Continuità aziendale: capitale di funzionamento e procedure di allerta
03 Maggio 2018
Premessa
Sono ormai tantissimi i convegni informativi sulla riforma della legge fallimentare conseguente alla attività della nota “commissione Rordorf” (vi sono state due commissioni Rordorf: la prima ha avuto come compito la scritturazione della legge delega; la seconda ha preparato i testi dei decreti delegati. I componenti delle due commissioni non sono stati esattamente gli stessi). I testi del nuovo “Codice della crisi e della insolvenza”, delle “Modifiche al Codice Civile” e le relative relazioni illustrative sono stati diffusi e sono liberamente consultabili. Il pilastro filosofico portante della riforma è il tentativo di creare il miglior ambiente giuridico e aziendale per l'emersione tempestiva della crisi e la sua gestione con mezzi che riducano il più possibile i casi di insolvenza e di conseguente liquidazione giudiziale (nuova terminologia sostitutiva del fallimento). A sua volta il pilastro di tale tentativo è costituito dalle procedure di allerta e dai nuovi requisiti organizzativi richiesti all'imprenditore in funzione della salvaguardia della continuità aziendale. Scopo di questo articolo è esaminare, sotto un profilo prettamente aziendalistico, l'insieme dei rimedi organizzativi e degli indicatori di crisi che la riforma mette a disposizione dell'imprenditore per meglio usufruire delle procedure di allerta e dei connessi aspetti premiali, valutandone gli effetti anche contestualizzando il rapporto fra imprese e sistema finanziario che costituisce l'ambiente che compartecipa alla formazione del capitale di funzionamento. Ne esce un quadro misto di aspetti positivi e negativi su cui potrà concentrarsi il dibattito sia in sede di definitiva attuazione della riforma sia in fase di prima applicazione della stessa. Sussiste inoltre la personale convinzione per cui la riforma meglio esplicherebbe le proprie funzionalità se fosse preceduta da una fase di netta rivisitazione del modus operandi del mondo della finanza di impresa il cui odierno mancato allineamento metodologico ed operativo alle specifiche tecniche aziendalistiche richieste proprio dalla riforma costituisce un vulnus foriero di pesante incertezza.
Come previsto dall'art. 14 della legge delega (L. n. 155/2017) vengono integrati i doveri dell'imprenditore con una specifica nuova norma inserita al secondo comma dell'art. 2086 c.c. la cui rubrica viene contemporaneamente aggiornata in “Gestione dell'Impresa” (la precedente rubrica era: “Direzione e gerarchia nell'impresa”). Conviene riportare il testo della nuova norma: “L'imprenditore che operi in forma individuale, societaria o in qualunque altra veste, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale.” Risulta evidente l'effetto voluto dal legislatore (così come riferito anche nella relazione illustrativa) di preordinare la gestione dell'impresa ai nuovi criteri di “efficienza” valevoli per ogni tipo di impresa, sia essa individuale o societaria e, per questa ultima, sia essa di persone o di capitali. Si introduce quindi, a monte delle forme di esercizio dell'attività di impresa, il postulato dell'assetto organizzativo propedeutico alla rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale. Il riferimento all'assetto organizzativo non è nuovo nel Codice Civile, essendo presente nell'art. 2381 c.c. che tratta dei poteri dei componenti il c.d.a. delle s.p.a. e conseguentemente nell'art. 2403 che illustra i doveri del Collegio Sindacale. Il riferimento alla continuità aziendale è contenuto nell'art. 2423-bis, comma 1, n. 1, quale postulato di redazione del Bilancio di esercizio. Con una serie di ulteriori modifiche al Codice Civile il concetto espresso nel novellato art. 2086 è ora riportato anche nell'art. 2257 (amministrazione disgiuntiva nelle società di persone), nell'art. 2380 bis (Amministrazione della società per azioni), nell'art. 2409 nonies (Consiglio di Gestione), nell'art. 2475 (Amministrazione della società a responsabilità limitata) cui viene aggiunto anche il richiamo all'art. 2381 attualmente mancante, allo scopo di integrare le due fattispecie societarie per quanto riguarda i criteri di funzionamento dei rispettivi Consigli di Amministrazione. Il legislatore ha quindi permeato la legislazione dell'impresa commerciale con il superiore richiamo al dovere di istituzione dell'assetto organizzativo e di prevenzione della crisi di impresa e della perdita della continuità aziendale. Facendo un passo avanti esaminiamo ora come il medesimo legislatore ha trattato la crisi di impresa e la continuità aziendale nel testo della riforma. E' doveroso premettere che mentre all'art. 2 del Codice della Crisi e dell'insolvenza è contenuta la definizione di crisi di impresa, nulla si dice in tutto il testo circa la continuità aziendale. Questo fenomeno verrà richiamato nei prossimi paragrafi. La crisi è così definita: “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l'insolvenza del debitore e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”. Nella relazione illustrativa non si trovano particolari commenti salvo il fatto di aver ”dovuto” richiamarsi al concetto di probabile futura insolvenza e di aver fatto tesoro delle “elaborazioni della scienza aziendalistica” per evitare eccesso di tecnicismo e quindi arrivare ad una definizione “semplice” della crisi. E' facile quindi incominciare a trovare un primo nesso fra le funzioni dell'assetto organizzativo obbligatorio e la crisi di impresa: l'impresa deve sempre monitorare che non si verifichi inadeguatezza dei flussi di cassa. Proseguendo nella disamina sistematica delle norme occorre ora giungere fino all'art. 15 del Codice della Crisi. contenuto nel Capo I – Strumenti di Allerta, rubricato “Nozione, effetti e ambito di applicazione”. Il primo comma di tale articolo dice che “costituiscono strumenti di allerta gli oneri di segnalazione posti a carico dei soggetti qualificati di cui agli articoli seguenti, finalizzati, unitamente agli obblighi organizzativi posti a carico dell'imprenditore nel codice civile, alla tempestiva rilevazione degli indizi di crisi dell'impresa ed alla sollecita adozione delle misure idonee alla sua composizione”. Nuovamente gli obblighi organizzativi che, si ricorda, divengono (solo da ora?) bagaglio ordinario e obbligatorio della gestione dell'impresa, sono parte integrante dell'allerta e si collegano sinallagmaticamente agli indicatori di crisi illustrati nel successivo art. 16, appunto rubricato “Indicatori della crisi”. Esso recita: “Costituiscono indicatori di crisi gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell'attività imprenditoriale svolta del debitore e rilevabili attraverso appositi indici, con particolare riguardo alla sostenibilità dei debiti nei successivi sei mesi ed alle prospettive di continuità aziendale, nonché l'esistenza di significativi e reiterati ritardi nei pagamenti, tenuto conto anche di quanto previsto nell'articolo 27. Il Consiglio Nazionale dei Dottori commercialisti ed esperti contabili, tenuto conto delle migliori prassi nazionali ed internazionali, elabora con cadenza triennale, in riferimento ad ogni tipologia di attività economica secondo le classificazioni ISTAT, gli indici di cui al primo comma che, valutati unitariamente, fanno ragionevolmente presumere la sussistenza di uno stato di crisi dell'impresa.” L'art. 27 richiamato dalla norma appena riportata (rubricato “tempestività dell'iniziativa”) costituisce un complemento che è bene esaminare puntualmente. Esso si riferisce alla applicazione delle misure premiali (art. 28) in caso di tempestività nell'accesso alle procedure di composizione e indica tre alternativi casi verificandosi i quali la tempestività viene a mancare: a) L'esistenza di debiti per salari e stipendi scaduti da almeno sessanta giorni per un ammontare pari ad oltre la metà del monte salari complessivo. Si noti che nella relazione illustrativa il riferimento alla metà del monte salari complessivo non è su base annuale come verrebbe immediato pensare, ma su base mensile. b) L'esistenza di debiti verso fornitori scaduti da almeno centoventi giorni per un ammontare superiore al quello dei debiti non scaduti. c) Il superamento nell'ultimo bilancio approvato, o comunque per oltre tre mesi, degli indici elaborati ai sensi dell'art. 16, comma 2. Fermiamoci quindi ad esaminare meglio l'effetto congiunto e possibilmente coerente delle norme che abbiamo sopra richiamato. La lettura sistematica delle norme conduce sicuramente il lettore all'interno di una percezione rilassante per cui il rispetto dei singoli obblighi sembra pacatamente condurre l'impresa verso un “safe harbour” sia sotto il profilo della ordinaria gestione, sia della rilevazione preventiva della crisi, sia della adozione tempestiva dei rimedi. Il contesto operativo peraltro sembra risultare francamente molto meno rilassante. Intanto, a mio avviso, risulta evidente un elemento di possibile contrasto fra la definizione di crisi contenuta nell'art. 2 e gli indicatori di crisi dell'art. 16. Infatti la crisi contiene già il proprio indicatore: l'inadeguatezza dei flussi di cassa. Si discute se la inadeguatezza dei flussi rispetto alle obbligazioni pianificate obblighi alla pianificazione e si riferisca solo ai debiti da Piano ovvero se si debba riferire alle obbligazioni assunte ed esistenti in ogni momento. Mi pare una distinzione di stile dal momento che il dovere di misurare i flussi di cassa che sono futuri per definizione obbliga a raffrontarli con i debiti esistenti e futuri che vanno opportunamente misurati. Come si concilierà questa definizione con gli indicatori di crisi che vanno comunque rilevati attraverso “appositi indici” genericamente illustrati nel primo comma dell'art. 16 e comunque da determinarsi a cura del Consiglio nazionale dottori commercialisti? Da un punto di vista squisitamente aziendalistico occorre dare coerenza sistematica al rapporto fra la determinazione della inadeguatezza dei flussi di cassa rispetto alle obbligazioni pianificate e gli indici di crisi che riflettano “la sostenibilità dei debiti nei successivi sei mesi ed alle prospettive di continuità aziendale” nonché “significativi e reiterati ritardi nei pagamenti”. Appare a prima vista incoerente la trasformazione della crisi espressa da inadeguatezza dei flussi di cassa (che sono grandezze finanziarie derivanti dalla pianificazione economica futura dell'attività di impresa) in crisi espressa per “indici” se intesi come rapporto fra numeri o come algoritmi di calcolo di grandezze statiche. Se poi si considera l'effetto del richiamo, ai fini della tempestività, delle tre condizioni matematicamente predeterminate di cui all'art. 27, ne discende uno scenario in cui la crisi diviene definita come tale al verificarsi almeno di una delle tre condizioni per godere delle misure premiali e quindi l'imprenditore non misura più tanto la propria crisi con la costante rilevazione della inadeguatezza dei flussi di cassa, quanto invece con l'osservazione dei tre indici di tempestività. Naturalmente non si può negare che il mancato rispetto delle scadenze nel pagamento degli stipendi del mese ovvero l'esistenza di debiti scaduti maggiori dei non scaduti non siano indicatori di tensione finanziaria; ma concettualmente (stante il richiamato desiderio del legislatore di adottare utilmente la scienza aziendalistica) il calcolo, la stima e la rilevazione costante dei flussi di cassa dell'intera azienda comportano uno schema così ampio e complesso nonché proiettato nel futuro tale da non essere compatibile di per sé con i soli due indicatori di tempestività sopra illustrati. Parimenti il superamento per tre mesi degli indici (che ancora non sappiamo quali siano) rispetto al bilancio precedente, solleva i medesimi problemi di coerenza con le metodologie aziendalistiche di misurazione e rilevazione dell'equilibrio finanziario dato dai flussi di cassa prospettici. Ragionando a ritroso e leggendo gli indicatori partendo da quelli di tempestività fino a giungere alla definizione di crisi sembra doversi concludere che la inadeguatezza dei flussi di cassa (e quindi lo stato di crisi) è determinata per esempio dal mancato pagamento di stipendi in misura pari alla metà della quota mensile dei medesimi. Ma se così è non si comprende il bisogno di definire la crisi con riferimento ai flussi di cassa e di mettere in campo costose e difficili rilevazioni di indici settoriali di crisi (con richiamo anche alle migliori prassi nazionali ed internazionali). Ritornando alla definizione di crisi ed alla inadeguatezza dei flussi di cassa appare immediato considerare che ciascuna impresa dovrà necessariamente migliorare (se non addirittura porre in essere ex novo) i sistemi di budgeting e reporting e predisporre sistematicamente proiezioni non solo economiche ma anche finanziarie. La misurazione dei flussi di cassa infatti impone la costante rilevazione della quantità di “ossigeno” necessaria al regolare proseguimento dell'attività aziendale e quindi al mantenimento della continuità aziendale stessa. La pianificazione (sia essa ordinaria o strategica) impone l'adozione di strumenti di rilevazione e monitoraggio, nonché la capacità di adottare tempestivamente correttivi in corsa. Le interazioni quindi dell'impresa con il mondo esterno (clienti – fornitori – sistema finanziario – pubblica amministrazione e via discorrendo) tendono inevitabilmente ad accelerare non solo e non tanto in funzione della normale evoluzione di business (che ha una sua propria velocità) ma anche in funzione dei nuovi termini imposti dalla riforma e quindi dall'esterno rispetto al business. Il termine di sei mesi di cui all'art. 16 impone alle imprese un criterio specifico di sostenibilità del debito. Il termine di sei mesi di cui all'art. 27, comma 1, per l'accesso ad una procedura concorsuale impone alle imprese un criterio specifico di tempestività. Parimenti il termine di tre mesi contenuto nel medesimo art. 27, ma riferito al deposito dell'istanza di composizione della crisi. Il termine di sessanta giorni per la scadenza dei debiti per salari che costituisce un indice di tempestività. Il termine di tre mesi di cui all'art. 18 (Obbligo di segnalazione dei creditori pubblici qualificati) concesso al debitore dal ricevimento dell'avviso per porre rimedio ai debiti scaduti con questi. Insomma, una serie di termini che la riforma introduce all'interno del sistema economico con finalità diverse rispetto ai termini di business che gli attori del sistema si pongono liberamente fra di loro, ma con essi concorrenti (prevenzione e composizione della crisi), costituirà un elemento con cui gli attori stessi dovranno in qualche modo confrontarsi. La domanda è: il sistema economico e finanziario è nel suo insieme pronto ad integrare i propri comportamenti economici e ad accelerare (ove necessario) in maniera coerente e condivisa? A tale riguardo occorre precisare che il quarto comma dell'art. 15 del Codice della Crisi e dell'Insolvenza stabilisce che gli strumenti di allerta si applicano agli imprenditori, escluse le grandi imprese, i gruppi di imprese di rilevante dimensione e le società con azioni quotate in mercati regolamentati o diffuse fa il pubblico in misura rilevante. E' noto che le grandi imprese sono quelle che superano almeno due dei limiti di: fatturato (40 milioni di Euro), attività (20 milioni di Euro) e dipendenti (n. 250). Una prima conclusione è, quindi, che solo il mondo delle PMI è inquadrabile sia nei nuovi obblighi di assetto organizzativo sia nelle procedure di allerta e quindi all'interno dell'intero set di “tempi e metodi” sopra descritto. Le grandi imprese invece hanno solo gli obblighi di assetto organizzativo al fine della prevenzione della crisi e quindi quando essa si verifichi possono gestirla in piena autonomia. Nel rapporto di business fra PMI e grande impresa si verificano quindi esigenze di monitoraggio identiche sotto il profilo della crisi e quindi della inadeguatezza dei flussi di cassa, ma totalmente differente sotto il profilo degli indicatori di crisi e dell'insieme di termini e procedure grazie ai quali l'impresa imposta la composizione della crisi. Rimane da apprezzare se questa differente impostazione metodologica comporti incoerente comportamento nelle scelte di business o nei rapporti commerciali e finanziari fra società clienti/fornitori quando da una parte vi è una PMI e dall'altra una grande impresa. Poiché i rapporti di forza sono normalmente più a vantaggio della grande impresa rispetto alla piccola, occorre evitare che la griglia di “tempi e metodi” costruita dalla riforma per la composizione della crisi delle PMI si risolva in una ulteriore fonte di difficoltà e rigidità. A tale riguardo è bene ricordare che il ricorso all'organismo di composizione della crisi non solo pone la crisi stessa in mani di terzi rispetto all'impresa, ma impone anche il termine di 6 mesi per la sua conclusione e la successiva comunicazione al PM se “il collegio ritiene che gli elementi acquisiti rendano evidente la sussistenza di uno stato di insolvenza” (art. 25), in assenza del ricorso alle altre procedure concorsuali. Il richiamo voluto dal legislatore alla “scienza aziendalistica” sia nella definizione della crisi sia nell'affrontare gli indicatori della crisi, unitamente agli obblighi circa l'assetto organizzativo che l'impresa è tenuta a darsi (e gli organi di amministrazione e controllo sono tenuti a vigilare ciascuno per le proprie competenze e responsabilità) per la pronta rilevazione della crisi ed il recupero della continuità aziendale, evocano concetti di conduzione e gestione dell'impresa che non sono certamente nuovi. Come è stato già evidenziato all'inizio di questo contributo, la continuità aziendale, pur essendo il presupposto cardine di impresa, continua a non avere una propria definizione se non nei limiti in cui si ritenga che la crisi costituisca di per sé prova della sua assenza; in tal caso si potrebbe concludere che nel momento in cui i flussi di cassa divengano inadeguati a far fronte alle obbligazioni pianificate, al contempo venga a cessare anche la continuità aziendale. Lo scrivente non è d'accordo sulla precisa sovrapposizione concettuale che sembra derivare dall'accostamento dei concetti di crisi (definita) e di continuità aziendale (non definita), tuttavia non si può dubitare che l'equilibrio finanziario dell'impresa sia l'elemento di maggiore sensitività. Ora, l'equilibrio finanziario dell'impresa dipende (e gli indicatori di crisi così testimonieranno di sicuro) anche dal grado di capitalizzazione dell'impresa stessa. Il rapporto fra fonti interne e fonti esterne di finanziamento gioca un ruolo rilevante della misurazione della solidità di una impresa. Il capitale di funzionamento inteso come patrimonio netto disponibile diviene una variabile non da poco. Sorge quindi spontanea una osservazione strettamente inerente il mondo delle PMI, cioè quella categoria economica chiamata ad adeguarsi in tutto e per tutto alle nuove norme sulla gestione della crisi tramite le procedure di allerta. Trattasi di un mondo in cui il grado di patrimonializzazione è storicamente piuttosto basso. Ciò sia a causa della inesistente coerenza fra capitale sociale da codice civile e capitale di funzionamento, sia a causa della eredità dello sviluppo della economia italiana dal secondo dopoguerra tramite finanziamento bancario e la propensione dell'imprenditore a investire poco denaro nella propria azienda a fronte di ingenti garanzie patrimoniali personali concesse al sistema bancario. L'evidenza di questo fenomeno ha dato notizia di sé nei recenti (ed ancora attuali) anni di crisi economica con il verificarsi del fenomeno a forbice: le imprese hanno consumato tutte le riserve di bilancio – le banche hanno stretto la concessione di credito. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Non vi sono particolari previsioni della ripresa della concessione del credito bancario alle imprese, mentre sono di evidenza nuove fonti di finanziamento come l'equity crowdfunding – i mini bond – i business angels ed i fondi di investimento – i P.I.R., e via discorrendo. Un mondo di finanza alternativa (se così si può chiamare ) in rapida crescita. Questo mondo funziona raccogliendo informazioni di business strutturate in maniera diversa rispetto alla raccolta di dati tradizionalmente operata dal sistema bancario. Con il tempo le PMI che vorranno accedere a questo mondo dovranno orientarsi alla creazione della propria banca dati informativa per l'ottenimento di finanza di impresa sia in forma di capitale che di prestito. Questa “naturale” evoluzione del mondo della finanza di impresa, a mio avviso, dovrebbe essere sfruttata dal legislatore prima ancora della introduzione di rigidi schemi di indicazione della crisi e di composizione a tempi forzati. Proprio perché le PMI saranno sempre più portate a patrimonializzarsi scambiando informazioni qualificate sul proprio business, il capitale di funzionamento diventa una variabile sensibile e va stimolato. L'attuale riferimento codicistico al capitale sociale (che addirittura diviene di 1 euro per le società a responsabilità limitata semplificate – art. 2463-bis c.c.) è assolutamente anacronistico; lo dimostra, fra l'altro, il fatto che nelle procedure di allerta è mantenuta la disposizione della sospensione degli effetti degli artt. 2447 e 2448 per le s.p.a. e 2482 bis e 2482 ter per le s.r.l. durante la gestione della crisi (art. 23 comma 4). Sembra quindi che il legislatore non abbia pensato a cercare maggiore coerenza fra equilibrio finanziario e capitale di funzionamento, stimolando il sistema economico e finanziario ad accelerare il processo virtuoso lentamente in atto tendente alla ricapitalizzazione delle imprese italiane, ed invece si è concentrato sulla griglia “tempi e metodi” che in presenza dell'evidente disallineamento fra finanza di impresa e tessuto imprenditoriale rischia di amplificare (senza risolverlo) il problema di fondo. Si può comprendere che il legislatore in tema di crisi è interessato all'equilibrio dei flussi prospettici, che in presenza di adeguata economicità e tempistiche incassi /pagamenti potrebbe anche non richiedere eccessivo capitale. Però è necessario sottolineare come l'importanza del capitale è tanto più alta per aziende PMI che scontano mediamente clienti difficili (incassi ritardati) e fornitori che potrebbero richiedere, soprattutto in momenti di crisi, tagli nei tempi di pagamento; e ciò riprende anche il tema della non perfetta coerenza di interessi gestionali fra PMI e grandi imprese già evidenziata. L'auspicio quindi è che l'avvio della riforma e delle procedure di allerta sia accompagnato da una crescente consapevolezza del bisogno di recupero della patrimonializzazione delle PMI italiane affinchè la gestione degli indicatori di crisi avvenga all'interno di un sistema in cui gli attori si coordinino ciascuno nella propria veste (finanziatore, socio di capitali, cliente , fornitore, ente pubblico e via discorrendo) in funzione del medesimo obiettivo, la stabilità complessiva del sistema economico e finanziario e scoprano che per raggiungere tale scopo è necessario che tutti parlino la stessa lingua: la crisi di uno è la crisi di tutti – l'allerta di uno è l'allerta di tutti. |