che sovraintendono le regole di riparto dell'onere probatorio e della prescrizione: agevolati nel caso di illecito contrattuale e più gravosi nel caso di illecito aquiliano.
I principi chiaramente enunciati dalla sentenza in esame inducono ad operare una sorta di parallelismo tra segmenti di responsabilità ascrivibile parimenti alle aziende ospedaliere per illecito colposo compiuto dal proprio personale medico o paramedico strutturato, vale a dire legato con la struttura da un contratto di lavoro dipendente, per i quali è configurabile una responsabilità solidale, fondata sull'art. 1228 c.c. ovvero sull'art. 2055 c.c., rispondente ai medesimi principi individuati dalla sentenza Cass. civ., n. 368/2018.
Ed invero, deve premettersi che la consolidata giurisprudenza sia di merito che di legittimità ha da sempre inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria e del medico nella categoria giuridica della responsabilità contrattuale discendente, nel primo caso, dal contratto di spedalità o dalla legge istitutiva del SSNN, nel secondo caso, dal “contatto sociale”. Il contratto di spedalità, in particolare, si conclude tra paziente e struttura ospedaliera per effetto del ricovero ed è un rapporto caratterizzato dalla complessità e dall'atipicità, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l'apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni”. In virtù dell'autonomo contratto, che si potrebbe definire di "assistenza sanitaria" o “spedalità”, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, “che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cd. di protezione ed accessori”. La responsabilità mantiene la propria connotazione contrattuale, atteso che ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso” (in tal senso, fra le altre, Cass. civ., 19 aprile 2006 n. 9085).
Ne consegue che, in ogni caso, nell'ipotesi di accertamento in concreto di una forma di responsabilità per comportamento omissivo o commissivo colposo dei medici, perché negligente ed imperito, ne risponde comunque la struttura sanitaria che si avvale dell'opera del professionista e che eroga, per il suo tramite, una prestazione complessa di natura medico-sanitaria comunque oggetto del contratto di spedalità che, appunto, non può essere giammai ridotto a mera fonte di obbligazioni aventi natura “alberghiera” e ciò anche nel caso in cui il medico non sia direttamente incardinato nell'organigramma dell'ente ma operi in regime convenzionato.
Quanto alla posizione del medico, come detto, la giurisprudenza da tempo ha parimenti qualificato la relativa responsabilità come responsabilità di tipo contrattuale, nascente dal “contatto” qualificato che viene a crearsi tra il paziente e l'esercente la professione sanitaria per il solo fatto di somministrare al primo le cure necessarie in guisa da instaurare un rapporto protettivo “qualificato”, anche nella misura in cui di tale prestazione se ne avvalga la stessa struttura. L'art. 7 della legge n. 24 del 2017 – c.d. Legge Gelli-Bianco contiene oggi significative novità sul fronte della responsabilità dell'esercente la professione sanitaria. Lascia immutata la responsabilità contrattuale della struttura ospedaliera, e, di contro, ribadisce in maniera “testualmente” più chiara della precedente versione che l'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'art. 2043 c.c., quasi a volere sancire una regola di carattere generale che contempla, tuttavia, significative eccezioni. Tale inquadramento, infatti, viene meno in tutti i casi in cui il medico abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta direttamente con il paziente. I casi delle prestazioni intramurarie per le quali vi sia stato una relazione negoziale preventiva e qualificata prima dell'accesso alla struttura nosocomiale vengono trattate nel comma 2 dell'art. 7 ed assimilati alla responsabilità contrattuale della struttura di cui al comma 1. Peraltro, lo stesso legislatore, con una tecnica espressiva certamente anomala, qualifica le disposizioni contenute nell'articolo in esame come imperative proprio per sottrarre alla prassi interpretativa ogni possibile diversa qualificazione della responsabilità. Indi, a seguito della chiara presa di posizione dello stesso legislatore, non residua alcuno spazio alla figura della responsabilità contrattuale da “contatto sociale”, e l'onere di provare l'esistenza di un rapporto qualificato di matrice contrattuale grava in capo al paziente, perché derogatorio rispetto alla regola generale. Tracciata per brevissime linee il quadro del fondamento della responsabilità dell'azienda ospedaliera e del medico strutturato, come oggi riformato dal recente intervento legislativo, l'esistenza di differenti titoli di responsabilità postula, nell'ambito dello stesso giudizio, la commistione tra principi differenti che sovraintendono le regole di riparto dell'onere probatorio e della prescrizione al pari di quanto ipotizzato da Cass. civ., n. 369/2018.
Tale pronuncia, proprio nella parte in cui ha analizzato positivamente il rapporto esterno ed interno, tra banca, dipendente, terzo concorrente nell'illecito e investitore danneggiato, concludendo per l'esistenza di un vincolo di natura solidale ancorché fondato su titoli di responsabilità diversa, consente di risolvere parimenti positivamente i dubbi nascenti dalla diversità di connotazione della responsabilità dell'azienda sanitaria e di quella del medico, quest'ultima ex lege aquiliana, potendosi ritenere l'esistenza di obbligazioni solidali a vantaggio del paziente danneggiato che potrà così rivolgersi direttamente all'azienda per fatto del proprio dipendente. In ipotesi, tuttavia, la peculiarità nasce dal fatto che a rispondere extracontrattualmente è il medico che ha dato causa, in misura esclusiva o prevalente, all'illecito e non il terzo estraneo alla struttura organizzativa dell'azienda – come nel caso della banca e del padre analizzato dal giudice di legittimità – nei cui confronti, dunque, non può più trovare applicazione un'unitaria forma di responsabilità di matrice contrattuale.
Dal lato esterno, in ogni caso, sebbene la legge abbia privilegiato l'opzione risarcitoria da far valere nei confronti della struttura, scoraggiando in tutti i modi le azioni nei confronti dei medici, alfine di scongiurare la c.d. medicina difensiva, tuttavia la diversità di titoli non osta ad un'azione fatta valere nei confronti di entrambi i soggetti invocando una forma di responsabilità solidale. In ordine al segmento dei rapporti interni, le aziende sanitarie possono agire in rivalsa nei confronti dei medici responsabili dell'illecito: l'art. 9 della l. n. 24/2017 disciplina l'azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa della struttura sanitaria nei confronti dell'esercente la professione sanitaria. L'accoglimento di tale azione innanzitutto presuppone il dolo o la colpa grave di quest'ultimo, può essere esperita, a pena di decadenza, entro un anno dall'avvenuto pagamento qualora il sanitario non sia stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno e, dunque, in un tempo ancora più ridotto dei cinque anni previsti per il caso di invocabilità dell'art. 2055 c.c. ovvero dei dieci anni per i casi di art. 1228 c.c. La norma ancora prevede che la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro la struttura sanitaria o la compagnia assicuratrice non fa stato nel giudizio di rivalsa se l'esercente la professione sanitaria non è stato parte di quel giudizio. Quanto al contenuto ed ai limiti dell'esercizio dell'azione di rivalsa, la giurisprudenza di merito si è divisa, in primo luogo, sull'individuazione della fonte normativa che legittima la domanda della struttura, se individuabile nell'art. 2055 c.c. ovvero nell'art. 1176 c.c. quale inadempimento contrattuale del medico rispetto ai suoi obblighi da far valere nei confronti dell'azienda, sua datrice di lavoro (Trib. Milano 31 gennaio 2015; Trib. Milano, 23 novembre 2016).
In secondo luogo, la diversità di soluzioni si registra anche sul fronte dei limiti circa la possibilità per l'azienda di rivalersi sul medico colpevole: se è possibile imputare il fatto dannoso in via esclusiva alla condotta imperita e negligente del sanitario con possibilità di recuperare integralmente quanto corrisposto al paziente a titolo di responsabilità contrattuale ovvero se, di contro, debba prospettarsi una quota di responsabilità unicamente riferibile alla struttura per essersi avvalsa della prestazione del medico imperito.
Difatti, in merito all'azione regolata dall'art. 2055 c.c. si afferma «Quando un medesimo danno è provocato da più soggetti, per inadempimenti di contratti diversi, intercorsi rispettivamente tra ciascuno di essi e il danneggiato, tali soggetti debbono essere considerati corresponsabili in solido, non tanto sulla base dell'estensione alla responsabilità contrattuale della norma dell'art. 2055 cod. civ., dettata per la responsabilità extracontrattuale, quanto perché, sia in tema di responsabilità contrattuale che di responsabilità extracontrattuale, se un unico evento dannoso è imputabile a più persone, al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell'obbligo risarcitorio, è sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso di causalità ed il concorso di più cause efficienti nella produzione dell'evento (dei quali, del resto, l'art. 2055 costituisce un'esplicitazione), che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrlo» (Cass. civ., n. 7618/2010, Cass. civ., n. 23918/2006).
Un primo orientamento, certamente maggioritario, ritiene che l'azione di regresso possa essere esercitata anche per l'intero, qualora la responsabilità dell'evento sia imputabile in via esclusiva ad uno solo dei coobbligati e la solidarietà dell'altro coobbligato solo prevista a tutela del danneggiato (ex plurimis Trib. Milano, sez. I, 23 luglio 2014, n. 9693; App. Milano, sez. II 2 dicembre 2014, 4324).
Di contro, un significativo indirizzo concorda nel ritenere che la domanda di manleva non possa mai essere accolta per intero atteso che: «Sulla struttura sanitaria convenuta gravano precisi obblighi relativi alla scelta dei professionisti che operano presso l'ente e al controllo sulla formazione e l'aggiornamento degli stessi (allo scopo di evitare danni a terzi che, senza alcuna possibilità di controllare la preparazione dei professionisti che lavorano presso la struttura sanitaria, vengono con loro in contatto)… quest'ultima avrebbe dovuto vigilare sulle prestazioni e sul comportamento dei professionisti che presso la stessa operavano» dovendo sempre riconoscersi una culpa in eligendo e/o in vigilando a carico della struttura in presenza di un errore del medico che vi opera (Trib. Milano n. 11171/2014).
D'altra parte, la tesi che fonda una quota di responsabilità comunque ascrivibile all'azienda la quale non potrà recuperare l'intera somma risarcita, non solo oggi è avvalorata dall'impianto normativo della nuova legge, che come detto, ha ridotto l'ambito temporale ed operativo della rivalsa, ma trova riscontro nello stesso contenuto del contratto di spedalità, concluso tra paziente ed ospedale, caratterizzato dalla complessità delle prestazioni dovute, talune di natura “alberghiera”, aventi carattere complementare, ed altre, quelle essenziali e principali, di natura sanitaria somministrate per il tramite dei medici e del personale ausiliario della cui opera l'azienda di avvale (art. 1228 c.c.). Ne consegue che un inadempimento qualificato del medico che abbia provocato un danno al paziente non può non integrare un inadempimento intanto della struttura che, avvalendosi di quel professionista, ha erogato un servizio in maniera imperita od erronea. La possibilità di recuperare, con l'azione di regresso, integralmente le somme corrisposte a titolo di risarcimento del danno, equivarrebbe a ritenere che la struttura, per se stessa non risponde per inadempimento della prestazione essenziale di quel contratto che il paziente ha concluso al momento del suo ricovero, potendosi reputare responsabile solo per una porzione meno significativa di obblighi, quelli appunto di natura meramente alberghiera o puramente nosocomiale. In conclusione
Il raffronto operato tra i due ambiti di obbligazioni plurisoggettive, che vedono il soggetto giuridico responsabile in solido, unitamente al proprio personale dipendente, nel caso di danni provocati per fatti posti in essere da questi ultimi nell'esercizio delle loro funzioni nei confronti dei terzi, consente, da un canto, di cogliere le assimilazione di categorie giuridiche e di segmenti di rapporti, interni ed esterni resi ancora più stringenti dal recente intervento legislativo in tema di responsabilità sanitaria e, dall'altro canto, di individuare le significative diversità tra la responsabilità della banca e quella della struttura sanitaria nella misura in cui, come detto, la scelta del legislatore di qualificare ex lege la responsabilità del medico, pur incardinato nella struttura e direttamente operante nei confronti del paziente, sì da sottrarre tale prerogativa all'interprete, finisce per determinare distonie all'interno dei giudizi e gravare i danneggiati da oneri probatori ulteriori. D'altra parte conclusivamente, tale rischio potrà essere eliso solo da una gestione del processo, anche nella fase extraprocessuale degli ATP, tale da consentire la contemporanea presenza di tutti i soggetti, parti significative del rapporto sostanziale ed assicurativo, in ottica di semplificazione e di riduzione dei tempi di risposta alle domande risarcitorie proposte. |