Valori critici degli esami di laboratorio e obbligo del sanitario di attivarsi

Maria Beatrice Zammit
23 Marzo 2018

La Cassazione si è pronunciata per la prima volta sull'obbligo del medico di attivarsi in presenza di valori critici degli esami di laboratorio. Gli Autori analizzano la sentenza sia sotto il profilo giuridico, affrontandone gli aspetti innovativi connessi al riconoscimento della responsabilità del medico pur in assenza di norme e/o Linee Guida di riferimento, sia sotto il profilo medico-legale, esaminando le problematiche connesse ai concetti di criticità del valore di laboratorio e di emergenza-urgenza nell'ambito della professione sanitaria.
Obbligo di comunicazione tempestiva: Cass. civ. n. 1251/2018

L'obbligo di attivarsi in presenza di valori critici riscontrati in laboratorio, qualora sia in pericolo la vita del paziente, è stato affrontato per la prima volta dalla recente sentenza della Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2018 n. 1251). Nell'aprile 2004, presso il presidio di Bassano del Grappa ULSS, un uomo ultrasettantenne viene sottoposto ad analisi emato-chimiche, che mostrano un allarmante livello del valore del potassio (pari a 7.3 mEq/l). Nonostante tale valore evidenziasse un imminente pericolo di vita, il risultato dell'accertamento non viene comunicato né al medico curante, né al paziente che, per questo motivo, tre giorni dopo muore per arresto cardiaco da iperpotassiemia (9.2 mEq/l). I familiari convengono l'Azienda Ospedaliera dinanzi al Tribunale di Bassano del Grappa per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza della morte del congiunto, ritenuta attribuibile ad una condotta colpevolmente omissiva.

Il giudice di primo grado dispone una consulenza tecnica d'ufficio dalla quale si evince che l'uomo, pur affetto da varie patologie, conservava un accettabile controllo delle funzioni vitali e che il referto delle analisi di laboratorio aveva evidenziato un innalzamento dello ione potassio di gran lunga superiore ai valori di riferimento: ciò indicava una situazione di imminente pericolo per la vita. Il CTU ricorda che la Comunità scientifica ha da tempo individuato, sulla scorta della comune esperienza chimico-clinica, un valore critico di potassiemia che indica pericolo per concentrazioni di potassio che si collocano fra 6 e 6.5 mEq/l. Questi valori di allarme sono indicativi di pericolo per il paziente; risulta pertanto indispensabile una immediata comunicazione ai curanti, evitando i comuni canali del ritiro referti, affinché siano adottate tutte le misure per il monitoraggio dello stato patologico. Nel caso di specie, il risultato delle analisi non era stato comunicato tempestivamente, impedendo di fatto l'impostazione di una corretta terapia, con conseguente decesso del paziente.

Il CTU, inoltre, afferma che i valori di potassio compresi tra 5.5 mEq/l e 8 mEq/l sono ancora compatibili con la vita e che esiste possibilità di trattamento attraverso farmaci che aumentino l'eliminazione del potassio.

Posto che non esiste una normativa ministeriale o regionale che regolamenti i comportamenti che il medico e/o l'Ente debbano tenere in casi come quello in oggetto, nella stessa CTU viene, però, richiamata l'esistenza di protocolli di intervento in situazioni analoghe presso altre strutture, quale, ad esempio, il Dipartimento di Patologia Clinica dell'Azienda ULSS 18 di Rovigo. Questi centri, in caso di valori di potassiemia superiori a 6.5 mEq/l, prevedono l'immediata comunicazione al medico curante.

Il CTU evidenzia inoltre che l'agire in simili frangenti rientra nella condotta di chi è deputato a salvaguardare la salute del paziente, perché non è compito della comunità scientifica, né tantomeno della normativa, stabilire quale sia il comportamento da tenere in presenza di valori che indichino pericolo di vita. Nella fattispecie concreta non erano stati attuati ed attivati tutti i percorsi che avrebbero potuto portare alla adeguata diagnosi e cura della patologia, venendo meno ad una delle prerogative che il Sistema Sanitario Nazionale si prefigge, ossia l'assistenza sanitaria nelle condizioni di emergenza-urgenza clinica.

Nonostante le conclusioni del CTU, Il giudice di primo grado aveva rigettato la domanda, ritenendo insussistente, in capo all'Azienda Sanitaria, un obbligo di comunicazione urgente degli esiti dell'accertamento, perché non previsto da alcuna specifica disposizione normativa, neppure a livello regionale: il dovere di comunicazione non era previsto né dall'obbligo contrattuale assunto, né dalle finalità generiche perseguite dalle aziende sanitarie. Il Tribunale di Bassano del Grappa aveva infatti ritenuto «pacifico innanzitutto come non vi sia alcuna norma che imponga la urgente comunicazione del risultato critico al paziente. Né, sull'Azienda USSL può dirsi incomba un generale obbligo di salvare la vita ai cittadini indipendentemente dalle modalità di contatto con gli stessi (nel caso di specie non si trattava di un paziente ricoverato presso la struttura ospedaliera)».

Da un punto di vista contrattuale, l'unico obbligo che l'azienda USSL di Bassano del Grappa si era assunta nei confronti di coloro che si erano rivolti al laboratorio di analisi era quello di effettuare correttamente le analisi richieste, eventualmente con urgenza (non in questo caso), e di comunicarle al paziente o al suo medico curante. Protocolli più efficienti in altre aziende ospedaliere avrebbero semplicemente esposto le medesime aziende, e non altre, ad azioni di responsabilità nel caso in cui non vi si fossero conformati.

Anche la Corte di Appello di Venezia rigetta il gravame ritenendo valide le motivazioni stabilite in primo grado, ed aggiungendo che non esiste un obbligo generalizzato di attivazione da parte dell'ente ospedaliero: sarebbe gravoso, e amplierebbe senza limiti la prestazione fornita. Non ritiene possibile infatti ipotizzare che la struttura sia chiamata ad allertare il paziente o il medico curante dei soggetti in presenza di valori critici negli esami ematochimici, senza conoscere l'anamnesi e le patologie del paziente. Il compito dell'ente non è di curare il paziente, ma solo di compiere in modo diligente le analisi prescritte.

I familiari dell'uomo ricorrono dunque in Cassazione con due motivi, denunciando «violazione e la falsa applicazione degli artt. 1218, 1228, 1176, 2236 c.c. nonché dei principi giurisprudenziali in materia di responsabilità medica e sanitaria (art. 360 n. 3 c.p.c.), e violazione e falsa applicazione dell'art. 1367 c.c. e dei principi generali in tema di interpretazione dei negozi giuridici in genere (art. 360 n. 3 c.p.c.)» e «violazione e la falsa applicazione degli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione (art. 360 n. 3 c.p.c.), violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.), omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.)».

Secondo la Suprema Corte, diversamente da quanto opinato dal giudice territoriale, non è rilevante il fatto che l'individuo si fosse rivolto all'ospedale per essere sottoposto ad analisi cliniche e non per essere ricoverato, risultando comunque concluso tra le parti il c.d. contratto di spedalità (ex multis, Cass. civ., sez. III, 8 ottobre 2008 n. 24791 e Cass. civ., 13 aprile 2007 n. 8826). Ricorda infatti che «il comportamento cui è tenuta la struttura ospedaliera per costante e consolidata giurisprudenza della Corte si sostanzia, nell'uno come nell'altro caso, in uno specifico obbligo di prestazione ed in un correlato dovere di protezione del paziente. Ne consegue che, al di là ed a prescindere da qualsivoglia disposizione normativa in materia (correttamente ritenuta inesistente dalla Corte veneziana), rientra nel dovere accessorio di protezione della salute del paziente una tempestiva ed immediata attivazione in presenza di una evidente situazione di pericolo di vita. Non erra il giudice lagunare nel ritenere, su di un piano generale, impredicabile un indifferenziato obbligo di attivazione in presenza di qualsivoglia situazione di alterazione dei dati clinici che emerga dalle analisi compiute presso una struttura ospedaliera. Ma tale impredicabilità trova un invalicabile limite nell'ipotesi in cui tale alterazione si riveli di tale gravità da mettere in pericolo la vita stessa del paziente – onde una tempestiva segnalazione al sanitario competente o al paziente stesso ne possa, sul piano probabilistico, scongiurare l'esito letale conseguente (e nella specie, purtroppo conseguito) al ritardo di comunicazione, ritardo che, ove consumato, si risolve nella violazione del precetto di cui all'art. 1176, secondo comma, del codice civile. La CTU esperita in sede di giudizio di merito ha evidenziato come, al di là ed a prescindere da qualsivoglia indicazione normativa regolamentare o semplicemente amministrativa (protocolli interni ovvero “linee guida”), il valore della potassiemia emerso dalle analisi (7.3 mEq/l) indicasse inequivocabilmente un pericolo di vita del paziente, e ne imponesse una immediata comunicazione ai medici curanti».

La Cassazione ritine dunque fondato il ricorso e cassa la sentenza di secondo grado, con rinvio alla Corte d'Appello di Venezia in diversa composizione.

La natura contrattuale della prestazione

La natura contrattuale della prestazione erogata nel caso di specie, pur non costituita da un servizio assistenziale continuativo (ricovero), si realizza anche con la richiesta di erogazione di una singola prestazione, quale quella di esami laboratoristici.

Né può discutersi il fatto che si tratti di prestazione sanitaria, così come definita nell'art. 3-septies d.lgs. n. 229/1999 e successive modificazioni. In discussione sembra piuttosto essere l'estensione del livello delle tutele della stessa: da un lato, il presunto adempimento del contratto da parte della struttura sanitaria, con esaurimento del mandato attraverso la semplice erogazione della prestazione; dall'altro, l'esigenza di protezione della salute insita nelle prerogative del Servizio Sanitario Nazionale.

Il contratto di spedalità, infatti, prevede prestazioni di assistenza sanitaria che non si limitano alla semplice prestazione, ma ricomprende anche obblighi accessori e di protezione.

Nel caso di specie, la circostanza che il paziente non fosse ricoverato, e perciò non seguito nella evoluzione clinica di una eventuale patologia, avrebbe dovuto a maggior ragione indurre il Sanitario di laboratorio ad attivarsi per comunicare con urgenza il valore critico rilevato.

Appurata l'esistenza del vincolo derivante dal contratto di spedalità, l'inadempimento dell'obbligazione configura un'ipotesi di violazione dell'art. 1218, con conseguente inversione dell'onere della prova che viene posto a carico non già del ricorrente in causa, bensì della struttura ospedaliera resistente.

La posizione di garanzia del personale sanitario

Il personale del Servizio Sanitario Nazionale, definito dalla legge del 1978, è rappresentato dal personale dipendente che opera nelle aziende sanitarie locali (Strutture territoriali ed ospedali), nelle aziende ospedaliere e nelle aziende ospedaliere universitarie, oltre al personale dipendente delle Università, ma operante presso le Aziende Sanitarie, il personale delle strutture equiparate al pubblico (ossia dei Policlinici universitari privati, degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, degli ospedali classificati, degli Istituti qualificati presidi delle USL, degli enti di ricerca - http://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=688- Così la l. 23 dicembre 1978, n. 833).

Ne fanno perciò parte anche i biologi ed i tecnici di laboratorio deputati alle analisi ematochimiche, ciascuno secondo le rispettive competenze. Del resto, in base alla recente legge n. 24/2017 (Legge Gelli) tutto il personale del Servizio Sanitario è tenuto a concorrere alle attività di prevenzione del rischio messe in atto dalle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, le quali devono garantire la sicurezza delle cure.

L'obbligo di garanzia già richiamato in capo al personale sanitario si ricava, in ambito penalistico, dall'art. 40 c.p. secondo cui non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Questa posizione di garanzia impone la protezione del bene salute da parte dei sanitari, che ne sono i primi garanti, ed è caratterizzata dall'obbligo di attivarsi e farsi carico di tutti i rischi correlati all'intervento del Sanitario. Inoltre, nell'attività medico-chirurgica, la posizione di garanzia è riferibile, sotto il profilo funzionale, ad entrambe le categorie in cui tradizionalmente si inquadrano gli obblighi in questione: la posizione di garanzia c.d. di protezione (che impone di preservare il bene protetto da tutti i rischi che possano lederne l'integrità) e la posizione c.d. di controllo (che impone di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare il bene protetto) (DE LUCA M, GALIONE A, MACCIONI S., La responsabilità medica. Profili penali, contabili e disciplinari, Milano, 2011; Cass. pen., sez. IV, 19 febbraio 2013 n. 7967; conf. Cass. pen., sez. IV, 7 giugno 2004 n. 25310).Il concetto di obbligo di attivarsi è previsto anche dai codici deontologici di riferimento di diversi ordini. Nel Codice Deontologico Medico del 2006 l'art. 7 prevede l'obbligo di intervento del medico che «indipendentemente dalla sua abituale attività, non può mai rifiutarsi di prestare soccorso o cure d'urgenza e deve tempestivamente attivarsi per assicurare ogni specifica ed adeguata assistenza». Questo obbligo è stato ripreso dal Codice Deontologico Medico del 2014 che, all'art. 8 dispone che «il medico, in caso di urgenza, indipendentemente dalla sua abituale attività, deve prestare soccorso e comunque attivarsi tempestivamente per assicurare idonea assistenza».

Analogamente, il Codice Deontologico dei Biologi statuisce, all'art. 30, che «costituisce infrazione disciplinare il mancato o non corretto adempimento dell'incarico professionale quando derivi da non scusabile e rilevante trascuratezza degli obblighi professionali e contrattuali».

Si può, quindi, considerare la posizione di garanzia come impegno dal punto di vista deontologico, obbligo da un punto di vista giuridico e fondamento stesso della nozione di responsabilità.

Sempre in ambito penalistico, il concetto di obbligo di attivarsi, alla luce della qualifica del personale del Servizio sanitario come “pubblico ufficiale” o “incaricato di pubblico servizio”, può desumersi dall'art. 328 c.p. (rifiuto/omissione di atti d'ufficio), ove si legge che «il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito (…)».

La tesi sembra condivisa dalla Corte di Cassazione: «…omissis… il mancato avviso circa la gravità del quadro clinico configura una situazione penalmente imperdonabile a causa del ruolo ricoperto dal medico. Gli obblighi di garanzia connessi all'esercizio della professione sanitaria e la salvaguardia del bene primario della salute pongono a carico del medico una responsabilità, in alcune circostanze, non derogabile …omissis… Né può parlarsi di negligenza della paziente o dei familiari, non bastando a fare venire meno la responsabilità un semplice invito a presentarsi per conoscere l'esito, non ancora noto, dell'esame istologico disposto ma occorrendo che, una volta appreso il contenuto dell'accertamento, si contattasse l'interessata per renderla edotta della gravità della situazione» (Cass. pen., sez. IV, 26 ottobre 2007 n. 39609); «…omissis… non costituisce un quid eventuale, ma imprescindibile integrazione della prestazione sanitaria ...omissis… in quanto le valutazioni relative alla salute devono essere specificamente considerate in sede di ricorrenza del requisito della necessità di un tempestivo compimento dell'atto informativo dovuto» (Cass. pen., sez. VI, 21 marzo 1997).

Sotto il profilo civilistico – che è quello affrontato nella sentenza in commento – occorre fare riferimento all'art. 1176 c.c., che tratta la diligenza nell'adempimento. Sotto questo profilo, va evidenziato che lo standard di diligenza richiesto al medico non è quello generico del “buon padre di famiglia” di cui al comma 1 della norma in questione, bensì quello del “debitore qualificato” di cui al comma 2 dello stesso articolo, che richiede la puntuale osservanza dei precetti e degli accorgimenti destinati al conseguimento dei fini che la professione sanitaria si prefigge.

In tale situazione, la circostanza che l'obbligo di comunicazione dei valori critici non sia “normativamente previsto” è del tutto irrilevante posto che, a fronte di una situazione di evidente pericolo di vita per il paziente, la cui interpretazione fa parte delle comuni e non modificabili legesartismedicorum, il medico non ha certo bisogno di una norma che gli indichi quale sia la linea di condotta che è necessario seguire.

L'obbligo di intervento,poi, va ricondotto alla nozione più ampia di diritto alla salute (World Health Organization. Constitution. WHO, 1948; Ottawa Charter for Health Promotion. WHO/HPR/HEP/95.1. WHO, Geneva, 1986), previsto dall'art. 32 Cost., che definisce la salute come diritto fondamentale dell'individuo ed interesse della collettività.

Ed è proprio dalla Carta Costituzionale che la Corte di Cassazione (ex multis, Cass. pen., sez. IV, 21 gennaio 2016 n. 2541) ha più volte fatto discendere le cd. “posizioni di garanzia” degli operatori di una struttura sanitaria, affermando che esse hanno «un innegabile punto di riferimento, in quella norma - art. 2 - della Carta costituzionale che, ispirandosi, come da tutti riconosciuto in dottrina, al principio personalistico o del rispetto della persona umana nella sua totalità, esige, nel riconoscere i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità, l'adempimento dei doveri di solidarietà politica, economia e sociale; norma che costituisce una indubbia chiave di lettura di tante altre norme tra le quali quella dell'art. 32 della stessa Carta, che esalta, come è noto, il diritto alla salute e, quindi, alla integrità psico-fisica e che ha condizionato e condiziona, tra l'altro, la legislazione antinfortunistica e la stessa legislazione sanitaria, ove si consideri che il primo comma dell'art. 1 della l. 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del "Servizio sanitario nazionale", altro non è che la testuale ripetizione del primo comma dell'art. 32 della Costituzione».

Richiamando tale principio, la stessa Corte (Cass. pen., sez. IV, 2 gennaio 2018 n. 5) ha recentemente riconosciuto la responsabilità dell'infermiere, quale appartenente alla categoria del personale sanitario, per non avere avvisato il medico di guardia del peggioramento dei valori pressori di un paziente, causandone il decesso. Nella fattispecie la Cassazione ha affermato che «l'infermiere, cui sia stato impartito un ordine o che, prestando la propria opera, in un certo momento, in una determinata unità operativa, venga a sapere che, in quel momento, il dirigente dell'unità…….ha impartito un determinato ordine dalla cui esecuzione dipende l'intervento di un sanitario a favore di un paziente, assume, per quanto riguarda l'esecuzione di quell'ordine e, quindi, le conseguenze che la non esecuzione o la non tempestiva esecuzione di quell'ordine possono determinare, la posizione di protezione, che non può essere legittimamente trasferita ad altri quando l'ordine sia tale da non richiedere più di qualche secondo per poter essere eseguito e, dunque, perché l'infermiere, che lo ha ricevuto, lo realizzi nel contesto del proprio orario di servizio».

I valori critici o di panico

Con riferimento al caso in esame, è indispensabile trattare anche il concetto di valore critico o valore di panico, inteso come ogni risultato di laboratorio che evidenzi un immediato pericolo per la salute del paziente e che richieda l'adozione di misure mediche idonee e tempestive (Lundberg GD, (1972) When to panic over an abnormal value. Med Lab Obs; 4: 47-54).

Il concetto di criticità del valore di laboratorio non è facilmente definibile, trattandosi di parametro variabile da individuo ad individuo ed assai fluido nella sua generazione e mantenimento.

Il dato critico, pertanto, può non necessariamente rappresentare pericolo drammatico se valutato, ad esempio, in associazione ad altri segni, sintomi o altri parametri strumentali e/o monitorato in un determinato arco temporale; tuttavia, una normale prudenza vuole che un dato di particolare significato negativo, quale quello relativo alla potassiemia, venga immediatamente considerato come potenzialmente pericoloso indipendentemente dalla storia clinica del paziente.

Questa è una problematica che, del resto, ben si colloca nel concetto di urgenza-emergenza della professione sanitaria, in cui l'esito desiderato è la sopravvivenza del paziente. In caso di compromissione di parametri vitali, quando si rendano necessari interventi immediati per garantire tale sopravvivenza, si tratta di emergenza; qualora invece l'intervento possa essere procrastinato, pur rimanendo in una situazione di pronto monitoraggio, si tratta di urgenza (Limmer D., O'Keefe M.F. Emergency care, 9th edition, Prentice Hall, Sept. 2000).

Le stesse norme UNI EN ISO 9000, già nell'anno 2000, avevano indicato i requisiti fondamentali delle organizzazioni, inclusi i laboratori, indicando le basi di ogni Sistema di Gestione della Qualità, dove per “qualità” si deve intendere il sistema di gestione aziendale costituito da tutti i processi presenti in azienda e realizzati per conferire ai clienti un prodotto e/o un servizio conforme agli impegni contrattuali (UNI EN ISO 9001: 2000, 0.2).

La successiva norma ISO 15189, specifica per l'accreditamento dei laboratori di analisi cliniche (d.lgs. n. 229/1999), già nell'anno 2003, ai punti 5.8.7 e successivi, riporta la necessità di definire procedure per l'immediata comunicazione in caso di valori critici, specificando che ciò riguarda anche campioni “esterni” (ISO 15189 - 5.8.7 - 5.8.8 - 5.8.10).

Sembra, quindi, abbastanza evidente come il proposito delle norme richiamate sia quello di scongiurare eventuali situazioni avverse mediante l'adozione di protocolli adeguati, dove l'adeguatezza deve essere intesa come proporzionalità alla gravità dell'evento.

Altre strutture appartenenti al sistema sanitario, come ad esempio centri trasfusionali, da tempo impiegano protocolli interni con indicazione delle procedure da seguire in situazioni di emergenza-urgenza.

Tuttavia, anche ammettendo la mancanza di procedure interne codificate, non appare fuori luogo pensare che il personale del laboratorio, in presenza di un valore di panico, sarebbe dovuto comunque intervenire, in virtù dell'obbligo di diligenza e di protezione, di rango superiore rispetto a qualsivoglia tipologia di protocollo o linea-guida.

Infatti, la prestazione richiesta non può risolversi nella mera “consegna” di dati analitici quando questi indichino una evidente situazione di pericolo di vita e non il semplice discostamento da valori o parametri di riferimento.

Il nesso di causa ed il danno

Il paziente era portatore di importanti patologie, tra cui una ridotta funzionalità renale che potrebbe avere influito sulla potassiemia, così come anche altre patologie (BPCO, diabete) da cui è risultato essere affetto.

Tuttavia, in sede di CTU era stato accertato un «accettabile controllo delle funzioni vitali», sulla base del reperto cardiologico di giorni prima che aveva attestato «un attuale discreto compenso».

Nessuna terapia ha, però, potuto essere intrapresa alla luce del grave nuovo dato di laboratorio, la cui tempestiva segnalazione avrebbe potuto, utilizzando le parole della Corte di Cassazione «scongiurare, sul piano probabilistico, l'esito letale».

Appare dunque acclarata la sussistenza di un nesso causale tra l'omessa tempestiva segnalazione e la morte del paziente.

In merito alla stima del danno invece la vicenda giudiziaria in commento non si è ancora conclusa: i giudici si sono pronunciati esclusivamente sulla responsabilità della struttura ospedaliera; spetterà alla Corte d'Appello, in sede di rinvio, la valutazione e quantificazione del danno.

In conclusione

La Suprema Corte ha dunque statuito l'obbligo di comunicazione tempestiva dei valori critici degli esami di laboratorio, quanto meno qualora detti valori indichino una situazione di gravità tale da mettere in pericolo la vita stessa del paziente, ed il suo inadempimento comporta la responsabilità del medico che non vi abbia ottemperato.

Resta ferma la necessità che venga data ampia diffusione, a livello nazionale, a procedure codificate all'interno dei laboratori, che regolino le modalità di comunicazione di tali valori, onde scongiurare il ripetersi di situazioni analoghe a quella qui esaminata.

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