Danni da uso di beni demaniali e criteri di imputazione di responsabilità della PA tra art. 2051 c.c. e clausola generale di responsabilità
27 Aprile 2018
Massima
La presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia di cui all'art. 2051 c.c. si applica quante volte alla luce dell'estensione del bene demaniale e di tutte le circostanze del caso concreto sia possibile esercitare sul bene stesso la custodia intesa quale potere di fatto sulla cosa. Il relativo criterio di imputazione della responsabilità prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, solo il rapporto causale tra la cosa e l'evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima. Nel diverso caso di accertata insussistenza del rapporto di custodia, verrà invece applicabile l'art. 2043 c.c. e dovrà quindi essere posta a carico del danneggiato l'onere della prova della condotta colposa dell'ente. Quest'ultima potrà anche essere presunta in caso di danno derivante da anomalia del bene, a meno che questa non possa essere percepita o prevista con l'ordinaria diligenza dallo stesso utente . Il caso
La vedova ed i figli di PDL agivano nei confronti dell'Ente Parco Paneveggio, chiedendo il ristoro dei danni conseguenti al tragico incidente occorso al loro congiunto che, nel corso di un'escursione, aveva perso la vita cadendo in un pozzo presente nel parco. La sentenza - di rigetto - del Tribunale di Trento veniva confermata in appello e la questione veniva quindi portata avanti alla Corte di legittimità. Questa, passate in rassegna le più aggiornate linee interpretative sul tema della responsabilità per custodia della P.A. e dei connessi criteri di imputazione, ne ravvisava in effetti nel caso di specie un non corretto governo da parte dei giudici di merito. Il procedimento, accolti i motivi a base del ricorso, si concludeva quindi con la cassazione della pronuncia e con il rinvio alla Corte territoriale chiamata ad applicare i principi di diritto richiamati dai giudici di nomofilachia. La questione
Il tema affrontato dal dictum in esame, relativo ai criteri di imputazione per i danni subiti dagli utenti di beni demaniali, si distingue per incidenza e varietà casistica ed è diffusamente dibattuto, generando una ricca produzione interpretativa. Nel caso in commento si tratta, in primis, di declinare i contorni del concetto di custodia con riguardo ai beni di proprietà pubblica (sovente) caratterizzati da notevole estensione o da determinate caratteristiche quali, appunto, il vasto parco teatro del tragico evento. Quando si può cioè affermare la sussistenza di un effettivo potere di custodia sul bene demaniale? Fino a che punto è realmente esigibile un puntuale e diffuso controllo su beni così connotati? A questi primi interrogativi si affianca poi la tradizionale questione relativa all'onere probatorio del danneggiato e, rispettivamente, al contenuto della prova liberatoria richiesta al custode. Il danneggiato deve provare il solo nesso di causa tra cosa e danno o anche una particolare pericolosità o delle ulteriori caratteristiche intrinseche del bene? Risolti questi interrogativi la decisione passa anche alle ipotesi nelle quali, esclusa la configurabilità di un rapporto di custodia sul bene, la fattispecie ricada invece nel raggio di azione della clausola generale di responsabilità. Quali sono gli elementi discretivi rispetto ai casi in cui può invocarsi la norma di cui all'art. 2051 c.c.? Il danneggiato può, ricorrendo taluni presupposti, avvalersi di prove presuntive e in che termini? Le soluzioni giuridiche
I giudici di piazza Cavour esordiscono enunciando, quasi in via programmatica, quell'opzione strettamente oggettiva della responsabilità per custodia verso la quale sembra essersi ormai assestata la giurisprudenza soprattutto di legittimità. Al danneggiato, in quest'ottica che potremmo definire semplificata, sarebbe dunque imposto di provare il solo nesso causale tra cosa e danno e ciò anche a prescindere dalla pericolosità o da altre caratteristiche del bene. L'utente non dovrebbe cioè più qualificare e quindi dimostrare in capo alla res quelle tradizionali caratteristiche di “insidia” o “trabocchetto”, un tempo coessenziali all'affermazione di responsabilità del custode e quest'ultimo si potrebbe liberare soltanto con la dimostrazione del caso fortuito, includente l'eventuale condotta negligente o incauta della vittima, purché - si intende - essa sia dotata di reale efficacia causale sull'evento in base a criteri di regolarità. L'affermata centralità del rapporto causale non può però naturalmente non tenere conto, nella sua stessa logica interna, delle peculiarità della cosa, con specifico riguardo al presupposto indefettibile della fattispecie di cui all'art. 2051 c.c., vale a dire la sussistenza di un potere di custodia su di essa. In particolare, allorché il bene sia caratterizzato da “rilevante estensione” e da ulteriori peculiarità fisiche, l'indagine sulla “comprovata concreta possibilità” di esercitare la custodia e cioè un effettivo potere di fatto su di esso, deve essere maggiormente penetrante. Tale operazione non deve dunque essere condotta solo in connessione al dato astratto dell'estensione del bene (come si sarebbero appunto limitati a fare i giudici trentini), ma anche in vista della causa concreta dell'evento. Di quest'ultimo pertanto andranno attentamente valutate natura e tipologia, potendosi addossare all'ente soltanto i rischi promananti da beni in concreto “custodibili”, di cui il medesimo possa cioè effettivamente gestire il controllo. Una tale verifica in fatto si pone del resto in continuità con quell'ottica, tutta oggettiva, di cui si è detto dianzi. Una tale logica non avrebbero invece correttamente applicato i giudici della sentenza cassata. Essi infatti, liquidato sommariamente il tema della “custodibilità” in concreto, si sarebbero ancora avvalsi del logoro prisma della colpa (nella specie escludendola), muovendosi dunque in un'area esterna a quella, ormai accuratamente delimitata dal formante giurisprudenziale, alla stregua del quale le precondizioni dell'imputabilità sono invece la sola custodia e la stretta connessione eziologica tra la res e l'evento di danno. E, da altra prospettiva, dalla contemporanea insussistenza di un caso fortuito esterno o di una condotta della stessa vittima idonei a porsi da soli quali cause efficienti dell'evento lesivo. In base a questa lettura, imposta al giudice del rinvio, devono essere dunque espunte dall'indagine sull'imputabilità ex art. 2051 c.c. le scorie del più risalente indirizzo soggettivo: in particolare, deve venire esclusa la necessità di accertare se il custode abbia assolto con diligenza al proprio obbligo di vigilare sul bene e se questo abbia caratteristiche intrinseche di pericolosità. Tale ultimo criterio, può essere invece adottato, allorché un'effettiva custodia del bene possa essere ragionevolmente esclusa. Ci troviamo però qui al di fuori dall'area dell'art. 2051 c.c. e di fronte, invece, ad un'ipotesi di responsabilità soggettiva ex art. 2043 c.c., rispetto alla quale tornano in pieno vigore i termini di indagine colposa prima estromessi. La colpa dell'ente, aggiunge però la Corte, può anche presumersi allorché il danneggiato dimostri che il danno si è verificato in ragione di un'anomalia della cosa. Caratteristica questa che tuttavia non sussiste se la stessa anomalia risultava percepibile o prevedibile dal danneggiato con ordinaria diligenza. Osservazioni
La decisione in commento è solo una delle ultime di un consolidato indirizzo interpretativo che pone con forza la centralità del tema causale nell'ambito della responsabilità per custodia, tentando di regolare al tempo stesso con chiarezza i confini, talora sfuggenti, tra i criteri propri di questa figura di responsabilità con quelli propri dell'area della colpa. Il focus è dunque sull'esistenza di un potere di fatto esercitabile sulla cosa ed è da valutarsi con speciale attenzione anche in vista delle particolari caratteristiche dell'evento di danno. Se tale vaglio porta ad escludere il rapporto di custodia, può invece riprendere vita il criterio generale, soggettivo, di imputazione. La pronuncia ha sicuramente il pregio di illuminare intanto più chiaramente il concetto di custodia, il cui rilievo è spesso arduo nell'ipotesi di beni pubblici connotati da vaste estensioni fisiche, nel cui contesto il potere di controllo è ragionevolmente affievolito. L'espresso ripudio in questo ambito di criteri soggettivi di imputazione reca nel contempo, un ulteriore vantaggio per gli utenti (la cui tutela era talora ristretta dall'esigenza di provare una condotta colposa della P.A), avvicinando la responsabilità dell'ente pubblico a più evoluti modelli di responsabilità per rischio. Appare invece di meno immediata comprensione lo schiacciamento del tema dell'intrinseca idoneità lesiva della cosa soltanto all'interno della sfera della responsabilità soggettiva. Il riscontro circa l'effettiva idoneità lesiva della cosa sembra infatti imprescindibile e riconducibile a pieno titolo all'area del ragionamento causale (il cui sviluppo è in carico al danneggiato). Dunque non un dato di per sé marginale nella complessiva ricostruzione - oggettiva - dell'evento, incidendo pur sempre, non dalla prospettiva del custode, ma questa volta da quella della stessa res, sulla concatenazione che porta da questa al danno. |