Lavoro a tempo determinato

Francesco Baldi
28 Maggio 2018

Scheda in fase di aggiornamento

Con il contratto di lavoro a tempo determinato (a termine) le parti decidono di fissare un termine di durata al medesimo contratto di lavoro subordinato in deroga alla più comune forma del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Inquadramento dell'istituto

Il contratto di lavoro a termine è una tipologia di contratto di lavoro cui si applica integralmente la disciplina del rapporto di lavoro subordinato e che si caratterizza per la predeterminazione iniziale di un termine fino al quale (dies ad quem) il rapporto produrrà effetti.

La disciplina del contratto a termine è stata spesso oggetto di modifiche e correttivi nell'ambito delle sistematiche riforme del nostro diritto del lavoro, poiché è in grado di adattarsi alle esigenze di un contesto socio-economico in evoluzione, che negli anni ha decretato la progressiva erosione del contratto di lavoro a tempo indeterminato, come rafforzato dalle incisive tutele dell'art. 18, st. lav. (oggi divenuta una norma residuale) e la ricerca di una maggiore flessibilità di impiego.

In tale ottica, l'iniziale diffidenza del legislatore - da ricollegarsi al timore della precarizzazione dell'occupazione, ritenuta “normalmente a tempo indeterminato” (l'art. 1, r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, convertito in l. 18 marzo 1926, n. 562) - è stata soppiantata, attraverso un processo lungo e articolato, da una disciplina più snella, che ha condotto, (sino al recente intervento legislativo noto come “decreto dignità” ) ad una graduale deregolamentazione.

In tal modo, il contratto a termine, assicurava importanti tutele al lavoratore e garantiva alla imprese una certa flessibilità nella gestione dei rapporti, potendo essere utilizzato, senza particolari formalità, per soddisfare esigenze occupazionali limitate nel tempo, ovvero, come una sorta di “patto di prova lungo”, al fine di verificare le attitudini del lavoratore in funzione di uno stabile inserimento.

Come accennato, tuttavia il d.l. 12 luglio 2018, n. 87 (conv. con l. 9 agosto 2018, n. 96) si pone in netta discontinuità con le precedenti riforme, dato che ha limitato l'utilizzo del contratto a termine, ritenuto non più come uno strumento di flessibilità bensì di precarietà del lavoro.

Certo è che, relegando il contratto a termine a mera eccezione rispetto al contratto a tempo indeterminato (in un contesto socio economico che lascia intravedere solo timidi segnali di ripresa) si preclude alle imprese (non sempre in grado di programmare le proprie necessità occupazionali nel lungo periodo) l'utilizzo di uno strumento fondamentale, e ciò non potrà non avere ripercussioni anche sui dati occupazionali.

Non solo, la lotta alla precarietà potrebbe risultare inefficace anche se si considera che i diritti del lavoratore a termine, in caso di recesso datoriale, sono maggiormente tutelati rispetto alle cd. “tutele crescenti” per i rapporti a tempo indeterminato.

Proprio per adeguare la rigida disciplina alle esigenze produttive dei vari settori, allora, potrà assumere un ruolo fondamentale la contrattazione collettiva di secondo livello, anche “di prossimità” (art. 8, l. n. 138 del 2011, conv. in l. n. 148 del 2011), pur con le difficoltà legate alla mancanza di regole chiare e condivise in materia di rappresentatività sindacale.

Inquadramento normativo

Come sopra ricordato, il legislatore del 2014 aveva modificato integralmente il contratto di lavoro a termine, certamente semplificando una regolamentazione che, essendo il prodotto di una progressiva (ma disomogenea) stratificazione di norme, aveva creato notevoli problematiche applicative, da cui era scaturito un contenzioso giudiziario rilevante, in particolare legato alla corretta determinazione delle causali giustificative.

La prima disciplina organica, risalente ad una fase storica caratterizzata da un'imponente industrializzazione e finalizzata ad impedirne un utilizzo fraudolento in pregiudizio dei rapporti stabili, è avvenuta con la l. 18 aprile 1962, n. 230, che ha previsto un numerus clausus di ipotesi per la valida apposizione del termine.

Già a partire dalla seconda metà degli anni 80, tuttavia, a causa del mutamento della situazione economica e, quindi, delle diverse esigenze aziendali anche in materia di lavoro, il legislatore è intervenuto per rendere più flessibile il rapporto a termine, delegando alla contrattazione collettiva la facoltà di introdurre nuove ipotesi aventi il solo limite del numero percentuale rispetto alle assunzioni a tempo indeterminato (dall'art. 23, l. 28 febbraio 1987, n. 56).

Il contratto a termine, quindi, è stato utilizzato come strumento di politica del lavoro, funzionale ad esigenze occupazionali temporanee, ovvero relative a specifici settori produttivi. Tale evoluzione è proseguita anche con il d.lgs. n. 368 del 2001 (esecuzione della legge delega 29 dicembre 2000 n. 422 ed attuazione della direttiva comunitaria 1999/70/CE) che ha ridefinito l'intera disciplina, abrogando tutte le precedenti norme in materia.

Il contratto a termine, allora, pur rimanendo un'eccezione alla “regola” – formalmente rappresentata dal contratto sine die (comma “01” d.lgs. n. 368 del 2001, l. 24 dicembre 2007, n. 247), poteva essere utilizzato in maniera più estesa, poiché subordinato alla presenza di ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive.

La legittimità del termine, quindi, non era più legata a fattispecie tassativamente previste ma a ragioni organizzative modulabili in relazione alle esigenze aziendali.

Il legislatore, poi, al fine di rimediare all'eccessivo pregiudizio determinato dalle lungaggini dei procedimenti giudiziali instaurati in seguito all'impugnazione dei contratti a termine, è intervenuto (con il cd. “Collegato lavoro” -l. n. 183 del 2010) anche da un punto di vista processuale e sanzionatorio, prevedendo, in aggiunta alla trasformazione del contratto, un'indennità onnicomprensiva predeterminata nonché un termine di decadenza per impugnare la violazione.

La ricerca di una maggiore flessibilità nell'utilizzo del contratto a termine, sotto la spinta della recente crisi economico-finanziaria, ha avuto un impulso fondamentale con la cd. “Riforma Fornero” (l. 28 giugno 2012, n. 92) che ha introdotto (al comma 1-bis, art. 1, d.lgs. n. 368 del 2001) la possibilità di stipulare contratti a termine cd. “acausali”, ovvero senza necessità di indicare alcuna ragione, seppur con le limitazioni ricollegate alla prima stipula e una durata non superiore a 12 mesi senza possibilità di proroga, e riservando ancora una volta ai contratti collettivi ampie facoltà di deroga alla disciplina legislativa.

Tale intervento ha rappresentato un primo tentativo per superare le numerose problematiche sorte in ordine alla legittima apposizione delle causali. Lo scopo del legislatore era anche quello di favorire forme di impiego che, seppur circoscritte nel tempo, potevano garantire le maggiori tutele al lavoratore, e, in ogni caso, favorire una stabile occupazione (in tal senso va ricordata la possibilità di recupero del contributo addizionale pari all'1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali, in caso di trasformazione del rapporto).

Con la l. n. 92 del 2012, quindi, il legislatore ha sperimentato una (limitata) apertura verso ipotesi di deroga all'utilizzo delle causali. Certamente, però, proprio il persistere di rigide causali oggettive e l'incertezza applicativa nell'esperienza giurisprudenziale aveva determinato un notevole contenzioso sul contratto a termine.

In continuità con quanto sopra, l'intervento legislativo di riforma del 2014 (d.l. n. 34 del 2014, c.d. “Decreto Poletti”, convertito in l. n. 78 del 2014, ovvero il primo atto della complessa riforma del nostro diritto del lavoro nota come “Jobs Act), era intervenuto in maniera incisiva, generalizzando la facoltà di omettere una causa giustificativa del termine (non solo, quindi, in caso di primo rapporto e per le ipotesi individuate dai Contratti Collettivi) e rendendo l'acausalità un elemento “naturale” del contratto.

In tal modo il contratto a termine costituiva uno strumento importante nell'attuazione di una maggiore flessibilità in entrata, finalizzata a favorire un incremento occupazionale ed in grado di rispondere alle attuali esigenze del mercato.

La riforma, inoltre, indubbiamente semplificava la gestione del rapporto e cancellava qualunque incertezza applicativa, in quanto legittimava l'apposizione del termine al mero rispetto di una quota dell'organico aziendale.

Disciplina attuale

La disciplina del contratto a tempo determinato è stata modificata dal l.n. 96 del 9 agosto 2018, di conversione, con modifiche, del d.l.n. 87 del 12 luglio 2018, con disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese.

La riforma ha inciso in maniera sostanziale su molti aspetti dell'istituto, in particolare:

a) reintroducendo le causali giustificative;

b) riducendo la durata massina del rapporto (da 36 a 24 mesi);

c) riducendo il numero massimo di proroghe (da 5 a 4), il tutto a pena di trasformazione del rapporto a tempo indeterminato.

Un'incidenza minore nella disciplina del contratto, hanno altri ritocchi, pur rilevanti, della riforma, quali: la maggiorazione contributiva in caso di rinnovo e l'estensione del termine di decadenza per l'impugnazione.

Il legislatore, quindi, lungi dal considerare il contratto a termine come uno strumento di politica del lavoro, ha inteso limitarne drasticamente l'utilizzo, poiché ritenuto una delle cause di precarizzazione dei rapporti di lavoro.

Regime transitorio

La riforma ha determinato difficolta di natura applicativa in merito alle causali ed alla durata massima del rapporto, anche per il susseguirsi, a breve distanza di tempo, di due differenti regolamentazioni: l'art.1, comma 2, d.l.n. 87 del 2018, entrato in vigore il 14 luglio, e la sua riformulazione di cui alla legge di conversione n. 96 del 2018, entrata in vigore il 12 agosto u.s. Più in particolare, con la citata legge di conversione, il legislatore ha introdotto un regime transitorio che ha dato origine a diverse discipline, legate alla data della stipulazione del contratto ovvero delle proroghe e rinnovi.

La prima ipotesi si riferisce ai contratti a termine stipulati prima del 14 luglio 2018. In tal caso non si pongono particolari problemi dato che, sarà integralmente applicabile la normativa previgente (d.lgs. n. 81 del 2015 e, quindi, acausalità e durata massima di 36 mesi) anche per ciò che concerne proroghe e rinnovi degli stessi, con il limite, però, previsto dalla legge di conversione di cui al periodo transitorio. Ciò significa che, per le proroghe o rinnovi sottoscritti prima del 31 ottobre 2018, non valgono le limitazioni di cui alla riforma, e ciò anche se la durata complessiva del rapporto fosse superiore alla data del 31 ottobre 2018. Al contrario, se le proroghe o rinnovi fossero sottoscritti dopo il 31 ottobre, sarebbero sottoposte al vincolo di causale e della durata massima di 24 mesi. Il secondo regime si riferisce ai contratti stipulati dopo il 14 luglio 2018. In tal caso trova applicazione la normativa restrittiva di cui al del d.l. n. 87 del 2018 (Decreto dignità) che riguarda anche le proroghe e rinnovi degli stessi contratti. Qualche interprete, in verità, ha sostenuto che la vecchia disciplina si applicherebbe alle proroghe e rinnovi sottoscritti nel periodo intermedio (12 agosto/ 31 ottobre 2018, ovvero tra l'entrata in vigore della legge di conversione e la cessazione e del periodo transitorio). In attesa di chiarimenti da parte degli organi deputati, tuttavia, deve ritenersi che il regime restrittivo sia applicabile anche a tale fattispecie. Infine, per i contratti sottoscritti dal 1 novembre 2018 si applicherà integralmente la disciplina di cui alla l. n. 96 del 2018.

Campo di applicazione ed eccezioni

L'utilizzo del contratto a termine è consentito, in generale, per qualunque datore di lavoro, e per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione.

Al lavoratore a termine spetta il medesimo trattamento economico normativo (salvo incompatibilità legata alla durata del rapporto - es: in materia di licenziamenti) previsto per il lavoratore a tempo indeterminato inquadrato nello stesso livello, ivi compreso il diritto a ricevere una formazione adeguata alle caratteristiche delle mansioni assegnate (art. 26, d.lgs. n. 81 del 2015).

A fronte di ciò, tuttavia, la legge prevede numerose eccezioni

In primo luogo, ci sono fattispecie (ex art. 20, comma 2, d.lgs. n. 81 del 2015), in cui la stipula del contratto a termine è vietato, quali:

A) sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero (cd. Crumiraggio esterno. Le ragioni del divieto, in tale fattispecie sono ricollegate al pregiudizio al diritto di sciopero qualora venisse annullato il “danno alla produzione” che ne rappresenta la forza persuasiva nei confronti della parte datoriale).

B) presso unità produttive nelle quali si è proceduto, nei sei mesi anteriori, a licenziamenti collettivi che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni ovvero nelle quali siano operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell'orario in regime di cassa integrazione guadagni (in tal caso il legislatore vuole prevenire comportamenti fraudolenti in presenza interventi di sostegno, a fronte di una situazione di crisi aziendale, con sospensione o riduzione di orario di lavoro, pur indicando, in maniera non sempre coerente, specifiche eccezioni, quali: la necessità di sostituzione di lavoratori assenti ovvero durata iniziale non superiore a tre mesi).

C) da parte di datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi (in tale fattispecie non si configurano criticità particolari riconducibili all'utilizzo del contratto a termine, ma si vuole vuole richiamare l'attenzione delle imprese in ordine all'adempimento degli obblighi in materia di sicurezza). Nel caso di violazione dei suddetti divieti, la sanzione è quella della trasformazione in contratto a tempo indeterminato (art. 20, comma 2, d.lgs. n. 81 del 2015).

Altre specifiche ipotesi di esclusione, poiché già regolamentate da leggi speciali, sono individuate dall'art. 29,d.lgs. n. 81 del 2015, tra le quali vanno menzionate: i rapporti a contenuto formativo (es: tirocinio o stage, in cui un temine di durata è connaturale alla loro stessa funzione); i contratti a termine in agricoltura (soggetta ad un'apposita regolamentazione legata a ragioni di stagionalità che rappresenta una peculiarità strutturale del lavoro in agricoltura e induce a non considerare il lavoro a termine come mera eccezione rispetto al lavoro a tempo indeterminato - Cass., sez. un., 1997, n. 265); i rapporti per l'esecuzione di speciali servizi non superiori a tre giorni, nel settore del turismo e dei pubblici esercizi; il rapporto dirigenziale (in cui le ragioni di una specifica regolamentazione sono da ravvisare nelle peculiari caratteristiche della posizione che il dirigente ricopre).

In evidenza: Cass., sez. lav., 10 luglio 2017, n. 17010

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 17010 del 2017, si è espressa sulla compatibilità dei rinnovi contrattuali dei contratti dei dirigenti a tempo determinato rispetto alle disposizioni comunitarie che vietano l'abuso della successione nel tempo dei contratti stabilendo che: la disciplina speciale dettata per i dirigenti prevede un limite di durata massima in cinque anni (art. 10, d.lgs. n. 368 del 2001); la durata massima si riferisce al singolo contratto non potendo cumulare eventuali proroghe o rinnovi; in caso di contratto di durata superiore al triennio il dirigente può recedere unilateralmente con preavviso; nessuna sanzione è applicabile al datore di lavoro nel caso in cui il contratto ecceda i cinque anni, in quanto non potrebbe mai operare la sua conversione in un contratto a tempo indeterminato.

Ulteriori deroghe sono previste per il personale artistico e tecnico delle fondazioni di produzione musicale (in cui il rapporto di lavoro è legato a ragioni di stagionalità, e in particolare, agli eventi periodicamente programmati nell'ambito della “stagione teatrale”), e per l'assunzione del lavoratore disabile.

Le causali giustificative

L'aspetto più significativo della recente riforma, concerne l'obbligatorietà di giustificare l'apposizione del termine per i rapporti di durata superiore a 12 mesi, a pena di conversione a tempo indeterminato.

Più in particolare, la nuova disciplina prevede la possibilità di stipulare liberamente, e senza indicazione delle “causali”, solo un primo contratto a tempo determinato di durata non superiore a dodici mesi o venga prorogato entro tale termine.

Esempio: se il contratto ha una durata di 6 mesi, non c'è l'obbligatorietà della causale. Non sarà inoltre obblgatoria l'indicazione della causale se il datore di lavoro proroghi lo stesso contratto per altri 6 mesi, sino al limite di durata di 12 mesi complessivi.

Nel caso che il contratto abbia una durata superiore a 12 mesi ovvero, seppur di durata iniziale inferiore, venga rinnovato o prorogato in modo dal superare suddetto limite.

Esempio: se il contratto ha una durata di 6 mesi, non c'è l'obbligatorietà della causale. Se viene prorogato di 7 mesi (quindi la durata complessiva supera i 12 mesi) la proroga deve indicare la causale.)

il datore di lavoro dovrà indicare specifiche ragioni relative a:

- Esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività del datore di lavoro;

- Esigenze sostitutive di altri lavoratori,

- Esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell'attività ordinaria del datore di lavoro.

Suddette causali, riecheggiano la precedente disciplina (art. 1 comma 1, d.lgs. n. 368 del 2001) ma risultano, indubbiamente, più restrittive e specifiche. Del resto, la ratio complessiva del provvedimento non lascerebbe margini per interpretazioni estensive.

In particolare la previsione di “esigenze straordinarie” rispetto alla normale attività, non legittimerebbe la stipula di contratti a termine per far fronte ai periodici picchi di attività non strettamente legati a quelle esigenze di stagionalità previste dalla legge (d.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525) ovvero dai contratti collettivi. Il datore di lavoro, inoltre, ha l'onere di dimostrare tale “straordinarietà”, eventualmente anche mediante l'assegnazione a mansioni diverse rispetto a quelle dei lavoratori già in forza.

Non minori incertezze, posso derivare dall'esatta qualificazione della locuzione incrementi “temporanei, significativi e non programmabili” (requisiti da intendersi non alternativi bensì concomitanti), che escluderebbe l'utilizzazione del contratto a termine per tutte quelle esigenze occupazionali limitate nel tempo, determinate da precise scelte di carattere gestionale o attività programmate. Rimarrebbero, quindi, fuori, in mancanza di previsione dei contratti collettivi, gli aumenti di attività collegati ai periodi di maggiore affluenza di clientela e, più in generale, di intensificazione dell'attività produttiva che si verifica con una certa periodicità.

Restano esclusi dal campo di applicazione delle causali, i rinnovi e le proroghe di contratti a termine legati ad attività stagionali (da intendersi le fattispecie contemplate nel d.P.R.n. 1525 del 1963 ovvero individuate dai contratti collettivi) ovvero per il personale artistico e tecnico delle Fondazioni di produzione musicale e le fattispecie previste dall'art. 29, d.lgs. n. 81 del 2015, nonché alle “start-up innovative” previste dall'art. 25, d.l. n. 179 del 2012, conv., con modif., dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, per il periodo di quattro anni (o inferiore per quelle già operative) dalla loro costituzione.

Il termine e la durata massima del rapporto

Il termine deve risultare, direttamente o indirettamente, dall'atto scritto e potrà riferirsi ad una data specifica (dies certus an et certus quando) ovvero legato ad un evento futuro, certo, ma non indicato puntualmente (dies certus an, incertus quando), si parla in tal caso di termine elastico o mobile (es: rientro della lavoratrice per maternità, ovvero del lavoratore in malattia che prolunghi la propria assenza inviando ulteriori certificati medici).

La valida apposizione di un termine indicato in forma scritta costituisce un elemento essenziale per la configurazione del rapporto a tempo determinato, per cui, in mancanza, il contratto sarà affetto da nullità parziale, limitatamente alla clausola relativa al termine, ed il rapporto si considera a tempi indeterminato.

La forma scritta, invece, non è richiesta per le ipotesi residuali dei rapporti di durata inferiore a 12 giorni.

Il legislatore (comma 2 dell'art. 19, dd.lgs. n. 81 del 2015, così come modificato dal comma 1 dell'art.1, l. n. 96 del 2018) ha significativamente ridotto i tempi di durata massima del rapporto a termine, che non può eccedere il limite di 24 mesi, comprensivo di proroghe e rinnovi (a fronte dei 36 mesi previsti dalla vecchia disciplina e, mai intaccati dagli interventi di riforma precedenti). I contratti collettivi (nazionali, territoriali o aziendali) sottoscritti dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero dalle loro rappresentanze aziendali (RSA o RSU ove presenti), possano prevedere una durata massima diversa. (art. 51, d.lgs. n. 81 del 2015).

Al raggiungimento del termine il contratto si risolve automaticamente, ma, soprattutto nei casi di termine mobile, si ritiene opportuno l'invio di una comunicazione preventiva.

Il recesso anticipato di ciascuna parte, pertanto, è consentito solo in presenza di una giusta causa, fatto salvo il diritto di richiedere il risarcimento del danno.

In evidenza: Cass., sez. lav., 22 agosto 2016, n. 17240

Con la sentenza n. 17240 del 22 agosto 2016, la Corte di Cassazione ha precisato che nell'ipotesi di licenziamento per giusta causa, poi rilevatasi insussistente, di un lavoratore assunto con contratto a tempo determinato, l'illegittimo recesso non comporta, sotto il profilo sanzionatorio, la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. Conseguentemente è inapplicabile la disciplina in tema di licenziamenti dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato con relative tutele.

Nel caso in cui il limite di 24 mesi venga superato, il rapporto si trasforma a tempo indeterminato a far data dal superamento.

Raggiunto il termine di 24 mesi, tuttavia, un ulteriore contratto a tempo determinato tra le parti può essere stipulato solo presso l'ITL, competente per territorio, e per la durata massima di 12 mesi.

In caso di violazione di tale previsione, la sanzione è la trasformazione in contratto a tempo indeterminato dalla stipula del contratto in deroga.

Con riferimento al limite di durata massima dei 24 mesi, vanno menzionate specifiche eccezioni relative a:

a) le attività stagionali sono individuate da un decreto del Ministero del lavoro nonché nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi (anche quelli stipulati sotto la vigenza del d.lgs. n. 368 del 2001). Nelle more dell'adozione del decreto ministeriale continua a trovare applicazione il d.P.R. n. 1525 del 1963.

In evidenza: Ministero del lavoro e delle politiche sociali – risposta Interpello n. 15 del 2016

“In risposta al secondo quesito posto, va altresì chiarito che in base alla formulazione letterale dell'art. 19, comma 2, d.lgs. n. 81 del 2015 appare corretto ritenere che i contratti a termine conclusi per lo svolgimento di attività stagionali costituiscano una eccezione al limite di durata massima stabilito ex lege o, in alternativa, dalla contrattazione collettiva. Ne consegue, quindi, che eventuali periodi di lavoro caratterizzati da stagionalità non concorrono alla determinazione del limite di durata massima di cui all'art. 19, comma 1, che opera invece per i contratti a termine stipulati per lo svolgimento di attività non aventi carattere stagionale.”

b) Contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale; Contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro RSA o RSU (art. 51, d.lgs. n. 81 del 2015).

In evidenza: In evidenza: Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Circolare n. 18/2014

“…quanto alle ragioni di “stagionalità” che possono determinare l'esclusione dal computo del lavoratore a termine si evidenzia che – ferme restando le ipotesi già elencate nel d.P.R. n. 1525/1963 – ulteriori ipotesi possono essere rintracciate nell'ambito del contratto collettivo applicato, anche aziendale (il legislatore rinvia infatti al citato d.P.R., ma non in via esclusiva)”.

c) I contratti aventi ad oggetto lo svolgimento di attività di ricerca scientifica possono avere una durata corrispondente a quella dello stesso progetto di ricerca.

In evidenza: Ministero del lavoro e delle politiche sociali – risposta Interpello n. 12 del 2016

“Si ritiene tuttavia che, stante la formulazione letterale dell'art. 23, comma 3, d.lgs. n. 81 del 2015, che si riferisce a “contratti di lavoro a tempo determinato che abbiano ad oggetto in via esclusiva lo svolgimento di attività di ricerca”, non sia possibile estendere il regime derogatorio previsto dalla medesima disposizione anche ai contratti aventi ad oggetto attività operative collegate al progetto di ricerca.

Per quanto attiene al secondo quesito si evidenzia che la prima parte dell'art. 21, comma 1, va interpretato, anche alla luce di quanto previsto dall'art. 23, comma 3, nel senso di ritenere sempre possibile la proroga del contratto a tempo determinato avente ad oggetto attività di ricerca anche quando la sua durata iniziale sia, in quanto legato alla durata del progetto di ricerca, superiore a 36 mesi.

Le eventuali proroghe di un contratto avente ad oggetto attività di ricerca dovranno comunque intervenire entro il termine di 36 mesi, fermo restando che l'ultima proroga potrà determinare una durata complessiva superiore ai 36 mesi in quanto commisurata alla durata del progetto di ricerca”.

Le proroghe ed il contributo addizionale

Fermo restando la necessità della indicazione delle causali, il contratto a termine può essere prorogato sino ad un massimo di 4 volte, anche se il rapporto, per effetto dell'intervento della contrattazione collettiva, fosse superiore a 24 mesi. Tale regola non si applica alle imprese startup innovative (come previste all'art. 25, commi 2 e 3, d.l. 18 ottobre 2012, n. 179,convertito, con modificazioni, dalla l.17 dicembre 2012, n. 221), per il periodo di quattro anni dalla costituzione della società.

Inoltre, il contributo introdotto dall'art. 2, comma 28, l. 28 giugno 2012, n. 92, vale a dire l'1,4 % che grava oggi sull'imponibile contributivo di tutti i contratti a tempo determinato (finalizzato a finanziare la Naspi), viene incrementato di 0,5 punti percentuali in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in somministrazione cd. “stop and go”.

Nel rispetto del periodo massimo di 24 mesi e della specifica indicazione delle causali giustificative, poi, è consentita la riassunzione del lavoratore purché, tra la cessazione del precedente contratto e la nuova assunzione venga rispettato l'intervallo temporale, rispettivamente di: 10 giorni dalla scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi; 20 giorni dalla scadenza di un contratto di durata superiore a sei mesi.

In caso di violazione, il secondo contratto si trasforma a tempo indeterminato (art. 21, d.lgs. n. 81 del 2015).

Il vincolo relativo al rispetto degli intervalli minimi non si applica relativamente ai lavoratori impiegati nell'ambito delle attività stagionali (di cui al d.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525, per cui si rimanda a quanto sopra specificato) e nelle ipotesi previste dai contratti collettivi.

Il legislatore, inoltre, consente, entro precisi limiti temporali, la prosecuzione del rapporto oltre la scadenza del termine (cd. “periodi cuscinetto”, destinati a consentire al lavoratore di completare i compiti assegnati).

In tal caso, tuttavia, al lavoratore dovrà essere riconosciuta una maggiorazione retributiva pari al 20% fino al decimo giorno successivo ovvero al 40% per ciascun giorno ulteriore. La continuazione del rapporto oltre il 30° (contratti inferiori a 6 mesi) o 50° giorno (contratti di durata superiore a 6 mesi), comporta la trasformazione del contratto a tempo indeterminato, oltre all'applicazione “maxi sanzione” in quanto considerata prestazione “in nero” (lettera Circolare min. lav. 22 aprile 2013).

Contingentamento legale

Anche a seguito della riforma ( permane il vincolo di contingentamento, per cui il numero complessivo dei contratti a termine stipulati da ciascun datore di lavoro non può superare il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell'anno di assunzione.

In ogni caso, qualora tali limiti non venissero rispettati, resta esclusa la trasformazione dei contratti interessati in contratti a tempo indeterminato e troveranno applicazione solo le sanzioni amministrative introdotte dal co. 4-septies dell'art. 5, d.lgs. n. 368 del 2001 (poi confluite nell'art. 23, d.lgs. n. 81 del 2015): 20 % della retribuzione per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite non è superiore ad una unità, ovvero 50 % della retribuzione a partire dal secondo lavoratore.

Anche con riferimento a tale aspetto, poi, il legislatore ha introdotto una deroga per cui i limiti numerici non si applicano: nella fase di avvio di nuove attività per i periodi definiti dai contratti collettivi; da imprese start-up innovative (art. 25, comma 2 e 3, d.l. n. 179 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 221 del 2012); per lo svolgimento delle attività stagionali; per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi; per sostituzione di lavoratori assenti; con lavoratori di età superiore a 50 anni.

A tali fattispecie deve essere aggiunta anche quella dei contratti a termine stipulati per i lavoratori che svolgono attività di insegnamento e ricerca scientifica presso istituti di ricerca pubblici e privati.

Diritto di precedenza

Il lavoratore che abbia prestato la propria attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi in esecuzione di uno o più contratti a termine ha diritto di precedenza nelle assunzioni che la medesima azienda intenterà effettuare nei successivi 12 mesi e per le medesime mansioni esercitate dell'art. 24, d.lgs. n. 81 del 2015.

Il diritto di precedenza deve essere esercitato dal lavoratore per iscritto entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro. In ogni caso il diritto si estingue entro un anno.

In evidenza: Ministero del lavoro e delle politiche sociali risposta interpello n. 7/2016

“…in considerazione del fatto che il diritto di precedenza viene esercitato previa manifestazione espressa per iscritto da parte del lavoratore, si deve ritenere che, in mancanza o nelle more della stessa, il datore di lavoro possa legittimamente procedere alla assunzione di altri lavoratori o alla trasformazione di altri rapporti di lavoro a termine in essere. Ciò, evidentemente, sia nelle ipotesi in cui il contratto a termine di durata superiore a sei mesi sia cessato, che nel caso in cui il contratto a termine, una volta trascorsi i sei mesi, risulti ancora in corso”.

Impugnazione del contratto ed indennità onnicomprensiva

Il lavoratore che intenda impugnare un contratto a termine ha l'onere di impugnare il contratto entro 180 giorni dalla cessazione del rapporto, con qualunque atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a rendere palese la propria volontà.

In evidenza: Cass., sez. lav., 10 novembre 2016, n. 22933

Nei contratti a termine (analogamente a quelli di somministrazione a tempo determinato) il termine di decadenza dell'impugnazione del contratto decorre dalla data della scadenza del contratto stesso e non dalla data della comunicazione al lavoratore di cessazione del rapporto.

L'impugnazione, comunque, è senza effetto se nei successivi 180 giorni il lavoratore non provvede a depositare il ricorso presso la cancelleria del tribunale ovvero dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato.

Se la conciliazione o l'arbitrato vengono rifiutati o non si raggiunge l'accordo, il ricorso deve essere depositato entro i 60 giorni dal rifiuto o mancato accordo (art. 6, comma 2, l. n. 604 del 1966).

In tutti i casi in cui il giudice dichiari la conversione a tempo indeterminato del contratto, per illegittima apposizione del termine, il “Collegato lavoro” ha introdotto l'obbligo di corrispondere solo un'indennità onnicomprensiva (ovvero a totale ristoro del pregiudizio subito dal lavoratore) compresa tra 2,5 e 6 mensilità (in considerazione del comportamento delle parti, anzianità di servizio del lavoratore, dimensioni dell'azienda) dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR (art. 32, comma 5, l. n. 183 del 2010).

Riferimenti

Normativa:

  • l.9 agosto 2018, n. 96
  • d.l.12 luglio 2018, n. 87
  • d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81
  • d.l. 20 marzo 2014, n. 34
  • d.l. 18 ottobre 2012, n. 179
  • l. 28 giugno 2012, n. 92
  • l. 4 novembre 2010, n. 183
  • l. 24 dicembre 2007, n. 247
  • d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368
  • l. 15 luglio 1966, n. 604
  • d.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525
  • l. 18 aprile 1962, n. 230
  • l. 18 marzo 1926, n. 562

Prassi:

  • Min. lav. Interpello n. 7/2016
  • Min. lav. Interpello n. 7/2016
  • Min. lav. Interpello n. 7/2016
  • Min. lav., lettera Circolare n. 18/2014
  • Min. lav., lettera Circolare 22 aprile 2013

Giurisprudenza:

  • Cass., sez. lav., 10 luglio 2017, n. 17010
  • Cass., sez. lav., 22 agosto 2016, n. 17240
  • Cass., sez. lav., 10 novembre 2016, n. 22933
  • Cass., sez. un., 13 gennaio 1997, n. 265
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