Procedimento ex art. 250 c.c.: profili controversi di rito e di meritoFonte: Cod. Civ. Articolo 250
10 Maggio 2018
Una premessa
Come è noto, la nascita da parte di donna non coniugata è inidonea di per sé ad istituire un rapporto giuridico tra il nato ed i genitori; occorre infatti un atto di riconoscimento da parte di ciascuno di essi (e, dunque, anche da parte della madre, la quale, al pari di quanto potrebbe avvenire se fosse sposata, avrebbe anche diritto di non essere menzionata nell'atto di nascita, optando per il c.d. “parto anonimo”). Il riconoscimento può essere effettuato da uno solo, ovvero da entrambi i genitori, insieme o separatamente, nei modi previsti dall'art. 254 c.c., ancorché entrambi fossero stati legati da un vincolo matrimoniale con altra persona all'epoca del concepimento. É necessario l'assenso del figlio al riconoscimento, se questi abbia già compiuto i 14 anni di età (inizialmente 16); ove il figlio, di età inferiore, sia già stato riconosciuto da uno dei genitori, il secondo riconoscimento, da parte dell'altro, presuppone il consenso del primo; tale consenso non può essere rifiutato se risponde all'interesse del figlio. Il procedimento ex art. 250 c.c.
L'art. 250 c.c., ove è disciplinato il riconoscimento del figlio, ha subito rilevanti modifiche a seguito della l. n. 219/2012 che ha istituito uno status unico di figlio, superando le discriminazioni che ancora esistevano tra filiazione legittima e filiazione naturale. In oggi, con riferimento alle modalità di costituzione dello status, si distingue infatti tra filiazione nata nel (ovvero fuori del) matrimonio, che non rappresenta più titolo premiale di attribuzione della legittimità alla prole. Se il rifiuto da parte del figlio ultraquattordicenne ad esprimere il suo assenso da parte del “secondo” genitore non può essere, di regola, in alcun modo superato (con ciò riconoscendosi un ampio grado di autonomia in relazione a profili personalissimi anche a chi non ha ancora la piena capacità di agire), altrettanto non può dirsi per il mancato consenso da parte del genitore che, per primo, ha provveduto al riconoscimento. Quel genitore ha infatti un potere da esercitarsi nell'interesse esclusivo del figlio minore, come tale sindacabile in sede giudiziale. L'art. 250 comma 4 c.c. prevede che, in caso di rifiuto del consenso, il genitore che intende comunque riconoscere il figlio (nella prassi, per lo più chi si afferma padre), può chiedere una sentenza che tenga luogo del consenso mancante. Inizialmente la competenza era del tribunale per i minorenni, ma l'attuale testo dell'art. 38 disp. att. c.c. (come introdotto con la cit. l. n. 219/2012) non contempla più il procedimento in questione tra quelli di competenza del giudice minorile, con la conseguente attribuzione al tribunale ordinario. Come è noto, l'art. 38 cit. prevede che «fermo restando quanto previsto per le azioni di stato», il tribunale competente provvede in ogni caso in camera di consiglio. Il procedimento di cui art. 250 comma 4 c.c. non riguarda un'azione di stato in senso stretto; ne consegue l'applicazione del rito camerale di cui agli artt. 737 ss. c.p.c., il che non è certo incompatibile con la forma della pronuncia con cui il procedimento si definisce (sentenza e non decreto). Di non agevole lettura è peraltro la struttura del procedimento, che presenta elementi variegati: il ricorso introduttivo deve essere notificato, nel termine fissato dal giudice insieme con la fissazione di udienza, al genitore che ha già provveduto al riconoscimento, con l'avviso che questi può proporre opposizione nel termine di trenta giorni dalla notifica. In difetto di opposizione, il giudice deciderà sulla richiesta con sentenza che tiene luogo del consenso mancante; l'opposizione, se proposta, dovrà essere formalizzata con una memoria di costituzione, con cui esporre le ragioni del mancato consenso al riconoscimento (insieme con le presa di posizione in ordine alla ulteriori richieste del ricorrente). Poiché al minore va riconosciuta la qualità di parte in senso sostanziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale. Il modello bifasico e la natura autorizzativa della decisione
La precedente formulazione dell'art. 250 comma 4 c.c. era molto più semplificata, attribuendo al giudice (il TM) solo il potere di emettere una sentenza sostituiva del consenso del primo genitore. In mancanza di accordo, dopo il riconoscimento, si sarebbe dovuto adire nuovamente il giudice per tutte le altre questioni conseguenziali (cognome, tipologia e modalità di affidamento, contributo al mantenimento del figlio). La riforma del 2012, in nome dei principi della concentrazione delle tutele giurisdizionali e di una più intensa tutela del minore, dispone che, nel corso del procedimento (una volta intervenuta l'opposizione, purché la stessa non sia palesemente fondata) il giudice possa assumere provvedimenti provvisori per instaurare la relazione; con la sentenza che accoglie la domanda del ricorrente, il giudice poi può disporre quanto ad affidamento, mantenimento e cognome del minore. La prassi formatasi in questi anni vede sostanzialmente due orientamenti tra loro molto diversi. Da un lato si afferma la natura bifasica del procedimento: il Tribunale deve valutare inizialmente se il secondo riconoscimento risponda o meno all'interesse del minore; in caso di risposta positiva viene resa sentenza non definitiva, esecutiva in mancanza di reclamo, con la quale il ricorrente è autorizzato a procedere al riconoscimento del figlio. Con separata ordinanza il procedimento viene rimesso sul ruolo ad un'udienza futura (davanti al Collegio, o davanti al Giudice delegato, a seconda dalla prassi dei Tribunali nella trattazione dei procedimenti in camera di consiglio) per verificare se il ricorrente abbia effettivamente proceduto al riconoscimento. Solo a fronte di un riscontro positivo (da comprovarsi documentalmente), si darà ingresso alla seconda fase: il Tribunale, previa la necessaria istruttoria, deciderà con sentenza definitiva in ordine ai profili conseguenziali dello status (attribuzione del cognome, affidamento del figlio, contributo al mantenimento). Tale prassi evita il rischio di un'istruttoria a vuoto, posto che la pronuncia sui profili sopra evidenziati è “condizionata” al riconoscimento: una decisione unitaria sull'autorizzazione al riconoscimento e sugli aspetti accessori della genitorialità potrebbe indurre il ricorrente, che non fosse soddisfatto del regime stabilito dal giudice, ad astenersi dal riconoscere il figlio, attesa la natura non costitutiva, ma autorizzativa della pronuncia in punto status. Questa soluzione avrebbe anche il pregio di procrastinare l'assunzione di provvedimenti provvisori ad un momento comunque successivo all'acquisizione dello status, evitando così che l'inizio di una relazione con il genitore possa essere frustrata, da un successivo ripensamento di questi, con evidente pregiudizio di aspettative che possano essere nel frattempo insorte nel minore. Il modello or ora rappresentato, inaugurato dal Tribunale di Milano (Trib. Milano 20 gennaio 2014) è stato seguito anche da altri (Trib. Genova 13 luglio 2017 v. Riconoscimento del figlio: necessaria l'autorizzazione del Tribunale se manca il consenso della madre in ilFamiliarista.it; Trib. Forlì 26 ottobre 2015). Il modello monofasico e la natura costitutiva della decisione
In diversa prospettiva, secondo un indirizzo seguito dal Tribunale di Roma (Trib. Roma 26 maggio 2017 v. Tribunale di Roma: il riconoscimento è costituito dall'esercizio dell'azione ex art. 250 c.c. in ilFamiliarista.it) e da altre Magistrature (Trib. Prato 27 luglio 2017 v. R. Russo, Riconoscimento del figlio senza il consenso dell'altro genitore: procedimento bifasico o monofasico? in ilFamiliarista.it), si attribuisce natura unitaria al procedimento ex art. 250 c.c..; ciò nel presupposto che la sentenza resa a definizione di esso, avrebbe natura costitutiva dello status e non meramente autorizzativa. A tale conclusione si perviene osservando che la l. n. 219/2012 ha inteso eliminare ogni discriminazione fra i figli e che la diversa interpretazione continuerebbe a legittimare la supremazia della filiazione matrimoniale, lasciando arbitro il genitore, che pure abbia chiesto di procedere al riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, nell'opposizione dell'altro, a revocare la volontà di costituire lo status. Vero è peraltro che una diversità di regime è intrinseca nelle stesse circostanze della nascita, come premesso: per la donna coniugata opera di regola la presunzione di paternità in capo al marito, che non può certo trovare estensione in favore del convivente della (ovvero della persona affettivamente, o anche solo sessualmente legata alla) donna non sposata; ciò per difetto di quel dovere di fedeltà coniugale che (per quanto oggetto di dibattito in questi ultimi tempi) su cui è strutturata la presunzione di paternità. In base all'indirizzo in esame, la volontà del genitore di procedere al secondo riconoscimento è intrinseca nello stesso ricorso introduttivo del procedimento ex art. 250 c.c., quale espressione del principio di autoresponsabilità. La sentenza, che abbia ad accogliere la domanda, pur in difetto del successivo riconoscimento, è dunque idonea all'annotazione nell'atto di nascita, anche senza il conseguenziale riconoscimento, cui il genitore è stato autorizzato. In questo modo l'unica sentenza, ove di accoglimento, deve decidere non soltanto in punto status, ma pure su tutti i profili conseguenziali. Viceversa, aderendo al diverso orientamento sopra ricordato, a fronte del mancato riconoscimento, dopo l'autorizzazione giudiziale, l'altro genitore (ovvero il figlio) dovrebbe necessariamente agire con un'azione di dichiarazione giudiziale della genitorialità. Come è evidente, l'adesione ad un modello applicativo piuttosto che all'altro è denso di conseguenze pratiche di grande rilievo: se si ritiene che la proposizione del ricorso ex art. 250 c.c. manifesti l'irrevocabile volontà di effettuare il riconoscimento, il procedimento che viene così introdotto potrebbe qualificarsi come l'esercizio di un'azione di status (con la conseguenza che la fase successiva all'opposizione dovrebbe svolgersi nelle forme del rito ordinario, come previsto dall'art. 38 disp. att. c.c.). Va qui evidenziato come, a prescindere dall'indirizzo seguito, l'accoglimento della domanda ex art. 250 c.c. non è subordinata all'accertamento della veridicità del rapporto di filiazione che si vuole instaurare; in altri termini, chi si afferma genitore di un minore non può subordinare il riconoscimento stesso alla verifica giudiziale di un legame giuridico con il minore (libere ovviamente le parti, con il loro consenso, di effettuare privatamente le analisi ritenute più opportune). Le modifiche apportare all'art. 250 c.c. dalla l. n. 219/2012 hanno determinato non solo innovazioni di tipo procedimentale, ma anche una rinnovata interpretazione della norma medesima. Fino ad alcuni anni or sono si presumeva corrispondente all'interesse del minore il “secondo riconoscimento”, che poteva essere escluso soltanto in caso di inidoneità genitoriale (per la pressoché totalità delle fattispecie, del padre) o di pericolo della compromissione dello sviluppo psico-fisico del figlio in caso di riconoscimento (Cass. 11 dicembre 2013, n. 27729). Si affermava infatti che il riconoscimento del figlio “naturale” costituisse un diritto soggettivo del genitore, sacrificabile soltanto in presenza di un pericolo di danno prossimo per il minore, correlato alla semplice attribuzione della genitorialità (Cass. 3 febbraio 2011, n. 2645), come ad es. in caso di personalità altamente criminale del genitore istante (Cass. 16 novembre 2005, n.23074). L'abbassamento dell'età richiesta al figlio per manifestare il suo ineludibile consenso al riconoscimento (da sedici a quattordici anni), l'attribuzione al figlio minore della qualità di parte sostanziale del procedimento, nonché l'importanza attribuita al suo ascolto hanno indotto la giurisprudenza ad un diverso bilanciamento tra i due diritti in contrapposizione: quello del genitore al riconoscimento e quello del figlio al rispetto della sua vita privata. In altri termini, il riconoscimento deve effettivamente corrispondere all'interesse del figlio, da accertarsi in concreto (come già ebbe ad affermare una risalente decisione di legittimità: Cass. 25 maggio 1982, n. 3118), senza alcuna presunzione (Cass. 27 marzo 2017, n. 7762 v. A. Scalera, Il “secondo” riconoscimento del figlio deve essere effettivamente rispondente all'interesse del minore in ilFamiliarista.it). Nello stesso senso si è aggiunto che, nel giudizio promosso dal genitore che intenda riconoscere il figlio, deve dichiararsi cessata la materia del contendere ove il figlio stesso, nel corso del procedimento, abbia raggiunto i quattordici anni di età e si opponga al riconoscimento (Cass. 13 gennaio 2017, n. 781 v. A. Oliva, Azione di opposizione al riconoscimento del figlio e assenso del minore ultraquattordicenne in ilFamiliarista.it). A prescindere dal fatto che l'intervenuto raggiungimento dei quattordici anni impedisce di disattendere la volontà del minore, sta di fatto che, nel caso di età inferiore, sarà onere del richiedente, per vincere l'opposizione del genitore che ha già effettuato il riconoscimento, evidenziare l'interesse del minore alla bigenitorialità, nei vari aspetti in cui essa si struttura (relazionali, affettivi, ma pure patrimoniali). In questo senso nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Catania 30 novembre 2016, n. 5836 v. Riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio: solo se risponde al suo interesse in ilFamiliarista.it). |