Nicola Posteraro
09 Maggio 2018

La potestà di annullamento in autotutela si fonda sul principio costituzionale di buon andamento ex art. 97 Cost., il quale ultimo impegna la pubblica amministrazione ad adottare atti il più possibile rispondenti ai fini che, per legge, essa deve conseguire.
Inquadramento

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La potestà di annullamento in autotutela si fonda, in primis, sul principio costituzionale di buon andamento ex art. 97 Cost., il quale ultimo impegna la pubblica amministrazione ad adottare atti il più possibile rispondenti ai fini che, per legge, essa deve conseguire (in termini, Cons. Stato, sez. IV, 10 giugno 2014, n. 2940; Id., sez. V, n. 4864/2010).

In costanza del vecchio codice, sulla base dell'art. 11, comma 9, del d.lgs. n. 163 del 2006, alla Stazione Appaltante, in via generale, era pacificamente riconosciuta (quantomeno, prima che questa fosse addivenuta a contrattazione), la possibilità di intervenire, attraverso l'adozione di provvedimenti di annullamento, sugli atti di gara, ivi compresa l'aggiudicazione (Cfr. TAR Lombardia, Brescia, 29 novembre 2016, n. 1634).

Si discuteva, invece, rispetto alla possibilità della stessa S.A. di agire in autotutela (e quindi, per quanto qui interessa, di annullare i provvedimenti di gara viziati) nei casi in cui il contratto fosse stato già stipulato.

Ai sensi dell'art. 32 del nuovo codice dei contratti pubblici (che ricalca, con gli opportuni aggiustamenti, il vecchio art. 11 del d.lgs. n. 163 del 2006), resta oggi ferma, al comma 8, la previsione che fa salvo, in capo alla S.A., l'esercizio di poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti.

In questo modo, anche la disciplina odierna riconosce la possibile applicazione, alla fase pubblicistica della gara, tra le altre norme, dell'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990. La Stazione Appaltante, quindi, titolare del potere di autotutela, sicuramente può procedere, nel corso della procedura, e prima che il contratto sia stato stipulato, all'annullamento degli atti (provvedimenti) viziati (es. bando, provvedimenti di ammissioni ed esclusioni, aggiudicazione).

Resta invece da capire se il nuovo codice abbia in qualche modo fornito una risposta circa la possibilità, per la stessa S.A., di annullare in autotutela i provvedimenti illegittimi, a contratto già stipulato (vd. infra).

I presupposti per il legittimo esercizio dell'annullamento d'ufficio

Come rilevato supra, qualora non sia ancora pervenuta alla stipula del contratto, la S.A. è senza dubbio titolare di un potere di auto-annullamento. Tuttavia, al fine di annullare legittimamente il provvedimento di primo grado viziato, essa dovrà necessariamente attenersi alla disciplina positiva di cui all'art. 21-noniesdella legge n. 241 del 1990.

Anzitutto, non è sufficiente che essi riscontri una illegittimità del provvedimento.

Occorre, infatti:

a) che sussista un ulteriore interesse pubblico, concreto e attuale, al suo annullamento: di recente, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 8 del 2017, sebbene con qualche contraddizione, ha ribadito siffatto concetto, precisando che l'interesse al ripristino alla legalità violata non può farsi coincidere con l'interesse pubblico concreto e attuale richiesto dalla norma (e atto, quindi, a legittimare l'annullamento).

Risulta criticabile, per questi motivi l'orientamento giurisprudenziale secondo cui, nel caso di erronea previsione delle categorie in cui iscrivere le opere da svolgere, essendo siffatto errore in grado di alterare il gioco concorrenziale tra i partecipanti, l'interesse pubblico sarebbe sussistente in sé (e, quindi, la necessità di dar corso ad un effettivo confronto concorrenziale tra i soggetti partecipanti ad una selezione pubblica legittima, di per sé, l'annullamento di una gara già svolta; Cons. St., sez. III, 9 agosto 2017, n. 3973; TAR Liguria, sez. I, 4 ottobre 2017, n. 747).

b) che l'interesse pubblico rintracciato sia contemperato con gli altri interessi coinvolti nel caso concreto: è necessario che la S.A., prima di decidere se annullare oppure no, tenga conto anche degli “interessi dei destinatari e dei controinteressati”, prendendo atto, tra le altre cose, della sussistenza di un potenziale conflitto tra l'interesse (pubblico) all'annullamento e quello (dell'amministrato) al mantenimento del provvedimento illegittimo; ciò al fine di non sacrificare, ingiustamente, l'affidamento riposto dai privati (sulle cui situazioni giuridico-soggettive il disposto annullamento officioso andrebbe negativamente ad incidere). Ovviamente, più va avanti la gara, più l'affidamento dei partecipanti sarà forte (e, quindi, difficilmente retrocessivo a fronte dell'interesse pubblico ulteriore eventualmente rintracciato dalla S.A. come sussistente).

Diverso, invero, il caso in cui sussista la malafede dell'amministrato e quindi non rilevi la componente soggettiva dell'affidamento del privato, intesa come buona fede del soggetto che pone fiducia nello stato di cose esistente: in questo caso, è generalmente esclusa la necessità che l'amministrazione prenda in considerazione l'interesse dell'amministrato, nel valutare la rilevanza dell'interesse pubblico (anche se, come si rileverà infra, non è detto che essa, in siffatte ipotesi di affidamento colpevole, possa e debba comunque sempre annullare).

c) che le ragioni di illegittimità, il riferito interesse pubblico ulteriore e il suo avvenuto contemperamento siano adeguatamente illustrati in una approfondita motivazione: il provvedimento, così, conterrà elementi atti, da un lato, a giustificare, agli occhi degli amministrati in genere, l'attività di valutazione svolta dall'amministrazione; dall'altro, a rendere edotto l'amministrato colpito dal riesame del perché delle decisioni assunte.

d) che la S.A. annulli il provvedimento di primo grado in un termine ragionevole e, laddove il riesame incida su un provvedimento autorizzatorio, ovvero attributivo di vantaggi economici, che la stessa lo annulli (nel senso che avvii e adotti, esternandolo, il provvedimento di secondo grado) entro il termine massimo dei 18 mesi da quando esso è stato adottato: occorre fin da subito precisare che le due espressioni di cui sopra, introdotte dalla legge Madia n. 124 del 2015 con riferimento al termine massimo dei 18 mesi, vanno intese in senso estensivo, al di là del nomen iuris dei singoli provvedimenti: esse vanno quindi riferite a tutti gli atti ampliativi della sfera giuridica dei destinatari.

È verosimile pensare al fatto che alcuni degli atti di primo grado annullabili, emanati nella procedura di gara, rientrino in tale ultima categoria e non possano quindi essere più annullati laddove siano trascorsi i 18 mesi dalla loro adozione: ad esempio, l'annullamento dell'aggiudicazione, potendosi questa classificare come atto attributivo di vantaggio economico, è sicuramente assoggettato al suddetto limite (con l'eccezione di cui all'art. 108 ccp, comma 1, di cui infra, che però si occupa d'un caso di annullamento a contratto già stipulato).

Al contrario, nel caso di annullamento del bando, il termine di 18 mesi non dovrebbe essere applicabile, posto che questo, di per se stesso, non attribuisce alcun tipo di vantaggio economico agli aspiranti aggiudicatari. Tuttavia, il potere di annullamento del bando sarà anch'esso soggetto al termine massimo suddetto, qualora sia già intervenuta l'aggiudicazione: il suo venir meno, infatti, incide, negativamente, sull'atto consequenziale (l'aggiudicazione) attributivo di vantaggio economico.

Infine, occorre precisare che l'applicabilità del termine massimo dei 18 mesi non esclude una valutazione caso per caso di possibile irragionevolezza di un termine inferiore. Non è detto, cioè, che un provvedimento emanato (nel rispetto degli altri suddetti presupposti e) prima dei 18 mesi sia, per ciò solo, legittimo.

Interessante, a questo proposito, Cons. St., sez. III, 22 marzo 2017, n. 1310, secondo cui il dies a quo per computare il termine di 18 mesi si deve fare decorrere dall'effettivo affidamento del servizio e non dall'emanazione degli atti prodromici della procedura (nella specie peraltro il Collegio rileva che il tempo trascorso tra la delibera di affidamento e l'annullamento, pari a 17 mesi e 6 giorni, deve ritenersi ragionevole qualora l'erogazione del servizio non sia ancora iniziata e lo stesso affidamento sia già stato revocato appena cinque mesi dopo la sottoscrizione dell'accordo, posto che, in siffatte ipotesi, non si può ritenere consolidato alcun affidamento del privato).

In evidenza

Un'altra rilevante questione attiene alla verifica dell'operatività della preclusione temporale di 18 mesi per l'annullamento d'ufficio di atti contrastanti con il diritto dell'UE. La dottrina ha rilevato che il termine de quo non opera solo quando si tratti di assicurare l'attuazione di decisioni puntuali della Commissione o della Corte di Giustizia dell'Unione Europea. La preclusione temporale, invece, continua ad operare per atti affetti da violazioni europee di natura diversa, in relazione alle quali non si ravvisano ragioni che giustifichino la deroga alla regola generale codificata dalla novella (peraltro espressiva del principio, anch'esso di genesi europea, di proporzionalità).

Ai sensi dell'art. 21-nonies, comma 2-bis, legge 241 del 1990, la S.A. potrà comunque annullare oltre i 18 mesi i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.

Come si vede, il legislatore lascia comunque la S.A. depositaria del suo potere discrezionale, posto che in presenza dei suddetti presupposti essa “può” e non deve necessariamente annullare. E ciò in quanto il provvedimento, seppure illegittimo, può aver conseguito effetti tali per cui la sua eliminazione può comportare inconvenienti maggiori, sempre sul piano dell'interesse pubblico, rispetto a quelli avrebbe la sua conservazione.

In evidenza

Il Consiglio di Stato, con i pareri nn. 839/2016 e 1784/2016, ha espresso alcune perplessità circa la portata di suddetto comma 2-bis. Ha rilevato, più nel dettaglio, che non è chiaro quale sia l'esatta delimitazione della (unica) fattispecie di deroga ai 18 mesi prevista dall'art. 21-nonies, comma 2-bis: ad esempio, se tra le false rappresentazioni dei fatti in deroga ai 18 mesi rientri anche la difettosa indicazione del sistema normativo di riferimento; ovvero, se si possa aggiungere la possibilità di superare i 18 mesi, al di là delle condanne penali passate in giudicato, in tutti i casi in cui il falso è immediatamente evincibile dal contrasto con pubblici registri; ovvero, ancora, quale sia l'esatta portata del riferimento alle “sanzioni penali, nonché alle sanzioni previste dal capo IV del testo unico di cui al d.P.R. 445 del 2000”.

Con riferimento a quest'ultimo aspetto, le norme che vengono in rilievo sono gli articoli 75 (decadenza dai benefici) e 76 (norme penali). La problematica interpretativa si pone con più specifico riferimento alla prima delle indicate disposizioni che commina al dichiarante la decadenza dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione resa, qualora emerga la non veridicità del suo contenuto (fermo restando quanto previsto dal successivo articolo 76). Non è chiaro cioè se il legislatore abbia voluto farne salva l'applicazione o piuttosto se abbia inteso riferirsi alle sole sanzioni di carattere penale, sussistendo peraltro dubbi circa la possibilità di ricondurre la misura decadenziale al novero delle sanzioni, non costituendo questa una misura sanzionatoria afflittiva in senso proprio perché volta al mero ripristino della legalità.

Si pone in dubbio, poi, se l'esigenza della condanna accertata da sentenza penale passata in giudicato debba valere solo per le dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci, ovvero anche per le false rappresentazioni dei fatti.

Orientamenti a confronto

La giurisprudenza, sul punto, ha interpretato la norma in maniera divergente: un primo orientamento ha sostenuto che la previa sentenza penale passata in giudicato riguarda solo le “dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell'atto di notorietà false o mendaci” (TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 7 marzo 2017, n. 3215);

secondo una tesi maggiormente garantista, invece, il comma 2-bis richiede testualmente che anche le false rappresentazioni dei fatti siano l'effetto "di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato” (TAR Campania, Salerno, sez. II, 27 aprile 2017, n. 780).

Come s'è detto, laddove non sia applicabile il termine massimo dei 18 mesi, la S.A., per annullare legittimamente il provvedimento, dovrà farlo in un termine ragionevole. Il criterio dei 18 mesi resta esegetico; sicché, si deve ritenere che il termine ragionevole non possa essere di molto superiore a quello massimo espresso dalla legge Madia.

A questo proposito, di recente, l'Adunanza Plenaria n. 8 del 2017 (con riferimento al testo normativo vigente prima della riforma) ha affermato che il termine decorrerebbe da quando il vizio viene “scoperto”, e non, a differenza di quanto espressamente disposto dal nuovo art. 21-nonies per il termine di 18 mesi, da quando l'atto viene emanato.

La conclusione, alla stregua di una lettura costituzionalmente orientata, anche alla luce delle norme preesistenti alla codificazione del potere di annullamento (avvenuta nel 2005) non appare però convincente.

Occorre inoltre ricordare che il decorso di un breve lasso di tempo non vale, di per sé, a rendere ragionevole il termine dell'annullamento: il pieno sfruttamento dell'atto amministrativo, anche se avvenuto in tempi brevi, ma con grande impiego di mezzi economici e con l'avviamento dell'attività imprenditoriale conseguente, determina un consolidamento della situazione e un affidamento del privato di certo maggiore di quelli che potrebbero ipotizzarsi quando il privato, pur avendo ottenuto da molto tempo i provvedimenti favorevoli richiesti, non li abbia per qualsiasi motivo utilizzati.

Si rileva, infine, che la pendenza di un contenzioso sulla procedura di gara non priva la S.A. del potere di autotutela sugli stessi (e sugli altri) atti della gara (TAR Lazio, Roma, 30 giugno 2017, n. 7518).

La comunicazione di avvio del procedimento di riesame

La procedura finalizzata all'annullamento di un atto, com'è noto, va comunicata a tre categorie di destinatari ai sensi dell'art. 7 della legge n. 241 del 1990: quelli diretti; coloro che per legge devono intervenire, perché portatori di una posizione qualificata; coloro che possono subire un pregiudizio dall'esito del procedimento.

Ad esempio, se ad essere annullata è l'aggiudicazione, la S.A. dovrà sicuramente comunicare l'avvio del procedimento di riesame all'aggiudicatario, quale diretto interessato della stessa.

Tuttavia, la giurisprudenza ha affermato che il provvedimento di annullamento dell'aggiudicazione che venga disposto dalla S.A. nell'esercizio del potere di cui all'art. 11, comma 8, d.lgs. n. 163 del 2006, volto all'accertamento del possesso dei requisiti previsti dal bando e dalla legge per giungere alla stipulazione del contratto, non costituisce un provvedimento di secondo grado e pertanto non deve essere preceduto, ai sensi e per gli effetti dell'art. 7, L. n. 241 del 1990, dalla comunicazione di avvio del procedimento (Cons. St., sez. IV, 25 luglio 2001, n. 4065; Cons. St., sez. V, 22 maggio 2015, n. 2570; TAR Veneto, sez. I, 18 luglio 2017, n. 684).

Si afferma, inoltre, che l'esistenza di una misura interdittiva, che costituisce causa di esclusione per difetto di requisito di ordine generale prevista dall'art. 38, comma 1 lett. m), d.lgs. n. 163 del 2006, origina di per sé una situazione di urgenza qualificata che consente comunque, alla S.A., di derogare all'obbligo di preventiva comunicazione di avvio del procedimento (TAR Campania, Napoli, sez. I, 24 ottobre 2016, n. 4843).

La S.A., laddove proceda con l'annullamento di atti di una gara ancora in corso, dovrà comunicare l'avvio del procedimento a chiunque abbia presentato la domanda, posto che tutti i concorrenti potrebbero essere concretamente pregiudicati dall'atto di secondo grado: si pensi all'annullamento del bando, il quale metterebbe in forse l'intera procedura. A questo proposito, occorre precisare che le norme sulla partecipazione, com'è noto, non si applicano agli atti amministrativi generali. Tuttavia, gli atti generali, nel momento in cui trovano attuazione, hanno destinatari determinati: dal punto di vista delle garanzie procedimentali, quindi, il potere di autoannullamento del bando, dopo la presentazione delle domande, resta assoggettato al limite della comunicazione di avvio del procedimento ai candidati che sono diventati i destinatari individuali dell'atto generale.

4.La tutela dell'amministrato: impugnazione dell'atto illegittimo e sollecitazione del potere officioso di annullamento

A fronte di un atto di gara illegittimo, com'è noto, l'interessato (titolare di una situazione giuridico-soggettiva differenziata e qualificata, perché, ad esempio, partecipante alla gara stessa) potrà impugnarlo viziato dinanzi al giudice amministrativo (senza dovere, oggi, inoltrare previamente, alla S.A., il cd. preavviso di ricorso, al contrario di quanto invece era previsto dal vecchio codice dei contratti, ai sensi dell'art. 243-bis).

Tuttavia, l'interessato potrà anche sollecitare, tramite presentazione di apposita richiesta in tal senso alla S.A., l'esercizio del potere di annullamento ex art. 21-nonies.

La richiesta non fa tuttavia sorgere in capo alla S.A. un dovere di provvedere, laddove sia pervenuta dopo la scadenza del termine per l'impugnazione giurisdizionale dello stesso atto di cui, con la sollecitazione, chiede ora l'annullamento. Il silenzio della S.A., quindi, non sarà stigmatizzabile dinanzi al giudice amministrativo ex artt. 31 e 117 c.p.a., posto che, ragionando in modo diverso, si militerebbe contro il principio della inoppugnabilità, consentendo una facile elusione del predetto termine decadenziale di impugnazione.

Al contrario, la S.A. sarà tenuta a prendere in esame le richieste (e dunque avviare e poi concludere il procedimento di riesame, sebbene restando titolare di un potere discrezionale nel quid) avanzate prima della scadenza del suddetto termine: in questo caso, l'interessato, titolare di una situazione giuridico-soggettiva differenziata e qualificata anche in concreto, e, quindi, di una vera e propria legittimazione a richiedere l'esercizio di quel potere officioso, potrà, dunque, agire in giudizio avverso il silenzio inadempimento, laddove la S.A. adita, non abbia avviato (e/o concluso nel tempo previsto) il procedimento di riesame.

(Segue): Ricorso avverso l'atto di riesame e sindacato del giudice.

L'interessato potrà impugnare il provvedimento di annullamento emanato dalla S.A. qualoralo ritenga viziato.

Se la gara è in corso, coloro che hanno presentato la domanda hanno tutti interesse a preservare la chance di vittoria e, quindi, appaiono legittimati ad impugnare gli atti di riesame capaci di incidere su di provvedimenti il cui annullamento metta in forse l'intera procedura (ad esempio, l'atto di autoannullamento del bando; cfr. TAR Toscana, 12 maggio 2017, n. 672).

Nel caso in cui la gara si sia conclusa e vi sia un'aggiudicazione definitiva inoppugnata, solo l'aggiudicatario definitivo subisce verosimilmente un pregiudizio dall'annullamento degli atti di gara (tra cui, appunto, l'aggiudicazione) e può quindi conseguire un'utilitas dal ricorso avverso il provvedimento di autotutela: dunque, solo lui, si ritiene, ha un interesse a ricorrere e una legittimazione ad agire.

Diversamente, è legittimato a impugnare l'atto di annullamento (ad esempio del bando) anche colui il quale, avendo partecipato alla gara, pur non essendo l'aggiudicatario definitivo, abbia impugnato l'aggiudicazione: il rapporto, infatti, non è esaurito ed egli ha interesse a preservare l'utilità derivante dal potenziale accoglimento nel merito del suo ricorso (l'annullamento del bando, invero, farebbe venir meno l'intera procedura e, consequenzialmente, lo renderebbe improcedibile).

Il giudice amministrativo, nei suddetti casi di impugnazione, può sindacare il buon esercizio della discrezionalità amministrativa; ferma l'insidacabilità del provvedimento nel merito, dovrà verificare che il percorso motivazionale della S.A. sia esaustivo, effettivo e ancorato al caso concreto, anziché affidato a formule di rito.

L'interessato che impugni l'annullamento potrà, inoltre, chiedere, ex art. 2043 cc, il risarcimento dei danni che da tale provvedimento gli siano derivati (cd., in senso a-tecnico, responsabilità precontrattuale spuria).

A questo proposito, si ricorda che l'art. 30 c.p.a. consente all'interessato di chiedere in via autonoma il risarcimento del danno che gli derivi dall'annullamento illegittimo anche senza subordinare l'azione alla richiesta di annullamento dell'atto lesivo da cui il danno è originato.

Tuttavia, com'è noto, lo stesso art. 30 dispone al comma 3 che il giudice, nel valutare la domanda di risarcimento autonoma, “valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti”: alla luce di questa disposizione, in combinato disposto con l'art. 1227 c.c., la giurisprudenza ritiene che il mancato esperimento dell'azione di annullamento (e/o dall'azione cautelare) da parte dell'interessato possa essere comunque negativamente valutato nei suoi riguardi (e che, quindi, sulla base di ciò, gli possa essere negato, in sede processuale, il diritto a ottenere il risarcimento del danno richiesto, posto che, se esso avesse esperito le altre azioni a sua disposizione, avrebbe potuto evitare il danno di cui si duole –o, quantomeno, ne avrebbe potuto evitare il suo aggravamento).

(Segue): Sul risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale spuria e pura

Anche nel caso in cui il provvedimento di autotutela sia legittimo (e dunque non contestabile/contestato), l'interessato potrà comunque rivolgersi al giudice al fine di ottenere un risarcimento dei danni patiti. In questo caso, ovviamente, non chiederà il risarcimento di un danno derivante dal provvedimento amministrativo di secondo grado illegittimo, bensì, avanzerà domanda di risarcimento dei danni derivanti dalla scorrettezza comportamentale tenuta dalla S.A. nel corso delle trattative.

In siffatte ipotesi, la responsabilità contestata potrà essere qualificata quale responsabilità precontrattuale, come tale legittimante la richiesta, da parte dell'amministrato leso, del solo danno da interesse negativo (sull'ammissibilità della responsabilità precontrattuale in caso di autotutela, Cons. St., ad. Plen., 5 settembre 2005, n. 6; Cons. Stato, sez. V, 6 dicembre 2006, n. 7194; di recente, Cons. St., sez. IV, 15 settembre 2014, n. 4674).

Ad esempio, l'annullamento legittimo in autotutela dell'aggiudicazione può produrre responsabilità della S.A. per i danni che l'aggiudicataria provi di aver subito per aver anticipato, rispetto al contratto non ancora stipulato, l'esecuzione del servizio così come richiesto dalla stessa Amministrazione, avendo essa riposto affidamento sull'aggiudicazione medesima.

Il risarcimento cui la S.A. è in tal caso tenuta non consiste nel corrispettivo esigibile per una prestazione già resa, ma piuttosto in una sorta di ristoro fondato sulla lesione dell'affidamento ingenerato nell'impresa appaltatrice da un atto poi rivelatosi illegittimo ed annullato in autotutela (Cass. civ., Sez. Un., 29 maggio 2017, n. 13454).

La responsabilità pre-contrattuale discenderà allora dalla violazione dell'affidamento dell'amministrato (da esso incolpevolmente riposto nella validità dell'atto), oltre che dalla violazione della clausola di buona fede.

In evidenza

Resta tuttavia da capire se questa responsabilità precontrattuale possa sorgere solo nel caso in cui la S.A. annulli un provvedimento illegittimo ad aggiudicazione ormai già effettuata, oppure no.

A questo proposito, di recente, Cons. St., sez. III, ord., 24 novembre 2017, n. 5492, preso atto del contrasto giurisprudenziale sul punto, ha rimesso all'Adunanza plenaria le seguenti questioni:

a) se la responsabilità precontrattuale sia o meno configurabile anteriormente alla scelta del contraente, vale a dire della sua individuazione, allorché gli aspiranti alla posizione di contraenti sono solo partecipanti ad una gara e possono vantare un interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della pubblica amministrazione;

b) se, nel caso di risposta affermativa, la responsabilità precontrattuale debba riguardare esclusivamente il comportamento dell'amministrazione anteriore al bando, che ha fatto sì che quest'ultimo venisse comunque pubblicato nonostante sapesse -o dovesse essere conosciuto-, il fatto che non ve ne erano i presupposti indefettibili, ovvero debba estendersi a qualsiasi comportamento successivo all'emanazione del bando e attinente alla procedura di evidenza pubblica, che ne ponga nel nulla gli effetti o ne ritardi l'eliminazione o la conclusione.

Resterà poi da chiarire, in concreto, quale sia il giudice munito di giurisdizione, posto che in questo caso la giurisprudenza è discorde nell'affermare la giurisdizione esclusiva del g.a., ex art. 133, lett. E), n. 1, c.p.a., ovvero quella ordinaria (sulla giurisdizione, di recente: Cass. civ., 15 giugno 2017, n. 14859, che riconosce la giurisdizione del go –nello stesso senso, Cass. civ., Sez. un., 22 giugno 2017, n. 15640- e Cons. St., 31 agosto 2016, n. 3775 che riconosce la giurisdizione esclusiva del g.a.).

Annullamento officioso a contratto già stipulato: problemi di ammissibilità

Da sempre, ampio è stato il dibattito circa l'ammissibilità dell'esercizio del potere di annullamento in autotutela a contratto già stipulato.

Sotto la vigenza del d.lgs. n. 163 del 2006 si registravano, in dottrina, opinioni contrastanti.

La giurisprudenza, dal proprio canto, dopo alcune incertezze iniziali, aveva sostenuto l'ammissibilità dell'annullamento d'ufficio (ex multis T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, 12 Gennaio 2011, n. 20, T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, 27 Luglio 2011, n. 116 e T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 10 Settembre 2010, n. 32215; Cons. St., sez. V, 12 febbraio 2010, n. 743; Id., sez V, 4 gennaio 2011, n. 11). A tal fine, essa era solita fare leva non solo sul dettato dell'art. 11 del vecchio codice, ma soprattutto sulla natura generale dei poteri di autotutela, sulla loro inesauribilità e sull'assenza di limiti formali al loro esercizio.

Anche l'Adunanza plenaria n. 14 del 2014 (la quale aveva precisato che, alla luce del vecchio codice, il potere di autotutela, a contratto già stipulato, sussisteva per la S.A. nei casi in cui non vi fosse una norma che le attribuisse un potere privatistico “sostitutivo” di quello pubblicistico: ad esempio, nel caso di appalto di lavori, recesso dal contratto, ex art. 134 vecchio codice, in luogo del potere pubblicistico generale di revoca, ex art. 21 quinquies) aveva, in un obiter dictum, specificato che restava, invece, impregiudicata per la stessa stazione appaltante “la possibilità dell'annullamento d'ufficio dell'aggiudicazione definitiva anche dopo la stipulazione del contratto”.

Restava tuttavia da risolvere il problema di quale fosse la sorte del contratto a fronte d'un annullamento di atti di gara intervenuto successivamente alla sua stipula.

(Segue): Articolo 108, comma 1, c.c.p.

Alla luce del principio espresso dall'Adunanza Plenaria n. 14 del 2014, quindi, si potrebbe affermare che il nuovo codice dei contratti pubblici, avendo espressamente riconosciuto il potere privatistico di risoluzione e recesso agli artt. 108 e 109 c.c.p. (in verità, non solo per gli appalti di lavori, ma anche per quelli di servizi e di forniture) abbia escluso che sussista la possibilità, per la stazione appaltante, di intervenire in autotutela successivamente alla stipula del contratto (e, quindi, non solo di revocare, visto che può essa recedere ex art. 109 c.c.p., ma anche, per quanto qui interessa, di annullare gli atti di gara, quantomeno nei casi espressamente elencati dall'art. 108 ccp, posto che la risoluzione potrebbe qualificarsi quale potere privatistico atto a “sostituire” quello pubblicistico di annullamento; per i casi non elencati nell'art. 108, invece, l'annullamento post contratto, alla luce di questa affermazione, dovrebbe restare ancora consentito, visto che per essi non sussiste una norma che attribuisca alla stazione appaltante un potere privatistico di risoluzione capace di sostituire quello pubblicistico-).

Tuttavia, se è vero e pacifico che l'art. 109 ha effettivamente riconosciuto alla stazione appaltante un potere di tipo privatistico di recesso in luogo di quello pubblicistico di revoca, altrettanto non pare potersi dire per l'art. 108.

Esso stabilisce, invero, al comma I, che, fatti i salvi i poteri di sospensione di cui al precedente art. 107, “le stazioni appaltanti possono risolvere un contratto pubblico durante il periodo di sua efficacia”, al ricorrere di una o più delle circostanze, estremamente eterogenee, in esso elencate.

Le circostanze riguardano la modifica sostanziale del contratto o la variazione dell'oggetto con superamento delle soglie quantitative stabilite all'art. 106 del nuovo Codice (rispettivamente lett. a) e b) del comma I dell'art 108); la ricorrenza in capo all'aggiudicatario di uno dei motivi di esclusione stabiliti dall'art. 80 (lettera c)); il caso in cui l'appalto non avrebbe dovuto essere aggiudicato in considerazione di una grave violazione degli obblighi derivanti dai trattati, come riconosciuto dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea in un procedimento ai sensi dell'art. 258 TFUE (lettera d)).

Come evidenziato dal Consiglio di Stato, Commissione Speciale, nel parere n. 00855/2016 del 1/04/2016, la nuova formulazione dell'art. 108, da un lato, sostituisce gli artt. 135 e 138 del previgente codice, trascrivendone l'intero contenuto con limitate modificazioni e individuando le ipotesi al ricorrere delle quali la stazione appaltante può disporre la risoluzione di un contratto in corso di efficacia; dall'altro lato, recepisce le ipotesi di “risoluzione” previste dalle direttive eurounitarie (artt. 44 della direttiva n. 23 del 2014, 73 della direttiva n. 24 del 2014 e 90 della direttiva del 2014).

In verità, se le lettere a) e b) (che si riferiscono a una modifica sostanziale del contratto) sembrano pacificamente configurare casi di risoluzione in senso privatistico (o, comunque, di cd. recesso impugnazione, cui consegue lo scioglimento del rapporto) le lettere c) e d), invece, nella sostanza, sembrano contemplare, più che una risoluzione in senso tecnico, delle ipotesi di annullamento d'ufficio dell'aggiudicazione.

Esse, infatti, elencano ipotesi di illegittimità di quest'ultima.

Se così è, si può affermare che nel comma 1 dell'art. 108 convivono tanto ipotesi ipotesi di risoluzione autenticamente privatistiche, quanto ipotesi di risoluzione del contratto/annullamento d'ufficio dell'aggiudicazione.

Tuttavia, resta da verificare se, al di fuori delle lettere c) e d) di cui all'art. 108, la S.A. dopo la stipula del contratto sia comunque titolare del potere di riesame in commento.

La risposta dipende, evidentemente, da quale sia la lettura che si voglia offrire alla suesposta disposizione.

Da un lato, si può affermare che, con il prevedere ipotesi specifiche di risoluzione (e, meglio, annullamento dell'aggiudicazione post stipula), il codice abbia voluto indirettamente riconoscere che, negli altri casi, la S.A. non può più annullare l'aggiudicazione, una volta che il contratto sia stato stipulato. Le lettere c) e d), sarebbero, cioè, delle eccezioni alla regola generale vigente secondo cui la s.a., a contratto già stipulato, non può più annullare (regola, quindi, evidentemente opposta a quella valente in costanza del vecchio codice, anche alla luce della suddetta Adunanza plenaria).

Prima dell'intervento del correttivo, si riteneva che la tassatività delle ipotesi di annullamento di cui all'art. 108 potesse essere esclusa ai sensi della lett. d) del comma 1 dello stesso articolo: essa legittimava la risoluzione in tutti i casi in cui fosse intervenuta “una sentenza passata in giudicato per violazione del presente codice”. La sua latitudine applicativa era, quindi, assai ampia, e finiva con l'abbracciare ogni possibile illegittimità della procedura, purché in grado di condizionare l'esito della stessa. Tuttavia, la sua abrogazione potrebbe deporre a favore della tesi che vuole ravvedere un numerus clausus nelle ipotesi di cui all'articolo 108, primo comma, lettere c) e d).

Se così fosse, la S.A.: può sempre annullare gli atti di gara, prima della stipula, restando assoggettata alle regole di cui alla legge 241 del 1990 (e, dunque, anche al termine dei 18 mesi, laddove applicabile); la s.A. non può invece annullare gli atti di gara dopo la stipula del contratto; può però comunque annullare l'aggiudicazione (evidentemente, anche al di là dei 18 mesi) nei casi di cui alle lettere c e d dell'art 108, comma 1.

Secondo una diversa lettura, si potrebbe però affermare che la s.A., stipulato il contratto, resti depositaria del potere di annullamento officioso degli atti di gara e che le ipotesi di cui alle lettere c) e d) dell'art. 108 del nuovo codice sono state espressamente codificate al solo fine di precisare che, in quei casi, la stazione appaltante potrà annullare l'aggiudicazione anche al di fuori del limite temporale dei 18 mesi, cui altrimenti resterebbe assoggettata (e a cui evidentemente resta assoggettata, oltre che nei casi di annullamento degli atti di gara pre-contratto, anche nei casi, diversi da quelli delle lettere c) e d) dell'art. 108, di annullamento dell'aggiudicazione post stipula del contratto).

Depone a favore di questa ultima lettura il fatto che, come rilevato, l'art. 32 ricalca, salvo taluni necessari aggiustamenti, il disposto dell'art. 11 del d.lgs. n. 163 del 2006. Rimane fermo, in particolare, al comma 8, l'inciso che fa “salvo l'esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti”. A cambiare è solo il riferimento in apertura della disposizione, che era, nel vecchio codice, all' “aggiudicazione definitiva”, oggi, invece, all'“aggiudicazione” tout court intesa: variazione lessicale si spiega alla luce dell'avvenuta soppressione della figura dell'aggiudicazione provvisoria. Se l'inciso resta, dunque, identico, dovrebbero valere a tutt'oggi le considerazioni già svolte da giurisprudenza e dottrina che, proprio da esso, avevano tratto uno degli argomenti testuali più forti per l'ammissibilità dell'annullamento d'ufficio dell'aggiudicazione a contratto già stipulato (Cons. St., sez. V, 12 febbraio 2010, n. 743).

La disciplina dell'annullamento dell'aggiudicazione post contratto, ex art. 108, comma 1

L'annullamento d'ufficio di cui alle lettere c) e d) resta ovviamente assoggettato ai principi e alla disciplina pubblicistica della legge generale sul procedimento di cui s'è detto supra, quando si è trattato il tema dell'annullamento degli atti illegittimi “pre-stipula”.

Non vale, però, il termine dei 18 mesi: il correttivo, infatti, ha espressamente precisato che “nelle ipotesi di cui al comma 1 non si applicano i termini previsti dall'articolo 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241”.

Da un lato, l'espresso riferimento all'articolo 21-nonies depone a favore della configurazione dei casi di risoluzione in commento quali casi di annullamento officioso.

Dall'altro, resta da capire se la deroga valga solo per i 18 mesi, o, in genere, per “i termini” di cui all'art. 21-nonies della 241 del 1990 (e, quindi, anche per il “termine ragionevole” richiesto dalla stessa disposizione ai fini del legittimo esercizio del potere di autotutela).

Nei casi di annullamento dell'aggiudicazione post stipula ai sensi delle lettere c) ed), l'effetto sul contratto è quello della sua risoluzione (il rilievo vale evidentemente anche in ogni altro caso in cui si ammetta che la S.A. possa annullare a contratto già stipulato).

Ai sensi del comma 5 dell'art. 108, nel caso di risoluzione del contratto l'appaltatore ha diritto soltanto al pagamento delle prestazioni relative ai lavori, servizi o forniture regolarmente eseguiti, decurtato degli oneri aggiuntivi derivanti dallo scioglimento del contratto.

Ai sensi del comma 6, il responsabile unico del procedimento nel comunicare all'appaltatore la determinazione di risoluzione del contratto, dispone, con preavviso di venti giorni, che il direttore dei lavori curi la redazione dello stato di consistenza dei lavori già eseguiti, l'inventario di materiali, macchine e mezzi d'opera e la relativa presa in consegna.

Qualora sia stato nominato, poi, l'organo di collaudo procede a redigere, acquisito lo stato di consistenza, un verbale di accertamento tecnico e contabile con le modalità di cui al nuovo codice. Con il verbale è accertata la corrispondenza tra quanto eseguito fino alla risoluzione del contratto e ammesso in contabilità e quanto previsto nel progetto approvato nonché nelle eventuali perizie di variante; è altresì accertata la presenza di eventuali opere, riportate nello stato di consistenza, ma non previste nel progetto approvato nonché nelle eventuali perizie di variante (comma 8).

Ai sensi del comma 9, nei casi di risoluzione del contratto di appalto dichiarata dalla stazione appaltante l'appaltatore deve provvedere al ripiegamento dei cantieri già allestiti e allo sgombero delle aree di lavoro e relative pertinenze nel termine a tale fine assegnato dalla stessa stazione appaltante; in caso di mancato rispetto del termine assegnato, la stazione appaltante provvede d'ufficio addebitando all'appaltatore i relativi oneri e spese. La stazione appaltante, in alternativa all'esecuzione di eventuali provvedimenti giurisdizionali cautelari, possessori o d'urgenza comunque denominati che inibiscano o ritardino il ripiegamento dei cantieri o lo sgombero delle aree di lavoro e relative pertinenze, può depositare cauzione in conto vincolato a favore dell'appaltatore o prestare fideiussione bancaria o polizza assicurativa con le modalità di cui all'articolo 93, pari all'uno per cento del valore del contratto. Resta fermo il diritto dell'appaltatore di agire per il risarcimento dei danni.

L'articolo 176: annullamento d'ufficio della concessione

La lettura dell'art. 108 nel senso suddetto (e cioè che alle lettere c) e d) contemplano più esattamente due ipotesi di annullamento dell'aggiudicazione) consente di operare un corretto parallelismo con la disciplina in tema di concessioni recata dall'art. 176 ccp.

La disposizione elenca casi specifici, tendenzialmente coincidenti con quelli di cui all'art. 108, in cui la concessione “può cessare”.

Fin dalla sua introduzione, nessuno ha dubitato del fatto che trattasi di casi in cui la s.a. può procedere con l'annullamento officioso della concessione (a questo proposito, occorre evidenziare che, prima dell'entrata in vigore del correttivo al nuovo ccp, lo stesso articolo 176 escludeva la discrezionalità della stazione appaltante e la obbligava a risolvere –recte, annullare- la concessione in spregio ai principi generali di cui all'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990).

Anche in questo caso, ai sensi del comma 2, non si applicano i termini di 18 mesi di cui all'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990.

Come supra, pure siffatta precisazione normativa depone a favore della tesi che ravvisa, nei casi di cui all'articolo in commento, ipotesi di annullamento officioso e non di risoluzione in senso tecnico.

Anche il comma 3, in verità, si pone in linea con questa asserzione: esso, per ampliare l'ambito di applicazione del comma 4 (riferito ai casi di revoca dell'aggiudicazione) parla espressamente delle ipotesi di “annullamento d'ufficio”, così lasciando intendere che quelli di cui ai commi 1 e 2 (cui si applica appunto il comma 4 della tessa disposizione) sono casi in cui la s.a. può esercitare il suo potere di autotutela pubblicistica.

Resta vivo il problema di cui s'è detto in precedenza, visto che la deroga potrebbe riferirsi ai soli 18 mesi, ovvero anche al “termine ragionevole”. Valgono, comunque, le considerazioni svolte a proposito della deroga di cui all'art. 108.

Ai sensi dei commi 3 e 4, qualora l'annullamento della concessione non dipenda da vizio imputabile al concessionario, spettano a quest'ultimo:

a) il valore delle opere realizzate più gli oneri accessori, al netto degli ammortamenti, ovvero, nel caso in cui l'opera non abbia ancora superato la fase di collaudo, i costi effettivamente sostenuti dal concessionario;


b) le penali e gli altri costi sostenuti o da sostenere in conseguenza della risoluzione, ivi inclusi gli oneri derivanti dallo scioglimento anticipato dei contratti di copertura del rischio di fluttuazione del tasso di interesse;

c) un indennizzo a titolo di risarcimento del mancato guadagno pari al 10 per cento del valore delle opere ancora da eseguire ovvero, nel caso in cui l'opera abbia superato la fase di collaudo, del valore attuale dei ricavi risultanti dal piano economico finanziario allegato alla concessione per gli anni residui di gestione.

Inoltre, ai sensi dell'art. 5‐bis, senza pregiudizio per il pagamento delle somme di cui s'è detto supra, in tutti i casi di cessazione del rapporto concessorio diversi dalla risoluzione per inadempimento del concessionario (e, quindi, anche nei casi di risoluzione conseguente ad annullamento d'ufficio della concessione, nei casi elencati all'art. 176), il concessionario ha il diritto di proseguire nella gestione ordinaria dell'opera, incassandone i ricavi da essa derivanti, sino all'effettivo pagamento delle suddette somme per il tramite del nuovo soggetto subentrante, fatti salvi gli eventuali investimenti improcrastinabili individuati dal concedente unitamente alle modalità di finanziamento dei correlati costi.

Nei casi che comporterebbero la risoluzione di una concessione per cause imputabili al concessionario, la stazione appaltante comunica per iscritto al concessionario e agli enti finanziatori l'intenzione di risolvere il rapporto (comma 8). Gli enti finanziatori, ivi inclusi i titolari di obbligazioni e titoli analoghi emessi dal concessionario, entro novanta giorni dal ricevimento della comunicazione, possono indicare un operatore economico, che subentri nella concessione, avente caratteristiche tecniche e finanziarie corrispondenti o analoghe a quelle previste nel bando di gara o negli atti in forza dei quali la concessione è stata affidata, con riguardo allo stato di avanzamento dell'oggetto della concessione alla data del subentro.

Ai sensi del comma 9, l'operatore economico subentrante deve assicurare la ripresa dell'esecuzione della concessione e l'esatto adempimento originariamente richiesto al concessionario sostituito entro il termine indicato dalla stazione appaltante. Il subentro dell'operatore economico ha effetto dal momento in cui la stazione appaltante vi presta il consenso.

Ai sensi del comma 10‐bis, le regole del 176 si applicano ai contratti di concessione e di partenariato pubblico privato e agli operatori economici titolari di tali contratti.

La risoluzione necessariamente dovuta: il secondo comma dell'articolo 108 c.c.p.

Ai riferiti casi di risoluzione “facoltativa” (art. 108, comma 1), si contrappongono, al comma 2 dello stesso articolo 108 nuovo ccp, lettere a) e b), ipotesi di risoluzione “obbligatoria”, in cui le stazioni appaltanti “devono risolvere un contratto pubblico durante il periodo di efficacia dello stesso”.

La lett. a) di detto comma si riferisce al caso in cui nei confronti dell'appaltatore sia intervenuta la decadenza dell'“attestazione di qualificazione per aver prodotto falsa documentazione o dichiarazioni mendaci”; la lett. b), invece, contempla alcune particolari ipotesi di violazione dell'art. 80 del codice, purché accertate con il crisma della definitività. È l'ipotesi, quest'ultima, in cui nei confronti dell'appaltatore “sia intervenuto un provvedimento definitivo che dispone l'applicazione di una o più misure di prevenzione di cui al codice delle leggi antimafia e delle relative misure di prevenzione” ovvero “sia intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato per i reati di cui all'art. 80”.

Sulla base di quanto detto supra, se anche al comma 2 si rilevassero ipotesi di annullamento dell'aggiudicazione, si dovrebbe affermare che si hanno, in questo caso, delle ipotesi, eccezionali, di annullamento “doveroso” (recte, vincolato nel quid), visto che la disposizione non lascia alla S.A. la possibilità di scegliere se, al ricorrere di quelle circostanze, sia concretamente conveniente risolvere (meglio, annullare), oppure no.

Tuttavia, lasciando in disparte i problemi che l'annullamento doveroso comporta (anche quando previsto legislativamente), sembra che questa affermazione non possa valere con riferimento alla lettera b) suddetta: essa si riferisce ad una sopravvenienza fattuale, che, intervenendo successivamente, quando concretizzatasi, non legittima (e quindi non impone) l'esercizio di un potere di annullamento (doveroso), ma, semmai, per riprendere le categorie della manualistica tradizionale, fa sorgere, in capo alla S.A. di esso titolare, il potere/dovere pubblicistico di rimozione (abrogazione) dell'atto originario divenuto contra jus.

La giurisdizione nel caso della risoluzione post-contratto

Le fattispecie di risoluzione autenticamente privatistiche appartengono evidentemente alla cognizione del giudice ordinario (come già tradizionalmente avveniva con riguardo alle diverse fattispecie di risoluzione e recesso contemplate dal vecchio codice dei contratti; nel senso della sussistenza della giurisdizione del Giudice ordinario con riguardo alle ipotesi di risoluzione per reati accertati, per decadenza dall'attestazione e per gravi inadempimenti o irregolarità di cui agli artt. 135 e 136 del d.lgs. n. 163/2006, cfr. Cass. civ., Sez. un., 6 maggio 2005, n. 9391 e Cons. St., sez. V, 17 ottobre 2008, n. 5071. Sul recesso ex art. 134 del d.lgs. n. 163/2006, in quanto espressione di un potere non pubblico ma contrattuale, cfr. Cons. St., sez. V, 18 settembre 2008, n. 4455 che riprende Cassazione civile, Sez. un., 26 giugno 2003 n. 10160).

Nel caso di risoluzione conseguente ad annullamento d'ufficio, invece, il riparto dovrà avvenire sulla base del criterio ordinario della causa petendi (o petitum sostanziale): il profilo della legittimità dell'atto di ritiro, allora, apparterrà alla cognizione del giudice amministrativo; quello della sorte del contratto, invece, spetta alla giurisdizione del go.

Tuttavia, si potrà optare anche per una interpretazione estensiva del dettato dell'art. 133 comma I lett. e) del c.p.a. e così deporre a favore del radicamento della giurisdizione esclusiva del g.a. anche nelle ultime ipotesi suddette.

Legittimazione ad agire dell'ANAC

L'art. 52-ter d.l. n. 50 del 2017, introdotto dalla legge di conversione l. 21 giugno 2017, n. 96 ha immesso nell'art. 211 d.lgs. n. 50 del 2016 del Codice una disciplina “sostitutiva” delle raccomandazioni vincolanti, soppresse dal decreto correttivo n. 56 del 2017, che corrisponde a quella suggerita dal Consiglio di Stato. Questa è ispirata dall'art. 21-bis l. n. 287 del 1990, incentrato sulla legittimazione “speciale” dell'Autorità Antitrust, in materia di provvedimenti amministrativi lesivi delle norme a tutela della concorrenza, che ha superato indenne il vaglio della Corte costituzionale.

Ai sensi dell'art. 211, comma 1-ter, l'ANAC, se ritiene che una stazione appaltante abbia adottato un provvedimento viziato da gravi violazioni del codice, può “sollecitare” l'esercizio del potere di autotutela della stazione appaltante, entro sessanta giorni dalla notizia della violazione.

Resta da capire, tra le altre cose, se questa autotutela sollecitata dall'ANAC debba rispettare il modello generale (e, dunque, resti incardinata negli spazi della discrezionalità): la soluzione, infatti, non è scontata, in quanto la giurisprudenza formatasi sull'analogo modello che riguarda l'AGCM è giunta ad approdi diversi sulla discrezionalità dell'autotutela sollecitata.

Su questo e altri profili problematici sollevati dalla figura in commento, si rinvia alla Bussola di M. Lipari, Legittimazione processuale speciale dell'ANAC.

Casistica

È legittimo l'operato della stazione appaltante che, resasi conto del proprio errore, agisca in autotutela annullando l'aggiudicazione inizialmente disposta in favore di un'impresa e poi aggiudicando la gara ad altra impresa la cui offerta, pur essendo stata presentata nei termini alla procedura cui era stata regolarmente invitata, non era stata inizialmente valutata per mero errore burocratico della stazione appaltante (TAR Molise, sez. I, 20 marzo 2017, n. 101).

Nelle gare pubbliche, in ragione del potere di autotutela e a prescindere da un'espressa previsione del bando, alla stazione appaltante spetta la verifica della legittimità̀ delle operazioni espletate dalla commissione; conseguentemente, lì dove la stazione appaltante rilevi, in un momento successivo alla verifica eventualmente operata dalla commissione di gara, una carenza del possesso dei requisiti speciali di partecipazione prescritti, è legittima la decadenza dell'aggiudicazione (Cons. St., sez. V, 15 luglio 2013, n. 3841; TAR Lazio, Roma, sez. I, 19 marzo 2010, n. 4321).

L'amministrazione deve sempre evitare di concludere un contratto ove questo risulti in contrasto con norme imperative, deve perciò interrompere la trattativa privata avviata e deve annullare gli atti della gara ad evidenza pubblica (Cons. Stato, sez. VI, 3 febbraio 2011 n. 780).

È legittimo l'operato dell'amministrazione appaltante che, ancorché fosse intervenuto il provvedimento di aggiudicazione definitiva dell'affidamento, ha nondimeno ritenuto di dover procedere in autotutela alla ulteriore verifica della sussistenza in capo all'aggiudicataria dei requisiti di partecipazione alla gara previsti dalla lex specialis, ciò essendo del resto pienamente coerente con la tutela dell'interesse pubblico che osta all'affidamento di pubblici appalti a soggetti che non abbiano i requisiti previsti dalla legge o dalla stessa lex specialis della gara (Cons. St., sez. V, 14 giugno 2017 n. 2891).

Allorquando il nuovo provvedimento, che sfocia nella caducazione di quello originario si sia limitato piuttosto a riscontrare, senza esercitare alcun potere discrezionale e sulla base di inequivoci elementi di fatto emersi successivamente, l'originaria o comunque la pregressa carenza dei presupposti di partecipazione alla gara, non si è in realtà in presenza di un vero e proprio nuovo procedimento, del tutto autonomo e separato da quello originario, bensì di una semplice ulteriore fase di quello, al quale il nuovo è indissolubilmente legato in modo diretto ed immediato (Cons. St., sez. V, 22 maggio 2015, n. 2570; TAR Veneto, sez. I, 18 luglio 2017, n. 684).

L'erronea richiesta di documenti da parte della stazione appaltante ex art. 48, comma 2, al soggetto che era stato escluso dalla gara, non può essere intesa come un implicito ritiro in autotutela (annullamento) di una precedente esclusione (TAR Lombardia, Milano, 20 gennaio 2017, n. 145).

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