Il soccorso dei migranti in mare. L'art. 54 c.p. e la speciale causa di giustificazione “umanitaria”

Leonardo Marino
18 Maggio 2018

Per la prima volta viene ipotizzato un reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina a carico di membri di un'organizzazione non governativa poiché è sempre stato riconosciuto lo stato di necessità nei confronti di chi opera soccorso in mare.
Abstract

Per la prima volta viene ipotizzato un reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina a carico di membri di un'organizzazione non governativa poiché è sempre stato riconosciuto lo stato di necessità nei confronti di chi opera soccorso in mare.

Se si soccorre qualcuno che è in una situazione di pericolo, il reato di favoreggiamento esiste ma non è punibile in quanto chi ha agito lo ha fatto per tutelare la vita di chi è in pericolo.

Un'interpretazione più estensiva dello stato di necessità potrebbe arrivare a coprire anche una condotta come quella denunciata dagli inquirenti a carico dei membri delle O.N.G.

Una barca o un gommone semi sgonfio, sovraccarichi di persone, anche in condizioni meteorologiche e marittime stabili, possono essere considerati insicuri perché potrebbero capovolgersi o affondare da un momento all'altro e questa condizione potrebbe determinare uno stato di necessità.

Il comma 2 dell'art. 12 T.U. 286/1998, inserisce una speciale ipotesi di causa di esclusione del reato allorquando – fuori dalle ipotesi di cui all'art. 54 c.p. – si sia in presenza di attività di soccorso e di assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato.

La lettura della norma impone all'interprete non solo di attribuire specifico significato alla espressione attività di soccorso e assistenza umanitaria,o condizioni di bisogno espressamente richiamate ma di dovere anche affrontare una serie di questioni dovendo, in particolare, valutare se: 1) il richiamo operato nella norma allo stesso art. 54 c.p. subordini l'applicazione della causa di giustificazione ai medesimi presupposti dello stato di necessità; 2) il richiamo è stato operato dal Legislatore al solo fine di individuare una norma che, per funzioni e finalità svolte nell'ordinamento giuridico, appare ad essa similare, con la conseguenza di avere introdotto una scriminante diversa da quella di cui all'art. 54 c.p. e da tale norma del tutto slegata dai suoi presupposti applicativi.

La distinzione tra lo stato di necessità di cui all'art. 54 c.p. e la scriminante umanitaria di cui all'art. 12, comma 2, T.U. 286/1998

La scriminante umanitaria contenuta nell'art. 12 T.U. 286/1998 appare del tutto differente, sia per struttura che per presupposti applicativi, rispetto alla scriminante di cui all'art. 54 c.p.

Difatti, la struttura propria della scriminante umanitaria prescinde integralmente dai presupposti previsti nell'art. 54 c.p.

Mentre nell'art. 54 c.p. la condotta dell'agente – sia quando agisca in proprio ovvero versi in una ipotesi di soccorso di necessità – è rigorosamente prevista nei suoi presupposti dalla norma, nella scriminante umanitaria di cui al secondo comma dell'art. 12 T.U. 286/1998, che pur si modella genericamente all'istituto del soccorso di necessità, le attività scriminate sono del tutto estranee ai requisiti dell'art. 54 c.p.

Ciò in quanto, ai fini dell'applicazione della scriminante umanitaria, non necessita certamente che la persona terza, verso cui viene esercitato il soccorso e l'assistenza umanitaria, versi in una situazionedi pericolo, comeinvece previsto dall'art. 54 c.p., essendo solamente necessario che il terzo soccorso versi in una condizione di bisogno.

Né, peraltro, ai fini dell'applicazione della scriminante umanitaria sono necessari i presupposti del danno grave alla persona e della attualità del pericolo in cui la stessa persona versa, così come non è richiesto lo stesso presupposto della costrizione in cui l'agente deve agire, elementi questi propri della scriminante di cui all'art. 54 c.p.

Tali considerazioni fanno, quindi, propendere per la conclusione secondo cui il richiamo operato dal secondo comma dell'art. 12 T.U. 286/1998 all'art. 54 c.p. sia del tutto inutile: difatti oltre l'ovvia circostanza che l'applicazione dell'art. 54 c.p. troverebbe applicazione a prescindere dal richiamo operato dalla norma, le due circostanze, e cioè quella prevista dall'art. 54 c.p. e la scriminante umanitaria in parola, a parte l'evocata somiglianza al soccorso di necessità, costituiscono due ipotesi del tutto distinte sia per struttura che per presupposti applicativi.

La scriminante umanitaria di cui all'art. 12, comma 2, T.U. 268/1998. L'attività di soccorso e l'attività di assistenza umanitaria

Si impone ora di individuare in cosa si concretizzi l'attività di soccorso e quella di assistenza umanitaria.

Mentre la nozione di attività di soccorso descrive una connotazione oggettiva della condotta scriminata come, ad esempio, un intervento sanitario ovvero una prestazione alimentare operata dallo straniero, il concetto di assistenza umanitaria pare che rinvii ad una prospettiva teleologica del tutto diversa dalla concreta attività materiale di soccorso dello straniero (cfr. A. CAPUTO, Diritto e procedura penale dell'immigrazione, Torino, pag. 121).

Sicché, il concetto di scopo umanitario può essere ben interpretato ricomprendendo in esso accezioni ben più ampie che ben possono ricondursi in qualsiasi attività che un uomo svolge gratuitamente a favore di un altro e che ne persegue il suo interesse.

Scopo umanitario infatti è un concetto che – seppur al limite della vaghezza – è capace di ricomprendere in sé una attività che vada ben al di là di un semplice soccorso.

Certamente la richiamata vaghezza dell'espressione non agevola la sua applicazione da parte della giurisprudenza, tant'è che una specifica ricerca operata sul punto non ha condotto a rinvenire, sia nella giurisprudenza di merito che in quella di legittimità, specifiche pronunzie idonee a indicare all'interprete la portata e i limiti dello scopo umanitario previsto dalla norma.

Nondimeno, a fronte di tale latitudine, la portata della norma parrebbe essere delimitata con la conseguente giustificazione della condotta dell'agente alle sole condotte di assistenza e soccorso.

L'operatività della scriminante umanitaria anche nei confronti delle condotte che abbiano avuto inizio in territorio non italiano

Dalla lettura del comma 2 dell'art. 12 T.U. 286/1998 sembrerebbe escludersi l'operatività della medesima scriminante umanitaria alle condotte che abbiano avuto inizio in territorio non italiano. Va ritenuto che il fondamento della medesima scriminante umanitaria sia quello di consentire il soccorso e l'assistenza a chi si trovi in una condizione di bisogno fuori dal territorio italiano e che, a seguito di una attività di soccorso e assistenza umanitaria, si verifichi l'ingresso nel territorio dello stato di cittadini extracomunitari a bordo della propria nave.

Sembra però illogico affermare da una parte la giurisdizione italiana e contestualmente negare l'operatività della scriminante per fatti posti in essere fuori dalle acque territoriali italiane.

Da ultimo comunque si segnala il decreto del 27 marzo 2018 del Gip Catania (rg Gip 2474/2018) che ha convalidato il decreto di sequestro preventivo della imbarcazione della O.N.G. Open Arms ritenendo che tale scriminante operi soltanto nei casi in cui i cittadini extracomunitari si trovino già nel territorio italiano.

Secondo il Gip catanese l'operatività della di detta scriminante viene meno quando il soccorso sia prestato ai migranti in mare.

Tuttavia, qualora i migranti versino in imminente pericolo di vita, il salvataggio può e deve essere effettuato rispettando delle precise regole che sono dettate dalle convenzioni internazionali.

Il caso “Cap Anamur” (sentenza del 7 ottobre 2009, n. 95, tribunale di Agrigento – irrevocabile. in allegato).

Il comitato denominato “Cap Anamur” è un'organizzazione tedesca con finalità di tipo umanitario fondata nel 1979.

Nell'anno 2003 il presidente dell'associazione acquistava una nave denominata anch'essa “Cap Anamur” da utilizzare per il trasporto di viveri, medicinali, attrezzatura medica e materiale vario nell'ambito dei diversi progetti umanitari.

La mattina del 12 luglio 2004 la motonave “Cap Anamur”, battente bandiera tedesca ,attraccava nel porto di Porto Empedocle (Ag).

Il presidente dell'associazione, il capitano e il primo ufficiale della nave venivano tratti in arresto per il delitto di cui all'art. 12 del testo unico immigrazione per la seguente imputazione: «al fine di procurarsi un profitto sia diretto che indiretto – anche consistito nella pubblicità e risonanza internazionale ottenuta ed inoltre un profitto relativo alla vendita a terzi delle immagini e delle informazioni relative ai fatti per cui è processo […] favorivano l'ingresso clandestino di 37 cittadini extracomunitari».

Dopo un lungo processo il tribunale di Agrigento ha assolto tutti gli imputati perché il fatto non costituisce reato ai sensi dell'art. 530, comma 3, c.p.p., ritenendo che il natante soccorso si trovava in difficoltà e che le persone a bordo del gommone correvano un grave ed evidente pericolo.

È stata riconosciuta la scriminante dell'adempimento di un dovere imposta da una norma di diritto internazionale.

In particolare, il tribunale ha ritenuto che è da ritenersi certo che il capitano della nave – mediante il trasbordo degli occupanti il gommone sulla motonave “Cap Anamur” - effettuasse un'operazione di soccorso in mare con la conseguenza che le persone tratte in salvo, ancora prima di essere migranti o richiedenti asilo, sono in primo luogo naufraghi.

È stata richiamata la normativa internazionale di riferimento partendo dalla convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare e in particolare l'art. 98 che impone al comandante di una nave di prestare assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare nonché di recarsi il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà.

Secondo il tribunale, il capitano e il primo ufficiale decidevano di non trasportare i naufraghi/migranti in Libia in quanto, pur essendo il posto più vicino al punto di salvataggio, ritenevano che in quel posto non fossero garantiti i diritti fondamentali della persona umana.

Ai migranti doveva essere garantito il diritto di essere sottoposti alle verifiche minime necessarie ad accertare anche a seguito della presentazione delle domande di asilo politico l'esistenza eventuale di presupposti che avrebbero impedito il respingimento e garantito protezione nel rispetto delle norme del diritto internazionale (art. 33 Convenzione di Ginevra sullo status rifugiati).

Il caso dei sette pescatori tunisini (sentenza del tribunale di Agrigento del 17 novembre 2009, riformata dalla Sentenza della Corte di appello di Palermo, Sez. III, del 21 settembre 2011 n. 2932/2011 irrevocabile il 4 febbraio 2012).

In data 8 agosto 2007, sette pescatori tunisini venivano arrestati a largo di Lampedusa in quanto indagati del reato di cui agli artt. 110 e 12, commi 3 e 3-bis del d.lgs. 286/1998.

L'arresto veniva disposto benché, con fax inviato lo stesso 8 agosto 2007 da M.R.C.C. Tunisi a M.R.C.C. Roma e a M.R.C.C. Malta, le autorità italiane e maltesi venivano informate che i due pescherecci tunisini Mohamed El Hedi 768/MO e Morthada 865/MO avevano tratto in salvo 44 immigrati da un gommone che affondava nella posizione 34° 58' N, 012° 56' E, e che uno degli immigrati era in cattive condizioni di salute.

Peraltro, con tale comunicazione, si invitavano le autorità italiane e maltesi ad intervenire in modo dovuto (appropriate action).

Non solo ma alle ore 16.29 dello stesso 8 agosto 2007, MRCC Roma ordinava a MRSC Palermo a UCG Lampedusa e a Comsquaguardcost sette Lampedusa di prestare assistenza e soccorso in favore di una persona recuperata in mare dai motopesca tunisini denominati Mohamed El Hedi e Morthada nonché in favore di un natante alla deriva con circa 40 migranti a bordo.

Ignorando, dunque, tali dati che pure facevano parte del patrimonio conoscitivo dell'organo inquirente, l'arresto veniva invece disposto sulla considerazione che gli indagati non potessero considerarsi pescatori in quanto a bordo dei due pescherecci «non vi era traccia né di pescato, né di esche, né di reti o altri attrezzi per la pesca».

Prendeva così corpo quella aberrante tesi secondo la quale gli imputati, lungi dall'essere dei pescatori tunisini, avrebbero inscenato il soccorso marittimo e sarebbero giunti fino a Lampedusa con l'intento di consentire l'ingresso in Italia dei 44 migranti.

Peraltro, va precisato che a bordo dei pescherecci venivano ritrovati i documenti professionali dei pescatori e che, per tutte le fasi di avvicinamento a Lampedusa, i comandanti dei pescherecci avevano cercato di rappresentare come a bordo vi fossero persone bisognose di cure e, addirittura, in pericolo di vita.

Condizioni puntualmente confermate dall'immediato ricovero che i sanitari presenti a Lampedusa disporranno, lo stesso 8 agosto 2007, nei confronti di una donna incinta (ottavo mese) e di un bambino disabile.

Peraltro, quasi nell'immediatezza dei fatti, due dei migranti soccorsi, sentiti a sommarie informazioni testimoniali, confermavano pienamente la versione degli imputati.

Ed ancora, lo stesso giudice della libertà aggiungeva che «anche logicamente la tesi del Capitano del recupero in mare dei migranti risulta verosimile in considerazione dell'obiettività delle cattive condizioni del mare, tali comunque da mettere in crisi la navigazione di un gommone stracolmo del suo sfortunato “carico umano” nonché in considerazione della circostanza che, preventivamente, uno dei pescherecci aveva lanciato l'allarme proprio all'Ufficio circ.le marittimo di Lampedusa. Atipico, infine, risulterebbe, sul piano strettamente logico, l'uso di un peschereccio efficiente per il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina al fine di profitto, essendo purtroppo, per fatto notorio, utilizzate di solito a tale scopo, imbarcazioni meno sicure dal punto di vista della navigazione, ma più economiche, così da ridimensionarsi il peso della perdita, nell'evenienza di sequestro e confisca da parte dei paesi di destinazione».

Celebratosi, infine, il processo per direttissima, dopo oltre due anni di processo e 21 udienze dibattimentali, con la sentenza n. 1107, il tribunale di Agrigento, in composizione collegiale, in data 17 novembre 2009, riconoscendo come gli imputati dovessero considerarsi dei pescatori e come avessero effettivamente tratto in salvo 44 migranti, assolveva gli imputati dal reato per il quale erano stati arrestati perché il fatto non costituisce reato per il delitto di cui all'art. 12 T.U Immigrazione.

Escludendo comunque la scriminante dello stato di necessità, ex art. 54 c.p. perché l'emergenza sanitaria non sussisteva ed era stata esclusa dall'intervento del medico.

Nel corso del processo veniva, però, effettuata una nuova contestazione ai sensi dell'art. 516 c.p.p. (fatto diverso) del delitto previsto dal codice della navigazione ossia della resistenza a nave guerra e veniva irrogata la condanna a due anni e sei mesi ai due comandanti dei pescherecci.

La corte di appello di Palermo ha riformato la sentenza di primo grado per l'imputazione residua della resistenza della nave da guerra ex art. 1100, ritenendo, invece, operante la scriminante dello stato di necessità: «due imputati a bordo dei loro pescherecci, trovatisi nella necessità di salvare da un pericolo di danno grave alla persona una donna in avanzato stato di gravidanza che aveva fortissimi dolori all'addome e non si reggeva in piedi ed un bambino di quattro anni con una tetraparesi, hanno violato l'ordine di fermarsi e di non entrare in acque territoriali, impartito da navi da guerra italiane, per raggiungere al più presto il vicino porto di Lampedusa». (sentenza della Corte di appello di Palermo, sez. III, n. 2932/2011).

In conclusione

Si racconta che Agostino, vescovo di Ippona, camminando sulla riva del mare immerso nei suoi pensieri filosofici, vide un bambino che con una conchiglia in mano attingeva l'acqua del mare e la trasportava sulla sabbia per riempire una piccola buca.

Alla domanda del Santo su cosa stesse facendo il bambino rispose: “voglio svuotare il mare e metterlo in questa buca”; l'aneddoto prosegue con un profondo insegnamento teologico.

Ma un'altra conchiglia moderna, alcune O.N.G., nello stesso mare di Agostino tra la Libia e l'Italia hanno voluto raccogliere e accogliere non già le gocce di quel mare ma bimbi, donne e uomini, con il sogno forse di svuotare quel mare dalle lacrime di naufraghi disidratati tra tanti annegati e morti galleggianti tra le onde sempre più superiori e numerose alle forze dell' equipaggio delle navi che dopo le numerose stragi del mediterraneo decisero che non potevano più stare a guardare.

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