La riforma dell’ordinamento penitenziario si è arenata nelle sabbie mobili dell’ignoranza

01 Giugno 2018

Possiamo dire che il trattamento penitenziario è conforme ad umanità e assicura il rispetto della dignità della persona? Possiamo affermare che gli istituti penitenziari sono realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati? ...
Abstract

L'8 e il 9 giugno prossimi, l'Unione Camere Penali Italiane terrà a Rimini la IV Edizione dell'Open Day, manifestazione nazionale dedicata alla formazione dei giovani penalisti. Il titolo di quest'anno ,70 anni di (sana e robusta?) Costituzione, vuole evidenziare come la nostra Carta debba ancora trovare una concreta attuazione in molti settori della vita del Paese.

Tra questi certamente l'esecuzione penale.

Introduzione. Corsi e ricorsi storici

Quando, nel 1948, entra in vigore la Costituzione, vige il regolamento penitenziario del 1931, fondato su una funzione esclusivamente retributiva della pena. Il condannato deve compensare il male arrecato e, pertanto, scontare una sanzione proporzionata alla gravità dell'offesa arrecata. I principi fondamentali sono l'isolamento e l'emarginazione del detenuto.

Tale impianto è in netto contrasto con i principi costituzionali, in particolare con il comma 3 dell'art. 27 che prevede che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Per tali ragioni, sempre nel 1948, viene istituita la prima Commissione Parlamentare d'inchiesta sullo stato delle carceri, che conclude i suoi lavori alla fine del 1950, presentando alla Camera dei Deputati una proposta di riforma che tenga conto di quanto enunciato nella Costituzione.

Solo alcune proposte trovano attuazione nel 1951, come la possibilità di leggere e scrivere, l'abolizione del taglio dei capelli, l'eliminazione dell'uniforme; viene disposto che i detenuti non vengano più chiamati con il numero di matricola, ma con nome e cognome. Queste minime e moderate riforme, che non contribuiscono certamente a realizzare il percorso indicato dall'art. 27 della Costituzione, trovano negli anni successivi difficoltà ad essere applicate per lo spirito conservatore che spira sempre nell'esecuzione penale.

Dopo l'infruttuoso lavoro della Commissione Parlamentare del 1948, vi sono altri tentativi di adeguare le norme penitenziarie alla Costituzione. Nel 1960, il Guardasigilli Gonella presenta un disegno di legge che s'ispira ai principi dell'individualizzazione del trattamento rieducativo basato sull'osservazione della personalità. Sono indicati nuovi soggetti all'interno degli istituti di pena, come gli educatori ed è introdotto l'istituto della semilibertà. Tale disegno di legge non trova applicazione in quanto decade per fine legislatura e, pur se più volte ripreso e aggiornato, solo il 31 ottobre 1972, all'inizio della sesta legislatura, è posto all'esame della Commissione Giustizia della Camera.

Sono istituite diverse commissioni ministeriali con lo scopo di predisporre un nuovo ordinamento penitenziario, ma quanto elaborato non trova uno sbocco normativo, a causa del termine della legislatura o per la caduta del Governo.

Allora, come oggi, la Riforma subisce il travaglio della politica che la travolge, non avendo un concreto interesse al cambiamento. La teoria di Giambattista Vico – corsi e ricorsi storici – trova un'ulteriore conferma. Alcuni eventi si ripetono con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo e ciò avviene non per puro caso.

Solo dopo 27 anni dall'entrata in vigore della Costituzione, con la legge 26 luglio 1975, n. 354, Norme sull'Ordinamento Penitenziario e sull'esecuzione delle misure preventive e limitative della libertà, la Riforma organica trova applicazione uniformandosi ai principi della Carta interna e sovranazionali.

Un ordinamento tradito dalle prassi e da inserimenti legislativi emergenziali divenuti permanenti

Il 1975 rappresenta una data storica per l'esecuzione penale. Dal concetto esclusivo di punizione, si passa a quello di rieducazione, istituzionalizzando le modalità del trattamento.

Dopo oltre 40 anni dall'entrata in vigore, molte delle norme, però, non hanno trovato concreta attuazione, per il costante disinteresse del mondo politico che a quello penitenziario ha sempre dedicato poca attenzione e minime risorse.

Solo alcuni esempi:

Possiamo dire che il trattamento penitenziario è conforme ad umanità e assicura il rispetto della dignità della persona? (art. 1).

Possiamo affermare che gli istituti penitenziari sono realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati? E che gli edifici penitenziari sono dotati, oltre che di locali per le esigenze di vita individuale, anche di locali per lo svolgimento di attività in comune? (art. 5).

Possiamo dichiarare che i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati sono di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; areati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale? E che detti locali sono tenuti in buono stato di conservazione e di pulizia? (art. 6)

E ancora, che i locali destinati al pernottamento (art. 6, comma 2), sono effettivamente luoghi previsti solo per il riposo?

In merito all'igiene personale, possiamo dire che è assicurato ai detenuti e agli internati l'uso adeguato e sufficiente di lavabi e di bagni o docce, nonché degli altri oggetti necessari alla cura e alla pulizia della persona? (art. 8).

E per quanto riguarda il lavoro, l'istruzione e la ricreazione, che negli istituti penitenziari, secondo le esigenze del trattamento, sono approntate attrezzature per lo svolgimento di attività lavorative, d'istruzione scolastica e professionale, ricreative, culturali e di ogni altra attività in comune? (art. 12) …

Un altro confronto con quanto stabilito dalla norma e quello che, invece, avviene nella quasi totalità dei casi deve interessare anche l'art. 54 che, nel disciplinare la liberazione anticipata, prevede: «Al condannato a pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione è concessa, quale riconoscimento di tale partecipazione e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una detrazione di 45 giorni per ogni singolo semestre di pena scontata […]». La partecipazione all'opera di rieducazione è una chimera nella maggior parte degli istituti di pena e dove è possibile coinvolge una percentuale bassissima di detenuti. Per prassi, dunque, la diminuzione di pena viene concessa a colui che non è destinatario di richiami da parte del personale dell'amministrazione penitenziaria. Una norma finalizzata ad incentivare la c.d. rieducazione si trasforma così in un'azione pseudo-estorsiva dello Stato che in tal modo raggiunge l'obiettivo di evitare le proteste dei detenuti che sarebbero ampiamente giustificate per il trattamento loro riservato, in palese contrasto con i principi costituzionali e le norme dell'ordinamento.

Dopo oltre quaranta anni, inoltre, solo in pochissimi istituti vi è il Regolamento Interno, nonostante sia specificamente previsto dall'art. 16, comma 2: «Le modalità del trattamento da seguire in ciascun istituto sono disciplinate nel Regolamento Interno, che è predisposto e modificato da una commissione composta dal Magistrato di Sorveglianza, che la presiede, dal direttore, dal medico, dal cappellano, dal preposto alle attività lavorative, da un educatore e da un assistente sociale […]»

Gli esempi potrebbero continuare ma lascio al lettore la verifica, consultando gli altri articoli, dell'effettivo adempimento, da parte dello Stato, agli obblighi imposti dall'ordinamento. Un vero disastro.

Alle violazioni di legge, si sono aggiunti, nel tempo, inserimenti normativi, alcuni dei quali hanno profondamente inciso sulle modalità di detenzione, con limitazioni in contrasto con le ragioni che ispirarono il Legislatore del ‘75. Provvedimenti dovuti all'emergenza che sono poi diventati definitivi in una spirale repressiva di un sistema penale carcerocentrico, che si è allontanato, con il passare degli anni, sempre più dai principi costituzionali.

Il riferimento è soprattutto agli artt. 4-bis e 41-bis, comma 2, dell'ordinamento penitenziario. Il primo, introdotto dal d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in l. 12 luglio 1991, n. 203, è stato più volte modificato, aggiungendo ulteriori delitti all'elenco delle fattispecie che non consentono al condannato la concessione di benefici. Il secondo, introdotto dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in l. 7 agosto 1992, n. 356, prevede che «quando ricorrono gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell'Interno, il Ministro della Giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell'art. 4-bis o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l'associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un'associazione criminale, terroristica o eversiva, l'applicazione delle regole del trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza».

L'incipit del secondo comma dell'art. 41-bis ord. pen., si riferisce a un periodo di tempo. La norma nasce, infatti, provvisoria. Non averle dato più una scadenza, sta a significare che nel nostro Paese dal 1992 ricorrono gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica che evidentemente, nonostante tale precetto repressivo, non sono stati efficacemente affrontati. Il c.d. carcere duro, inoltre, dovrebbe rispondere esclusivamente all'esigenza d'impedire i collegamenti tra il detenuto e l'associazione criminale di appartenenza, ma si concretizza, invece, in ingiustificate restrizioni che hanno finalità investigative in quanto il detenuto è costretto a collaborare – se ha effettivamente la possibilità di farlo – per ritornare alla detenzione comune ed essere destinatario di benefici.

Quanto sino ad ora analizzato fa comprendere che l'entrata in vigore di una Riforma rappresenta solo l'inizio di un possibile cambiamento, in quanto il dettato normativo deve trovare concreta applicazione e se tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare, tra una legge in vigore e la sua applicazione a volte c'è l'oceano. Inoltre, come l'esperienza insegna, in materia di esecuzione penale, il mare è sempre in burrasca ed il vento contrario ed il porto sempre difficile da raggiungere.

L'immobilismo dello stato e l'intervento della corte europea dei diritti dell'uomo

Nel 2010, il sovraffollamento nelle carceri italiane tocca cifre insostenibili. I detenuti sono 67.820 (media aritmetica a fine mese) a fronte di una capienza regolamentare di circa 45.000 unità. Si contano 186 decessi in carcere, tra questi 66 suicidi. L'anno precedente i suicidi sono stati 72. Uno ogni 5 giorni.

Una situazione vergognosa di cui tutti sono a conoscenza, ma che viene costantemente ignorata. Come pressoché ignorate sono le grida di allarme lanciate dalle Camere Penali, dai Radicali, dalle Associazioni, per la costante violazione di diritti fondamentali all'interno degli istituti di pena. Un'inerzia istituzionale che coinvolge anche la magistratura di sorveglianza che, nel rispetto dell'ordinamento penitenziario, avrebbe dovuto vigilare «sull'organizzazione degli istituti e prospettare al Ministro le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo all'attuazione del trattamento rieducativo» (art. 69). Le segnalazioni, dal 1975 ad oggi, sono in numero irrisorio e irriverente rispetto ai diritti negati.

La Corte europea dei diritti dell'uomo, destinataria di moltissimi ricorsi provenienti dall'Italia per le condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti, prendendo atto dell'immobilismo del nostro Paese, l'8 gennaio 2013, emette l'ennesima condanna per violazione dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani ma questa volta con un provvedimento c.d. pilota che affronta il problema strutturale delle disfunzioni del sistema penitenziario italiano, che non riguarda esclusivamente coloro che hanno già proposto ricorso, ma potenzialmente potrebbe interessare un crescente numero di persone.

La sentenza, nota con il nome di uno dei ricorrenti, Torreggiani, viene spesso ricordata solo con riferimento allo spazio all'interno delle celle. La Corte, invece, ha affrontato molteplici aspetti della detenzione. Scrivono i giudici di Strasburgo. «La detenzione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l'art. 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell'assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l'interessato ad uno stato di sconforto, né ad una prova d'intensità che ecceda l'inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della detenzione, la salute ed il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente. La grave mancanza di spazio sperimentata dai sette ricorrenti, per periodi variabili dai 14 ai 54 mesi – costitutiva di per sé di un trattamento contrario alla Convenzione – sembra essere stata ulteriormente aggravata da altri trattamenti denunciati dagli interessati. La mancanza di acqua calda nei due istituti per lunghi periodi, ammessa dal Governo, nonché l'illuminazione e la ventilazione insufficienti nelle celle del carcere di Piacenza, sulle quali il Governo non si è espresso, non hanno mancato di causare nei ricorrenti un'ulteriore sofferenza, benché non costituiscano di per sé un trattamento disumano e degradante»

L'emergenza nazionale della detenzione, ha da tempo oltrepassato i confini e l'Europa chiede urgenti rimedi, anche giurisdizionali. È necessario intervenire. Nel dibattito politico, giunge il messaggio alle Camere dell'allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che evidenzia «la stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia» che costituisce «non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale».

La mancanza di volontà politica. Determinante per il mancato rispetto dell'obbligo d'intervenire

Dinanzi all'intimazione proveniente dalla Corte europea, l'Italia è costretta ad intervenire. L'obbligo imposto trova terreno fertile solo nel risolvere l'emergenza, mentre, per l'assoluta mancanza d'interesse da parte dello Stato, la strada per risolvere in maniera strutturale i problemi, come dall'Europa ci viene chiesto, sarà lunga, accidentata e purtroppo senza alcun sodisfacente risultato.

Viene approvata una serie di norme, che i media battezzano “svuotacarceri”, un termine che mal si addice all'uscita di persone da un luogo ma è più propriamente usato per gli oggetti. Il sovraffollamento, pur ancora presente, diminuisce notevolmente. Nel 2015, i detenuti sono 52.966 ed i suicidi 39. Si manifesta, però, la necessità di una riforma organica costituzionalmente orientata, per consentire l'effettività del trattamento ed evitare il ritorno a numeri di presenze ingestibili.

Nel disegno di legge per la riforma del processo penale viene inserita la delega al Governo per la riforma dell'ordinamento penitenziario e il Ministro della Giustizia Andrea Orlando convoca gli Stati Generali dell'Esecuzione Penale, affinché venga offerto un contributo autorevole all'attività da svolgere. Circa 200, tra avvocati, professori universitari, magistrati, funzionari dell'amministrazione penitenziaria, educatori, addetti ai lavori, coinvolti in un percorso iniziato il 19 maggio 2015 e concluso il 12 aprile 2016.

Diciotto tavoli di lavoro sui temi più importanti. Un evento che segna la nascita di un nuovo modo di “pensare al carcere”, anche da parte del potere esecutivo.

Con la legge 103 del 23 giugno 2017, il Parlamento delega il Governo a riformare l'ordinamento penitenziario, indicando i limiti d'intervento e gli istituti da innovare. Intoccabile l'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario e tutto ciò che riguarda i delitti di mafia e terrorismo, mentre si chiede di prevedere nuove norme per l'assistenza sanitaria, per la semplificazione dei procedimenti, per l'eliminazione di automatismi e preclusioni nel trattamento, per facilitare l'accesso alle misure alternative, per favorire il volontariato, per migliorare la vita penitenziaria con il diritto all' affettività e al lavoro, per la libertà di culto, per la detenzione delle donne soprattutto se madri, per la tutela degli stranieri, per stabilire nuove regole per i minori e per il sistema delle pene accessorie.

Il Ministro Orlando istituisce, nel mese di luglio 2017, tre commissioni di studio, che si avvarranno di quanto elaborato dagli Stati Generali. Sono circa cinquanta gli esperti coinvolti, molti dei quali hanno già partecipato agli Stati Generali.

La delega al Governo va esercitata entro un anno dalla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, ovvero dal 4 luglio 2017. L'iter legislativo deve, dunque, concludersi entro il 4 luglio 2018.

L'avvicinarsi della fine della Legislatura e le elezioni fissate per il 4 marzo 2018, rappresentano, però, un'incognita per l'effettivo esercizio della delega. Il Ministro Orlando imprime, pertanto, un'accelerazione e viene deciso di procedere per schemi, affinché quanto già elaborato dalle Commissioni e proposto all'Ufficio Legislativo possa immediatamente essere approvato dal Consiglio dei Ministri.

Il primo schema di decreto, che ha ad oggetto, tra l'altro, la valorizzazione delle misure alternative o meglio “di comunità”, viene approvato dal Consiglio dei Ministri il 22 dicembre 2017. Un'approvazione in zona Cesarini, per usare un termine calcistico, in quanto con lo scioglimento delle Camere del 28 dicembre non sarebbe stato più possibile per il Governo esercitare la delega.

Come previsto, lo schema di decreto viene trasmesso alle commissioni Giustizia della Camera e del Senato, affinché esprimano il loro parere. Soprattutto il Senato indica condizioni che costringono il Governo a riesaminare il testo, ma senza comunque accogliere le indicazioni ricevute. Tale circostanza determina il nuovo invio dello schema al Parlamento, privo però delle commissioni Giustizia, ormai decadute dopo le elezioni del 4 marzo. La speranza che il testo venga assegnato alle commissioni Speciali, istituite per le urgenze, si scontra con il delicato momento politico, dove le forze di maggioranza si dichiarano apertamente contrarie alla Riforma.

Il Ministro Orlando, rifacendosi all'interpretazione letterale della Legge Delega, sostiene che, trascorsi 10 giorni dalla nuova trasmissione al Parlamento dello schema di decreto, senza alcun riscontro, il Consiglio dei Ministri può procedere all'emanazione del Decreto Legislativo, senza attendere l'invio alle commissioni speciali. In pratica il previsto termine di 10 giorni inizierebbe a decorrere con l'invio al Parlamento e non con quello alle Commissioni.

La legge sul punto prevede: «[…] Il Governo qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, trasmette nuovamente i testi alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni, corredate dai necessari elementi integrativi d'informazione e motivazione. I pareri definitivi delle Commissioni competenti per materia e per i profili finanziari sono espressi entro il termine di 10 giorni dalla data della nuova trasmissione. Decorso tale termine, i decreti possono essere comunque emanati».

L'incertezza interpretativa è pari alla preoccupazione per il destino della Riforma. Il Consiglio dei Ministri, che era in carica solo per l'ordinaria amministrazione, non ha preso in considerazione la richiesta del Ministro della Giustizia e lo schema di decreto si è arrestato, dopo un percorso durato tre anni, a pochi centimetri dal traguardo.

In conclusione

Vale la pena, nel chiudere questa nota, sottoporre all'attenzione del lettore lo schema di decreto che stava per diventare legge (cfr. all.to), evidenziando che rappresenta solo in minima parte il lavoro delle commissioni ministeriali. Avrebbe comunque costituito un primo passo verso quella riforma dell'ordinamento penitenziario che è un atto dovuto, non solo perché richiesto dal Consiglio d'Europa e dal Parlamento ma soprattutto per il rispetto morale e giuridico verso la nostra Costituzione.

Coloro che lo hanno criticato, lo hanno fatto senza argomentazioni tecniche e spesso senza conoscerne il testo, arrivando ad affermare che la riforma avrebbe fatto uscire dal carcere mafiosi e camorristi, dimenticando che ciò non era in alcun modo possibile per l'espresso divieto previsto dalla legge delega. Ignorando, o facendo finta d'ignorare, che le misure alternative o di comunità rappresentano il percorso necessario per il reinserimento del condannato nella società civile (il detenuto un giorno dovrà uscire dal carcere) e il rimedio certo per evitare la recidiva.

Come già evidenziato, non tutto il lavoro svolto dalle Commissioni è stato recepito dal Consiglio dei Ministri. La delega al Governo vede accantonate, nonostante costituiscano i pilastri della Riforma, le importantissime norme sull'Affettività (punto n). Mentre quelle sul Lavoro (punto g), sull'ordinamento minorile (punto p) e sulla giustizia riparativa (punto f), sono state approvate dal Governo e dovrebbero essere valutate dalle commissioni Giustizia di Camera e Senato.

Nel chiudere la presente nota in un clima d'incertezza politica senza precedenti, ritengo che, oggi, non vi sia ormai più alcuna possibilità di riavvicinare il nostro Ordinamento Penitenziario ai principi costituzionali. La scadenza del 4 agosto ormai è vicina, la Delega non sarà esercitata ed i detenuti, ancora una volta ingannati, continueranno a non aver fiducia in uno Stato che invece di offrire percorsi di “rieducazione”, calpesta la dignità delle persone.

Per il futuro ci dovremo rivolgere nuovamente alla Corte europea dei diritti dell'uomo e denunciare al Consiglio d'Europa l'inerzia dell'Italia nei confronti delle raccomandazioni ricevute.

La riforma andrà comunque difesa e riproposta affinché l'ordinamento penitenziario possa essere conforme ai principi costituzionali.

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