Violenza domestica e riconoscimento dello status di rifugiato nell'interpretazione della Cassazione

21 Marzo 2018

È rifugiato chi scappa da un matrimonio combinato? Secondo la Suprema Corte, gli atti di violenza contro le donne sono una delle tante fattispecie che possono realizzare i presupposti del riconoscimento dello status di rifugiato. Nel caso di specie, la donna aveva dovuto affrontare gravi conseguenze per essersi opposta al matrimonio al matrimonio con suo cognato configurando il presupposto del fondato timore di persecuzione nel suo paese nativo.
Massima

Si ha persecuzione, presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato, nel caso in cui una donna, rifiutatasi di rispettare le regole consuetudinarie del proprio villaggio che prevedono, in caso di morte del marito, di unirsi in matrimonio con il fratello del defunto, viene costretta ad allontanarsi dalla propria abitazione e viene privata di tutte le proprietà e della potestà genitoriale sui figli.

Il caso

Il Tribunale di Bologna con ordinanza del 4 febbraio 2013 ha accolto il ricorso, proposto dalla richiedente, avverso il provvedimento negativo della Commissione territoriale, riconoscendole per l'effetto il diritto alla protezione sussidiaria.

La richiedente aveva dedotto di essere stata costretta ad abbandonare il proprio Paese di origine in quanto, in seguito alla morte del marito, si era rifiutata di sottoporsi alle pratiche funebri tradizionali imposte alle vedove e quindi di unirsi in matrimonio con il fratello del defunto secondo il diritto consuetudinario locale. Di conseguenza, era stata allontanata dalla sua abitazione, privata della potestà genitoriale sui figli, spogliata delle sue proprietà e perseguitata dal cognato, il quale reclamava il suo diritto di averla in sposa.

La Corte territoriale ha accolto l'appello principale proposto dal Ministero dell'Interno e rigettato l'appello incidentale proposto dalla cittadina straniera per il riconoscimento dello status di rifugiato, negandole ogni forma di protezione.

La donna ha proposto ricorso per cassazione lamentando in sintesi la mancata valutazione delle condotte subite dalla stessa quali atti di persecuzione basati sul genere, nonché il difetto di motivazione in ordine alla rilevanza della sua situazione personale rispetto alla situazione di conflitto esistente nel paese d'origine.

La questione

La questione giuridica è riconducibile alla problematica relativa al riconoscimento dello status di rifugiato, così come definito dalla all'art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951 («Convenzione sullo statuto dei rifugiati»), ratificata in Italia con l. n. 722/1954.

È dunque necessario valutare se le condotte subite dalla richiedente in Nigeria possano costituire atti di persecuzione basati sul genere, ovvero lesioni di diritti fondamentali quali il diritto alla genitorialità, alla proprietà privata, alla libertà di scegliere se e con chi contrarre matrimonio. In altre parole, si tratta di accertare se la cosiddetta violenza domestica possa essere ricondotta nella fattispecie descritta e analiticamente dettagliata dall'art. 7, d.lgs. n. 251/2007, secondo il quale, per quello che qui rileva, gli atti di persecuzione, che devono essere «sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali» (art. 7, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 251/2007) possono assumere la forma tra l'altro di «atti di violenza fisica o psichica» (art. 7, comma 2, lett. a, d.lgs. n. 251/2007) o di atti «specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l'infanzia» (art. 7, comma 2, lett. f, d.lgs. n. 251/2007).

Pertanto occorre inquadrare l'oggetto della condotta degli atti persecutori, identificare il soggetto che ha posto in essere detti atti ai sensi degli artt. 5 e 6 d.lgs. n. 251/2007, e infine comprendere i motivi della persecuzione che rilevano ai sensi dell'art. 1, n. 2, della Convenzione di Ginevra e ai sensi dell'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 251/2007 (razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale, opinione politica).

Le soluzioni giuridiche

È rifugiato chi scappa da un matrimonio combinato?

Secondo la Suprema Corte, gli atti di violenza contro le donne sono una delle tante fattispecie che possono realizzare i presupposti del riconoscimento dello status di rifugiato. Nel caso di specie, la donna aveva dovuto affrontare gravi conseguenze per essersi opposta al matrimonio al matrimonio con suo cognato configurando il presupposto del fondato timore di persecuzione nel suo paese nativo.

I responsabili erano soggetti privati ma, in concreto, le Autorità nigeriane non avevano fornito alcuna protezione alla donna, lasciandola in balia degli atti persecutori realizzati dal cognato.

La Cassazione ritiene che la pronuncia della Corte di appello di Bologna si ponga in contrasto sia con la normativa nazionale, sia con il quadro di riferimento internazionale e comunitario, richiamando la convenzione di Istanbul dell'11 maggio 2011, resa esecutiva in Italia con l. n. 77/2013 (sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), per concludere che anche gli atti di violenza domestica sono riconducibili all'ambito dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale.

La Corte richiama anche le linee guida dell'UNHCR del 7 maggio 2002 sulla persecuzione basata sul genere che al punto 25 specificano – come posto in luce dalla ricorrente – che si ha persecuzione anche quando una donna viene limitata nel godimento dei propri diritti a causa del rifiuto di attenersi a disposizioni tradizionali religiose legate al suo genere.

Secondo la Suprema Corte, il Giudice di secondo grado ha errato a ritenere che l'allontanamento della richiedente dal proprio villaggio sarebbe stata frutto di una scelta volontaria, giacché le autorità tribali cui si era rivolta le avevano consentito di sottrarsi al rispetto delle consuetudini locali più brutali, ma alla condizione di allontanarsi dai proprio figli e di perdere i propri beni.

Il peso delle norme consuetudinarie locali ha quindi impedito alla richiedente di trovare adeguata protezione da parte delle autorità statali, così da essere limitata nel godimento dei propri diritti a causa del rifiuto di attenersi a disposizioni tradizionali religiose legate al suo genere.

In conclusione la Corte decidendo nel merito ha riconosciuto ai sensi dell'art. 384, comma 2, c.p.c. lo status di rifugiato.

Osservazioni

La sentenza in commento ha indubbiamente una portata innovativa.

Già l'UNHCR, nelle linee guida del 7 maggio 2002, aveva evidenziato come storicamente la definizione di “rifugiato” trascurasse la situazione in cui versavano le donne provenienti da determinate zone, sottolineando la necessità di non limitarsi a verificare che alcune pratiche persecutorie legate al genere fossero vietate, dovendosi piuttosto accertare che di fatto esse non fossero tollerate e che le autorità fossero in grado di impedire il loro manifestarsi.

Al punto 25 le linee guida specificano appunto che si ha persecuzione anche quando una donna viene limitata nel godimento dei propri diritti a causa del rifiuto di attenersi a disposizioni tradizionali religiose legate al suo genere.

La richiamata Convenzione di Istanbul dell'11 maggio 2011 all'art. 60 prevede che «Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell'art. 1, A(2) della Convenzione relativa allo Status di rifugiati del 1951 e come forma di grave pregiudizio che dia luogo ad una protezione in materia complementare/sussidiaria».

In termini generali, la violenza contro le donne è definita già nel preambolo del trattato come species di una più ampia fattispecie, quella della violenza di genere (gender-based violence), suscettibile di colpire anche gli uomini e inclusiva di condotte di carattere sistematico, spesso suscitate da condizionamenti di ordine storico, sociale o culturale che producono gravi discriminazioni ai danni delle vittime, ostacolandone il pieno sviluppo della personalità e delle capacità umane (disempowerment).

Segue, nell'articolato, la definizione specifica di violenza contro le donne da intendersi (art. 3), come «una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella sfera pubblica che nella sfera privata».

A tale formula comprensiva si riferisce poi l'autonoma categoria normativa della violenza domestica, inclusiva di ogni genere di condotte di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all'interno della famiglia o di un'unità domestica ovvero tra coniugi o ex coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l'autore della violenza condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima.

L'ulteriore riferimento testuale alla violenza contro le donne basata sul genere intende evidenziare, nel riferimento a ruoli, atteggiamenti, attributi del "genere" (culturalmente e socialmente costruiti e orientati), il carattere discriminatorio di ogni violenza che sia «diretta contro una donna in quanto tale» (perché è una donna) o che colpisca le donne in misura sproporzionata.

L'Italia ha ratificato e reso esecutiva la Convenzione con la l. n. 77/2013.

Riconducendo dunque in astratto tali forme di violenza all'ambito dei trattamenti inumani o degradanti di cui all'art. 14, lett. b, d.lgs n. 251/2007, nel caso esaminato dalla Suprema Corte era previamente necessario approfondire la situazione del paese di provenienza della ricorrente, come richiesto dall'art. 3, comma 3, lett. a, d.lgs. n. 251/2007 e dall'art. 8, comma 3, d.lgs. n.25/2008; era necessario quindi verificare se in presenza di una minaccia grave ad opera di un soggetto non statuale, quale nel caso in esame il fratello del defunto marito, lo Stato nigeriano ovvero le autorità statali non potevano o non volevano fornire protezione a fronte del peso esercitato dalle norme consuetudinarie locali e dalle autorità tribali.

In precedenza la Corte di Cassazione si era pronunciata in senso conforme nell'interpretare la Convenzione di Istanbul, con la sentenza Cass. civ., n. 12333/2017. La vicenda giudiziale riguardava una cittadina marocchina vittima per anni di abusi e violenze da parte del marito anche dopo aver ottenuto il divorzio. A causa di questi episodi, l'ex-marito era stato condannato in Marocco alla pena di tre mesi di reclusione con sospensione condizionale della pena.

Lasciato il suo Paese, la donna aveva fatto richiesta di protezione internazionale adducendo che in caso di rientro in Marocco sarebbe stata nuovamente esposta agli abusi e alle violenze dell'ex-marito. Sia la Commissione territoriale che il Giudice di primo e secondo grado avevano rigettato la richiesta in ragione del fatto che la vicenda narrata rientrerebbe nell'ambito dei rapporti familiari non meritevoli di protezione internazionale in considerazione delle possibilità di tutela offerte alla donna dal suo Paese di origine.

Secondo la Suprema Corte invece la vicenda della cittadina marocchina doveva trovare tutela nelle previsioni della Convenzione di Istanbul essendo riconducibile all'ambito dei trattamenti inumani e degradanti ex art. 14, lett. b, d.lgs. n. 251/2007.

La fattispecie da ultimo esaminata dalla Cassazione si inserisce in questo contesto normativo e giurisprudenziale essendosi realizzati pienamente i presupposti sia della Convenzione di Instanbul sia della fattispecie di cui all'art. 7, d.lgs. n. 251/2007 ovvero:

- il fondato timore (art. 3, comma 3, lett. c, d.lgs. n. 251/2007) di persecuzione personale e diretta nel paese d'origine della richiedente a cagione della sua appartenenza ad un gruppo sociale (in quanto donna);

- la forma di «atti specificatamente diretti contro un genere sessuale» ( art.7, comma 2, lett.f, d.lgs. n. 251/2007);

- la provenienza di tali atti da soggetti non statuali ( art. 6, comma 2, d.lgs. n. 251/2007), la cui responsabilità è determinante se le autorità statali o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio «non possono o non vogliono fornire protezione».

La Corte invero evidenzia come in alcuni Stati la religione configura codici di comportamento per uomini e per donne, prevedendo che nel caso in cui la donna non si attenga a queste regole possa essere punita per il suo comportamento; tale rischio ingenera nella stessa il fondato timore di essere perseguitata a cagione del mancato attenersi ai codici di comportamento prescritti dalla consuetudine locale.

È evidente che nell'esaminare i casi concreti occorra verificare la capacità dello Stato di provenienza di offrire un'adeguata protezione alla vittima di persecuzione: nel caso di specie la Corte ha ritenuto verificato tale presupposto osservando che proprio il peso delle norme consuetudinarie avrebbe impedito alla ricorrente di trovare adeguata protezione da parte delle autorità statali. Decidendo nel merito, ha pertanto riconosciuto lo status di rifugiato, senza rimettere gli atti alla Corte territoriale per ulteriori approfondimenti, ritenendo già di per sé accertata, in relazione ai predetti criteri, l'incapacità dello Stato di offrire adeguata protezione alla vittima.

In termini analoghi si segnala la recente sentenza del Trib. Brescia 7, gennaio 2018 che ha riconosciuto la protezione internazionale a favore di una cittadina senegalese che«[...] per il solo fatto di appartenere al particolare gruppo sociale costituito dalle donne, è stata sottoposta a una persecuzione consistita in atti di violenza fisica o (e) psichica, compresa la (ripetutamente tentata) violenza sessuale…. Con la precisazione che la persecuzione, posta in essere dai soggetti di sesso maschile della sua cerchia familiare, era stata compiuta senza che la ricorrente potesse fare affidamento sull'esistenza di una effettiva e adeguata protezione statuale».

Si rammenta infine che, oltre alla protezione internazionale, sussiste in Italia la possibilità di rilasciare un permesso per motivi umanitari alle vittime straniere di violenza domestica, quando il fatto si verifichi in Italia e non nel Paese di provenienza, ai sensi dell'art. 18bis,d.lgs. n. 286/1998 (TUI), introdotto dal d.l. n. 93/2013 che consente il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari alle vittime straniere di reati inerenti la violenza domestica, qualora il questore ritenga sussistente un «concreto ed attuale pericolo per la sua incolumità, come conseguenza della scelta di sottrarsi alla medesima violenza o per effetto delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio».

Guida all'approfondimento

- Unhcr, Linee guida sulla protezione internazionale n. 1. La persecuzione di genere nel contesto dell'articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati, 7 maggio 2002, HCR/GIP/02/01, reperibili sul sito www.refworld.org.

- D. Genovese, Violenza di genere e protezione internazionale Note a margine di un recente orientamento della Corte di Cassazione, in Questionegiustizia.it.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario