L'infedele patrocinio al vaglio della Suprema Corte

Michele Sbezzi
01 Giugno 2018

Se appare certo che il difensore non può e non deve, mai, introdurre nel procedimento prove che sappia esser false – mentre certamente più che discutibile è la pretesa che gli sia interdetto perfino l'utilizzo di prove false introdotte da altri – indiscutibile è anche che avallare una posizione silente, o consigliarla e perfino imporla, è una facoltà della quale il bravo difensore deve poter disporre secondo scienza e coscienza, senza minimamente doversi porre il problema che l'uso della facoltà stessa possa gettare ombre sulla correttezza e sulla conducenza del suo agire.
Abstract

Non può ipotizzarsi, a carico del difensore, il reato di infedele patrocinio se la condotta ascritta sia consistita nella scelta processuale di avvalersi del diritto al silenzio, peraltro certamente congruo rispetto ai diritti della difesa perché applicazione del principio nemo tenetur se detegere. Né può ipotizzarsi il reato in argomento in assenza di un qualsiasi nocumento, per quanto ampiamente inteso, ipotizzabile in danno della parte assistita.

La vicenda

L'interessante vicenda muove le mosse da un caso di maltrattamenti in famiglia, di cui fu accusato un cittadino straniero, residente in Italia con moglie e figli.

Parte offesa nel relativo procedimento, la moglie fu convocata una prima volta dai carabinieri per rendere sommarie informazioni, nel corso delle quali confermò l'accusa rivolta al marito ed i fatti in cui si sarebbe concretato il reato subito.

Convocata nuovamente dai carabinieri circa quattro mesi dopo, però, la signora ritrattò integralmente le accuse e fu, per questo, inscritta nel registro degli indagati per il reato di favoreggiamento personale.

Il pubblico ministero la convocò una terza volta, circa due mesi dopo, per interrogarla; assistita dal medesimo professionista che la rappresentava quale parte offesa, ella si avvalse della facoltà di non rispondere.

Nel frattempo, nel procedimento per maltrattamenti in famiglia, erano state disposte intercettazioni telefoniche sulle due utenze di moglie e marito; da esse emerse che, il giorno stesso fissato per l'esame cui non aveva risposto, la signora era stata avvertita dal marito, nonostante il divieto di ogni contatto, che i rispettivi difensori si erano incontrati e avevano concordato che la signora avrebbe dovuto avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande. E così, in effetti, era stato.

Il pubblico ministero del procedimento per favoreggiamento, sulla base di tale intercettazione, decise quindi di iscrivere i due difensori nel registro degli indagati per il reato di cui all'art. 380 c.p., infedele patrocinio.

Dispose inoltre perquisizioni negli studi dei due difensori, a esito delle quali furono sequestrati documenti e supporti informatici.

Il sequestro e la decisione del tribunale del riesame

Il tribunale del riesame, cui i due difensori fecero ricorso, annullò il sequestro, disponendo l'immediata restituzione del tutto ai due difensori e sottolineando come il difensore della moglie si fosse limitato a suggerire all'assistita, nella veste di indagata di favoreggiamento, di avvalersi di un diritto esplicitamente concesso a indagati e imputati; e come, peraltro, tutto ciò fosse avvenuto in una situazione di incertezza e difficoltà, determinata anche dalla cattiva conoscenza della lingua italiana da parte dell'indagata e, quindi, dalle difficoltà riscontrate nelle comunicazioni con l'assistita (cosa che poteva forse giustificare il fatto che fosse stato il marito ad avvisare la moglie della decisione presa dai due difensori).

La scelta di una qualunque altra linea difensiva, diversa dal diritto al silenzio, sarebbe stata – secondo il tribunale – possibile foriera di pregiudizio per la signora nel procedimento per favoreggiamento; e, forse, anche in quello per maltrattamenti. Nessun pregiudizio, quindi, veniva evidenziato dal tribunale del riesame che, anzi, ritenne di dover sottolineare come la scelta del difensore fosse apparsa non solo legittima ma addirittura opportuna.

L'impugnazione del pubblico ministero

Il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Udine, in cui ha sede quel tribunale del riesame, ha impugnato la decisione avanti la Suprema Corte, chiedendone l'annullamento sulla scorta di una serie di motivi.

Sarebbe stata, innanzitutto, sottovalutata la circostanza del doppio ruolo del denunciato intraneus, difensore della signora come parte offesa in un procedimento e come indagata nell'altro. In buona sostanza, nella prospettazione del ricorrente, il difensore aveva patrocinato posizioni tra loro inconciliabili e inoltre, secondo quanto emerso dalle intercettazioni, non aveva lasciato alla cliente un seppur minimo margine di autonomia decisionale in merito alla propria difesa. Le aveva, cioè, imposto la scelta del silenzio, trascurando peraltro l'esigenza di tutelare l'integrità psico-fisica delle vittime del reato di maltrattamenti, in palese contrasto con i doveri di salvaguardia degli interessi delle parti offese in quel diverso procedimento.

Infine, l'accusa stigmatizzava che, stando agli esiti delle intercettazioni, la scelta di avvalersi del diritto al silenzio sarebbe stata presa in comune dai due difensori delle parti, in una ipotetica collusione tra loro.

La tesi ha rischiato, con tutti noi difensori, di sembrar suggestiva. Ma è infondata.

La decisione della Corte Suprema

La Cassazione ha infatti rigettato il ricorso, sottolineando a dovere la reale consistenza e i limiti del reato di infedele patrocinio.

Perimetrata la materia del decidere con la precisa indicazione di quali vizi della motivazione possano delibarsi in un ricorso avverso misura reale, la Corte – sottolineato che il reato era contestato al difensore della moglie quale soggetto attivo “tipico” e al difensore del marito quale concorrente extraneus (perché imputato di maltrattamenti in altro processo ma assolutamente estraneo alle condotte in esame) – ha molto chiaramente statuito che il reato de quo è delitto di evento, per la cui integrazione occorre si sia prodotto un nocumento agli interessi della parte offesa, cioè un danno, seppur da intendersi in senso lato e non solo come pregiudizio patrimoniale; il danno de quo potrebbe quindi ben individuarsi anche soltanto in un pregiudizio processuale, «consistente in un ostacolo a vedersi riconosciuta la penale responsabilità penale dell'autore di un reato in danno della parte assistita e dei propri figli» Sostiene quindi la Corte, in soldoni, che per parlarsi di infedele patrocinio deve innanzitutto potersi ipotizzare un qualsiasi danno. Cosa che, nella fattispecie, evidentemente, manca del tutto.

Nel caso in questione, prosegue la Corte nell'approfondita analisi portata sulla vicenda, il difensore si è invece limitato a consigliare il silenzio alla propria assistita; ciò che si risolve in una condotta perfettamente lecita perché in linea con il diritto di difesa, in cui l'esercizio del diritto al silenzio è espressione del principio del nemo tenetur se detegere.

La condotta del difensore, se coerente con il diritto di difesa, non può arrecare nocumento agli interessi dell'assistito e non può, dunque, mai integrare gli estremi del reato in argomento. Non è ipotizzabile danno alcuno come conseguenza della scelta di avvalersi di un diritto.

Né, diciamo noi, ma è commento estraneo a quello autorevolissimo espresso dalla Corte, come conseguenza di una scelta professionale ispirata alla necessità di difendersi da un'accusa che trova elementi di fatto a qualificante ed importante supporto fondante.

E ciò anche nel caso in questione, in cui la condotta del difensore si allontana dal paradigma classico del reato de quo per aver egli assistito la parte sia quale indagata del reato di favoreggiamento, sia quale parte offesa del reato di maltrattamenti. La questione è, secondo la Corte, che tanto la violazione del dovere professionale quanto il nocumento agli interessi dell'assistita vanno apprezzati nel solo procedimento per favoreggiamento, in cui l'assistita riveste la posizione certamente più grave e “pericolosa”. In quell'ambito non c'è discostamento dai doveri difensivi ma solo esercizio di un preciso diritto, espressamente previsto dalla legge e parte essenziale del diritto di difesa. Non può neppure ipotizzarsi che da tale condotta possa scaturire nocumento.

Da ultimo, quanto alla collusione tra i due difensori denunciati per infedele patrocinio e per quanto tutto ciò non rivesta importanza in ordine alla presente trattazione, la Corte ha comunque statuito che il fatto rilevato potrebbe al più inquadrarsi come collusione con la parte avversaria, cioè come aggravante speciale, prevista al secondo comma dell'art. 380 c.p.

Appare evidente che, trattandosi appunto solo di aggravante, il fatto non può venire a interesse nell'assoluto difetto di un reato che dovrebbe esserne presupposto.

Il ricorso è stato quindi rigettato.

In conclusione

Non può fondatamente avanzarsi dubbio circa la piena legittimità del diritto dell'imputato, nel processo italiano, di scegliere se difendersi parlando, tacendo o, perfino, mentendo; di decidere, dunque, finanche di ricostruire i fatti oggetto di contestazione in modo consapevolmente falso; o di non ricostruire nulla, di non prendere affatto posizione, di rinunciare a qualsiasi prospettazione, per avvalersi invece del diritto al silenzio che l'ordinamento gli riconosce.

A fronte di una scelta, che ben può essere operata dall'assistito dopo un ragionamento personale e autonomo o essere invece il frutto di consultazioni con il difensore, sta la posizione del bravo avvocato, cui etica personale e professionale impongono di vagliare con attenzione perfino la possibilità di avallare una ricostruzione, operata dall'assistito con le proprie dichiarazioni, che sappia esser falsa; e poi di utilizzarla nel caso la trovi logica, coerente con altre emergenze processuali e, quindi, funzionale all'interesse del cliente a non esser condannato.

Figuriamoci se non sia il caso, pur ponendosi con massima attenzione il problema dell'opportunità, di verificare se avallare, consigliare o financo imporre una scelta rinunciataria per la quale l'indagato, o l'imputato, assuma una legittima – ma passiva – posizione silente, rinunciando ad essere protagonista della fondamentale, ma delicata e pericolosa, fase della ricostruzione del fatto.

Se appare certo che il difensore non può e non deve, mai, introdurre nel procedimento prove che sappia esser false – mentre certamente più che discutibile è la pretesa che gli sia interdetto perfino l'utilizzo di prove false introdotte da altri – indiscutibile è anche che avallare una posizione silente, o consigliarla e perfino imporla, è una facoltà della quale il bravo difensore deve poter disporre secondo scienza e coscienza, senza minimamente doversi porre il problema che l'uso della facoltà stessa possa gettare ombre sulla correttezza e sulla conducenza del suo agire.

Ciò, anche, nella considerazione della valenza delle dichiarazioni rese da soggetti che – almeno tendenzialmente – sono creduti solo se confessano di essere gli autori del reato per cui si procede, ma ritenuti bugiardi quando affermino il contrario.

Sappiamo bene che ciò accade perché l'imputato, ove sentito, non presta dichiarazione di impegno e non risponde, dunque, della eventuale falsità conclamata delle proprie dichiarazioni. Ciò si converte automaticamente in una patente d'inattendibilità che limita fortemente, quando non la esclude, l'utilità della scelta di rispondere; ma lascia invariato e pieno il rischio che dichiarazioni poco accorte siano sapientemente interpretate in ottica esclusivamente accusatoria e colpevolista.

Per tal motivo, soppesati vantaggio e possibile danno, il bravo difensore deve sempre porsi quantomeno il problema se consentire che l'assistito risponda, giungendo anche a imporre il proprio punto di vista nel caso di contrasto con l'assistito stesso.

Il processo penale italiano, come parecchi altri, è un confronto tattico tra parti che tendono a risultati diametralmente opposti, in cui è indispensabile che il difensore, cosciente del proprio ruolo e della delicatezza di un incarico che mai è consistito nella semplice esecuzione di un contratto di prestazione professionale, compia scelte strategiche, dalla cui bontà dipende o può dipendere l'esito del processo.

Suo fine è il raggiungimento e la soddisfazione del legittimo interesse dell'imputato a non esser condannato, neppure nel caso sappia benissimo di essere l'effettivo autore di quelle, specifiche condotte descritte nel capo di imputazione.

Ciò perché l'avvocato penalista, il bravo avvocato, non difende il colpevole; né l'innocente.

Difende un indagato o un imputato, che sarà colpevole, o innocente, solo alla fine del procedimento.

In questo quadro generale si muove il difensore e in esso egli deve sempre scegliere il percorso funzionale al raggiungimento dell'interesse che gli è stato affidato.

Egli è l'unico soggetto in grado di compiere quella scelta perché, nella quasi totalità dei casi, è l'unico soggetto processuale che, oltre che di abilità tecniche, è dotato di conoscenze di fatto che consentono un efficace raffronto tra le varie e contrapposte chances, le ipotesi di percorsi alternativi, gli effetti di una scelta a paragone con quelli che scaturirebbero da una scelta diversa.

Il difensore ha quindi pieno diritto di scegliere e, poi, di consigliare – e, secondo che scrive, perfino di imporre – quella scelta al cliente che l'ha officiato proprio in funzione di quelle capacità che, normalmente, difettano all'indagato ed all'imputato.

Il difensore, in sostanza, deve utilizzare in sede processuale tutto ciò che valuti esser congruo e funzionale rispetto all'interesse che deve perseguire, ciò che gli appaia orientato verso il miglior risultato processuale possibile, con l'unico ed insuperabile limite della liceità della condotta.

Così posta la questione, non pare possa revocarsi in dubbio il fatto che un bravo difensore, al cospetto di un indagato o di un imputato che potrebbe fare dichiarazioni contrarie all'interesse come sopra individuato, debba consigliare al cliente di avvalersi del diritto di rimanere in silenzio.

Tutto ciò è assolutamente indiscutibile nel caso l'indagato, o l'imputato, sia persona incapace di fare un discorso lineare, logico, coerente; o di ricordare particolari che potrebbero aiutarlo a far apparire verosimile una certa ricostruzione dei fatti.

E certamente indiscutibile è anche nel caso in cui il difensore sappia che, se esaminato, il cliente fornirebbe una versione – già esplicitata in precedenza – incoerente rispetto all'esigenza di difendersi o non funzionale rispetto al risultato che si ha di mira.

Ma lo è anche nel caso in cui si possa anche semplicemente temere che, ove sentito, il Cliente fornisca una versione scomoda, contraria ai propri interessi ed oramai inutilizzabile perfino ai fini di un patteggiamento il cui termine sia ormai scaduto.

Insomma, l'esercizio del diritto al silenzio va consigliato – ove ritenuto utile e conveniente – qualsiasi siano la posizione e le capacità del Cliente.

Ciò anche sulla base di un ragionamento che deve muovere da altra considerazione: se l'imputato ha diritto di difendersi come meglio crede e perfino mentendo, l'Avvocato che accetta l'incarico ha invece un preciso obbligo di difesa; e non di una difesa qualunque, bensì della miglior difesa che egli possa riuscire ad esercitare. Pena, ove arrechi danno, l'infedele patrocinio previsto dall'art. 380 del codice penale, che punisce la condotta del patrocinatore il quale, rendendosi infedele ai doveri professionali, «arreca nocumento agli interessi della parte da lui difesa, assistita o rappresentata dinanzi l'Autorità Giudiziaria».

Non è casuale che il codice non parli di infedeltà verso gli interessi della Giustizia, né di lealtà verso i suoi organi.

Infedele patrocinatore è solo colui il quale, scientemente e volontariamente, arrechi danno al cliente.

Ne deriva, come chiarissima conseguenza logica, che il bravo Avvocato ha addirittura un preciso obbligo di tutelare gli interessi del cliente; e solo quelli. Deve cioè fare tutto ciò che è possibile per evitare che l'imputato sia condannato, con il solo limite della cosciente introduzione nel giudizio di prove false.

Nessuno può pretendere che il difensore decida di svelare la falsità di una prova che non ha contribuito ad introdurre; così come nessuno può pretendere che il difensore rinunci ad usare di un diritto, come quello al silenzio, riconosciuto anche al responsabile – ma non ancora “colpevole” – dei fatti per cui si procede.

Perché il difensore non partecipa a giudicare della genuinità delle prove, ma si limita a valutarne conducenza e funzionalità rispetto agli interessi che ha di mira. E non ha ruoli etici che gli impongano di promuovere la confessione di verità che non è suo compito accertare.

Ha invece un preciso obbligo contrattuale – ma, prima ancora, deontologicamente professionale – di valorizzare per quanto possibile tutto il materiale probatorio e tutte le scelte tattiche e strategiche che possano impedire la dichiarazione di colpevolezza.

Va infine sottolineato che, seppur non possa certo pretendersi che la condotta del difensore, per quanto bravo, possa dirsi esente da controlli di legittimità, assai arduo è certamente valutare la correttezza e “fedeltà” della scelta astensionistica promossa da un difensore. Perché nessuno può mai essere in condizioni di conoscere tutta la verità del rapporto tra difensore e accusato, la fiducia e le “verità” che si sono scambiati, la consapevolezza di limiti culturali, etici, caratteriali o di altro genere riscontrati nel cliente, che per mille e più motivi può non essere ritenuto capace di affrontare le insidie di un esame finalizzato, ma solo sulla carta, a concedergli ampia facoltà di discolparsi; e che, nella realtà giornaliera delle aule giudiziarie, diviene invece teatro del tentativo di banalizzare le sue difese, di far emergere incongruenze, di farlo apparire inattendibile e, in ultima analisi, responsabile del fatto ascritto.

Sommario