Sulla rilevanza del falso ideologico per induzione non testualmente evincibile dall'atto pubblico

Simone Bonfante
03 Aprile 2018

Sussiste il reato di falso ideologico per induzione del pubblico ufficiale allorquando la falsità investa i presupposti di fatto o le condizioni giuridicamente rilevanti per il rilascio dell'atto senza che nello stesso risultino formalmente trasposti i dati non veritieri?
Massima

Il reato di falso ideologico in atto pubblico, previsto dall'art. 479 c.p., è integrato anche laddove dall'atto pubblico emesso all'esito del procedimento amministrativo non risulti la falsità che ha attinto i presupposti di fatto o di diritto necessariamente inseriti nel procedimento medesimo (fattispecie relativa all'immatricolazione di veicoli importati).

Il caso

La Corte di appello di Bologna confermava la condanna di primo grado nei confronti di M.M.A., legale rappresentante della H.P. S.R.L., società che si occupava del commercio di autovetture, dichiarandolo responsabile del reato di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico mediante induzione ex artt. 48 e 479 c.p.

Nello specifico, al momento della immatricolazione dei veicoli venduti, l'imputato aveva presentato alla Motorizzazione falsa documentazione che attestava che gli stessi erano stati acquistati dai propri clienti non già dalla H.P. S.R.L., bensì da privati cittadini residenti nel territorio dell'Unione europea, inducendone così in errore il funzionario che emetteva le rispettive carte di circolazione sulla base dei dati che gli erano stati forniti.

Avverso la sentenza di condanna ricorreva per Cassazione la difesa sostenendo, per quanto interessa in questa sede, che la falsa documentazione prodotta non avrebbe inficiato in alcun modo l'atto pubblico alla cui emissione era finalizzata: secondo la tesi sostenuta la carta di circolazione deve attestare l'idoneità alla circolazione – appunto - del veicolo ed in essa sono riportati una serie di dati (quali ad esempio le caratteristiche tecniche del motore, il numero del telaio e l'anagrafica del proprietario) che nel caso di specie erano tutti veritieri; non essendovi trascritta l'unica risultanza mendace, ossia il nome del venditore, l'atto non sarebbe stato in alcun modo viziato dalla condotta del prevenuto.

Di diverso avviso la Sesta Sezione Penale della Suprema Corte che, con la decisione in commento, ha affermato come, mediante la produzione dei falsi contratti di compravendita tra privati, il ricorrente non solo ha evaso l'Iva ma ha anche omesso di presentare alla Motorizzazione Civile la certificazione doganale attestante l'assolvimento dell'imposta stessa, nel caso di specie necessaria ai fini della immatricolazione.

La questione

La questione affrontata in via principale dalla pronuncia in esame è la seguente: sussiste il reato di falso ideologico per induzione del pubblico ufficiale allorquando la falsità investa i presupposti di fatto o le condizioni giuridicamente rilevanti per il rilascio dell'atto senza che nello stesso risultino formalmente trasposti i dati non veritieri?

Le soluzioni giuridiche

Un breve premessa.

Nell'affrontare casi analoghi la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata anche sul connesso tema della applicabilità o meno della disciplina di cui all'art. 94-bis del codice della strada, rubricato Divieto di intestazione fittizia dei veicoli (ex plurimis Cass. pen., Sez. V, 31 maggio 2017, n.37944). Trattasi di un illecito amministrativo che punisce chi chiede o ottenga il rilascio della carta di circolazione, del certificato di proprietà e del certificato di circolazione di un veicolo in caso di intestazione simulata. In estrema sintesi si è sostenuto come l'illecito penale presenti un quid pluris rispetto a quello amministrativo consistente nella induzione in errore del pubblico ufficiale nella formazione dell'atto pubblico ideologicamente falso. Per tale motivo, oltre che per la clausola di salvaguardia contemplata nell'art. 94-bis c.p., dovrà ritenersi applicabile nel caso che ci occupa solo la fattispecie di cui all'art. 479 c.p.

Venendo alla sentenza in esame è a dirsi come la stessa si ponga nel solco dell'orientamento dominante della Suprema Corte secondo cui il mendacio dispiega i suoi effetti anche nel procedimento amministrativo volto all'emissione dell'atto pubblico. Si legge infatti nella motivazione: «Non vi è dubbio che la presentazione di una dichiarazione sostitutiva di notorietà falsa in ordine alla provenienza di quei veicoli (cui va equiparata la presentazione di contratti di compravendita falsi), riverberandosi sui provvedimenti di abilitazione alla circolazione degli stessi veicoli, in cui è stato implicitamente attestato come esistente un presupposto privo, in realtà, di qualsiasi valore giuridico in quanto falso, si siano risolti in una falsità ideologica di quegli stessi provvedimenti che tale presupposto supponevano quale loro valido ed indispensabile antecedente logico giuridico».

Non colgono dunque nel segno le argomentazioni difensive, volte a rimarcare l'assenza di qualsivoglia trasposizione nella carta di circolazione di quei falsi presupposti, poiché nell'atto da lui formato il pubblico ufficiale che «fa riferimento ad atti o a dichiarazioni sostitutive (non veri) provenienti dal privato e riferiti a presupposti richiesti per la legittima emanazione dello stesso atto pubblico non si limita ad attestare l'attestazione del mentitore né a supporre che quella attestazione sia veridica ma compie, sia pure implicitamente, una attestazione falsa circa la sussistenza effettiva di quei presupposti indefettibili: attestazione di rispondenza a verità che si connette alla funzione fidefaciente che la legge assegna alle dichiarazioni sostitutive dei privati». Ne consegue che: «[…] stante il rapporto di causa-effetto tra il fatto attestato dal privato, quale presupposto dell'emanazione dell'atto del pubblico ufficiale, e il contenuto dispositivo di quest'ultimo e stante, altresì, la stretta connessione logica tra l'uno e l'altro, la falsità del primo si riverbera sul secondo e diventa essa stessa falsità di questo, sicché la recepita falsa attestazione del decipiens acquista la ulteriore veste di falsa attestazione del pubblico ufficiale deceptus sui fatti falsamente dichiarati dal primo e dei quali l'atto pubblico è destinato a provare la verità» (Cass. pen., Sez. unite, n. 35488/2007).

Interpretazione questa fatta propria anche da un più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità proprio in materia di c.d. attestazioni implicite: in sostanza, secondo la Suprema Corte, l'ambito attestativo del P.U. si estenderebbe non solo a quanto espressamente ricavabile dall'atto ma anche da quanto in esso implicitamente desumibile in quanto necessario presupposto di fatto o condizione normativa della attestazione espressa. (Cass. pen., Sez. V, 26 aprile 2012, n. 24972).

Osservazioni

Innanzitutto è a dirsi come la sentenza in commento si ponga in linea con l'orientamento che ritiene che la fede pubblica vada individuata nell'affidamento che la collettività deve poter riporre (anche) nei confronti di qualsivoglia procedimento normativo contemplato dall'ordinamento giuridico ed in particolare di quello amministrativo volto al perseguimento di uno o più interessi pubblici stabiliti da una norma di legge. Come noto nel procedimento amministrativo la fase decisoria è spesso preceduta da una fase istruttoria di verifica di quei requisiti (stabiliti dalla legge) volti alla emanazione del provvedimento finale.

L'atto pubblico è tutelato pertanto non solo “in se'” ma anche per quella funzione ricognitiva secondaria destinata ad inserirsi con contributo di conoscenza o di determinazione in un procedimento della pubblica amministrazione.

In ciò si sostanzia – come si diceva – l'affidamento che non solo la collettività ma anche ogni singola componente dell'intero ordinamento giuridico stesso si riconosce reciprocamente; in caso contrario si cadrebbe nel paradosso tale per cui ogni amministrazione dovrebbe riavviare dal principio ogni procedimento che porti all'emissione dell'atto finale.

Poco importa, sostiene la Suprema Corte nella sentenza in commento, che si dia atto nel provvedimento finale di quanto emerso in sede istruttoria, cioè della effettiva sussistenza dei requisiti, poi rivelatisi falsi. La sussistenza dei requisiti può essere anche implicita nella emanazione di un atto dovendo necessariamente lo stesso essere adottato conformemente a quanto previsto dalla legge.

Tale soluzione è aderente anche alla nozione di atto pubblico accolta dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui nello stesso sarebbe ricompreso: «ogni atto redatto dal p.u. nell'esercizio delle sue funzioni giacchè ciò che rileva è la provenienza dell'atto dal medesimo ed il contributo dallo stesso fornito, in termini di conoscenza e determinazione, ad un procedimento della p.a.» (Cass. Pen., Sez. V, 5 dicembre 2008, n. 9702).

Nel caso in esame inoltre a sommesso avviso di chi scrive si versa in una ipotesi in cui il presupposto fallace introdotto dal privato nel procedimento amministrativo volto al rilascio della carta di circolazione era assolutamente dirimente. Come si è detto sopra il P.U. non avrebbe sicuramente emesso il provvedimento se fosse venuto a conoscenza della falsità dei contratti “tra privati”. Egli infatti avrebbe dovuto richiedere ulteriore documentazione ed in particolare la certificazione doganale attestante l'assolvimento dell'IVA, nel caso di specie mancante. Ora, pur non essendo il caso di dilungarsi sul tema del c.d. falso innocuo e sulla rilevanza o meno di tale nozione nell'ambito degli atti pubblici, è a dirsi come nel caso di specie è evidente come la falsità sia tutt'altro che inutile-innocua.

Attraverso la falsa documentazione prodotta in fase istruttoria il privato ha indotto (ex art. 48 c.p.) in errore in funzionario in relazione ad un presupposto che, qualora conosciuto, lo avrebbe sicuramente determinato a non rilasciare la carta di circolazione. Può ben dirsi pertanto che, anche volendo assumere che il contenuto dell'atto non presenti dati falsi, sia l'atto in sé ad essere falso.

Sulla inutilità del falso si confronti, da ultimo l'orientamento del Supremo Collegio secondo cui anche l'attestazione di un presupposto non più previsto dalla legge sarebbe penalmente rilevante in quanto volto a «potenziare l'efficacia probatoria di cui l'atto si è dotato» (Cass. pen., Sez. V, 13 settembre 2017, (dep. 28 settembre 2017), n. 44899).

Guida all'approfondimento

PREZIOSI, Falso innocuo e falso consentito: spunti problematici su bene protetto, in Aa. Vv., Le falsità documentali, a cura di R. Ramacci, Padova, 2001;

BARTOLI, Il falso per omissione e il falso c.d. implicito tra legalità ed esigenze di tutela, in Riv. it. dir e proc. pen., 2004, p. 538.

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