Incostituzionalità del decreto Ilva del 2015 e conseguenze sul sequestro preventivo

04 Giugno 2018

La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale l'art. 3 d.l. 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l'esercizio dell'attività d'impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) e degli artt. 1, comma 2, e 21-octies l. 6 agosto 2015, n. 132 (Conversione in legge, con modif., del d.l. 27 giugno 2015, n. 83 ...
Abstract

La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale l'art. 3 d.l. 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l'esercizio dell'attività d'impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) e degli artt. 1, comma 2, e 21-octies l. 6 agosto 2015, n. 132 (Conversione in legge, con modif., del d.l. 27 giugno 2015, n. 83, recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria).

La sentenza in commento si colloca nell'ambito di una vicenda articolata e complessa concernente l'impianto siderurgico Ilva di Taranto. In particolare, oggetto di attenzione sono stati i provvedimenti di sequestro penale adottati dall'autorità giudiziaria aventi ad oggetto stabilimenti di interesse strategico nazionale e per i quali si è, conseguentemente, posta la necessità di salvaguardare tanto esigenze di tutela dell'ambiente quanto di tutela della salute dei lavoratori e anche occupazionali. In proposito sono intervenuti dapprima il c.d. decreto salva Ilva 2012 e, poi, il c.d. decreto salva Ilva 2015 che hanno neutralizzato gli effetti della misura cautelare reale adottata dall'autorità giudiziaria, disponendo, seppure a determinate condizioni, la prosecuzione dell' attività d'impresa.

Al contrario di quanto accaduto in riferimento al primo decreto normativo, quello del 2012, pure sottoposto al vaglio della Corte costituzionale (sentenza n. 85 del 2013) e uscitone "illeso", questa volta ad essere stato sottoposto al vaglio della Corte costituzionale è stato il decreto del 2015, ora dichiarato non conforme a Costituzione.

La vicenda

All'origine della decisione in commento (sent. costituzionale n. 58 del 2018), vi è un infortunio sul lavoro che ha causato la morte di un lavoratore dello stabilimento Ilva di Taranto. L'imputazione al centro del procedimento penale nel cui ambito si è collocata la misura cautelare reale concerne i reati di cui agli artt. 110, 437, commi 1 e 2, e 589 c.p. I fatti addebitati agli imputati attengono all'omissione di cautele necessarie per prevenire la proiezione di materiale incandescente e strumentazioni e per assicurare l'incolumità dei lavoratori. In particolare, nella prospettiva dell'accusa, all'origine dell'evento vi è la mancanza di adeguate protezioni e l'esposizione ad attività pericolose nell'area di un altoforno dello stabilimento di Taranto.

Nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero aveva disposto, con decreto del 18 giugno 2015, il sequestro preventivo d'urgenza, senza facoltà d'uso, dell'altoforno denominato "Afo2" dello stabilimento Ilva di Taranto, ritenendo sussistenti le esigenze cautelari previste dalla normativa codicistica (art. 321, commi 1 e 2, c.p.p.). Tale misura cautelare reale, disposta d'urgenza dal P.M., veniva, poi, convalidata dall'organo giurisdizionale, sempre senza facoltà d'uso dell'impianto.

Nei giorni successivi all'adottato provvedimento cautelare, il Legislatore, tramite il d.l. 4 luglio 2015 n. 92, dettando Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonchè per l'esercizio dell'attività d'impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale, all'art. 3, nello stabilire le misure urgenti per l'esercizio dell'attività di impresa di stabilimenti oggetto di sequestro giudiziario, al comma 1, prevedeva che per «garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell'attività produttiva, di salvaguardia dell'occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell'ambiente salubre, nonché delle finalità di giustizia, l'esercizio dell'attività di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale non è impedito dal provvedimento di sequestro [...] quando lo stesso si riferisca a ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori». Ci si muoveva in tal modo, con riguardo alla sostanziale inibizione delle conseguenze del provvedimento cautelare reale, sulla stessa linea già fatta propria dal Legislatore tramite l'art. 1, comma 4, d.l. 207 del 2012 conv., con modif., in l. 231 del 2012. Provvedimento normativo, quest'ultimo, che veniva espressamente richiamato dal d.l. del 2015.

Ancora una volta, sotteso alla previsione legislativa, vi era l'intento, dichiarato nello stesso provvedimento legislativo, di garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell'attività produttiva, di salvaguardia dell'occupazione e della sicurezza sul luogo di lavoro.

In ogni caso, ai sensi del comma 2, in considerazione degli interessi da comparare si prevedeva che l'attività d'impresa non potesse protrarsi per un periodo di tempo superiore a 12 mesi dall'adozione del provvedimento di sequestro. Inoltre, si stabiliva che per «la prosecuzione dell'attività degli stabilimenti di cui al comma 1, senza soluzione di continuità, l'impresa» dovesse «predisporre, nel termine perentorio di 30 giorni dall'adozione del provvedimento di sequestro, un piano recante misure e attività aggiuntive, anche di tipo provvisorio, per la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, riferite all'impianto oggetto del provvedimento di sequestro». La predisposizione di tale del piano, ai sensi del comma 3, deve essere comunicata all'autorità giudiziaria procedente e, inoltre, ai sensi del comma 4, trasmessa al Comando provinciale dei Vigili del fuoco, agli uffici della Asl e dell'Inail competenti per territorio per le rispettive attività di vigilanza e controllo.

Infine, il comma 5, contiene una disposizione transitoria, in base alla quale le «disposizioni del presente articolo si applicano anche ai provvedimenti di sequestro già adottati alla data di entrata in vigore del presente decreto e i termini di cui ai commi 2 e 3 decorrono dalla medesima data».

Sopravvenuto il decreto legge del 2015 ora citato, la difesa degli imputati si è attivata presso il P.M., quale organo competente per i profili esecutivi del sequestro, affinché fosse data attuazione all'art. 3 d.l. 92 del 2015 con conseguente sospensione ex lege dell'esecuzione del provvedimento cautelare reale.

Il P.M., esprimendo parere contrario all'accoglimento dell'istanza, ha trasmesso gli atti al Gip affinché egli decidesse sull'istanza, quale organo competente avendo lo stesso disposto il provvedimento. In subordine, il P.M. ha chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 d.l. 92 del 2015.

Il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto di essere competente a decidere sull'istanza e, valutando come non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del predetto art. 3 d.l. 92 del 2015, ha sollevato tale questione dinanzi alla Corte costituzionale.

La norma sottoposta al giudizio di conformità a Costituzione, sfociato nella sentenza ora in commento, è l'art. 3 d.l. 92/2015. I profili di censura mossi nei riguardi di tale norma, nella parte in cui consente la prosecuzione dell'attività d'impresa, attengono, secondo il giudice a quo, ai seguenti parametri costituzionali: artt. 2, 3, 4 e 35 comma 1, 41 e 112 Cost. In particolare, per quanto concerne quest'ultimo profilo, il giudice rimettente ha evidenziato come la norma sottoposta a scrutinio pregiudichi il potere-dovere della magistratura di prevenire, oltre che di reprimere, i reati tramite il ricorso a misure cautelari reali di carattere preventivo.

Il precedente decreto Ilva del 2012 e la sentenza costituzionale n. 85 del 2013

La situazione descritta appare del tutto peculiare posta la presenza di un provvedimento normativo che va, sostanzialmente, a inibire gli effetti di una misura cautelare reale disposta nell'ambito di un procedimento penale. Nella vicenda in questione non è la prima volta che ciò accade. Invero, vi era già stato un intervento normativo in tal senso, nato a seguito di altro provvedimento cautelare reale disposto dall'autorità giudiziaria in un diverso procedimento penale che riguardava sempre lo stabilimento siderurgico Ilva S.P.A. di Taranto ma aveva a oggetto i reati ambientali integrati, secondo l'ipotesi accusatoria, mediante emissioni nocive nell'atmosfera di polveri e gas, realizzati nella gestione dell'impianto siderurgico. Imputati erano gli amministratori e i dirigenti della società. In tale procedimento penale, era stato disposto il sequestro preventivo di ampie porzioni dello stabilimento siderurgico di Taranto, senza facoltà d'uso per il gestore. Era stato, altresì, contestualmente nominato un collegio di custodi nel cui mandato era compreso l'avvio delle operazioni necessarie per la chiusura dell'impianto in condizioni di sicurezza, non la continuazione dell'attività produttiva.

Anche all'esito del controllo in sede di riesame del sequestro penale si confermava la necessità di un'immediata interruzione dell'attività nelle "aree a caldo" e subordinava l'eventuale ripresa delle attività ad una futura autorizzazione, condizionata dall'esecuzione degli interventi indicati dai periti oltre che dall'instaurazione di un sistema di monitoraggio delle emissioni. Inoltre, con un successivo provvedimento di sequestro del 22 novembre 2012, era stato disposto anche il sequestro «del prodotto finito e/o semilavorato» che giaceva nelle aree di stoccaggio dello stabilimento Ilva e che era stato realizzato in un momento successivo al sequestro degli impianti di produzione.

In un momento successivo agli adottati sequestri preventivi disposti dalla magistratura tarantina, il Governo intervenne con il d.l. 3 dicembre 2012, n. 207, conv. con mod. in l. 24 dicembre 2012, n. 231 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), introducendo disposizioni riguardanti la prosecuzione delle attività economico produttive aventi interesse strategico nazionale, anche se sottoposte a sequestro giudiziario. Ciò al dichiarato fine di salvaguardare tanto esigenze di tutela dell'ambiente, quanto di tutela della salute dei lavoratori ed occupazionali. In tali casi, il Legislatore prevedeva la prosecuzione delle attività d'impresa, previa autorizzazione del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, da adottare in fase di riesame dell'autorizzazione integrata ambientale [d'ora in poi Aia]. Il proseguimento dell'attività produttiva veniva previsto per un periodo di tempo determinato non superiore a 36 mesi e a condizione che fossero adempiute le prescrizioni contenute nel provvedimento di riesame dell' autorizzazione.

Ne derivava, così, la neutralizzazione degli effetti della misura cautelare reale disposta dall'autorità giudiziaria, secondo quanto disposto dal comma 4 dell'art. 1 d.l. 207 del 2012 che, autorizzava la prosecuzione dell'attività d'impresa con autorizzazione dell'Aia, malgrado la presenza di provvedimenti di sequestro sui beni dell'impresa titolare dello stabilimento.

L'intervento legislativo del 2012 ha generato dapprima un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Il conflitto sollevato sia dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Taranto, sia dal giudice per le indagini preliminari di Taranto in relazione al testo del decreto legge poi convertito in legge è stato dichiarato inammissibile (Corte cost., ord. 13 febbraio 2013). La Corte costituzionale ha dichiarato l'inammissibilità del conflitto di attribuzione, rifacendosi a un costante orientamento giurisprudenziale secondo cui è da escludere il ricorso al conflitto di attribuzione per quei casi ove vi sia la possibilità di sollevare la questione di legittimità costituzionale in via incidentale nell'ambito di un giudizio ordinario.

È, poi, seguita una questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 d.l. 207 del 2012 sollevata dinanzi alla Corte costituzionale dal Gip presso il tribunale di Taranto in riferimento al contemperamento dei diversi diritti costituzionali coinvolti nel provvedimento legislativo e, in particolare, riguardo alla tutela del diritto alla salute.

La Corte costituzionale ha valutato come infondata la censura di incostituzionalità, sulla scorta della considerazione di un equilibrato bilanciamento di interessi, tutti di rilevanza costituzionale, che ha connotato la norma impugnata (Corte cost., sent. 9 aprile - 9 maggio 2013, n. 85).

La sentenza costituzionale n. 58 del 2018

Nella sentenza costituzionale n. 58 del 2018, la Corte costituzionale si è trovata a doversi nuovamente confrontare con questioni afferenti a interventi normativi (c.d. decreto Ilva 2015) che hanno inciso su provvedimenti cautelari reali adottati dall'autorità giudiziaria ed aventi ad oggetto lo stabilimento siderurgico Ilva di Taranto. Questa volta, però, i giudici costituzionali hanno concluso in senso diverso rispetto a quanto deciso nel 2013, valutando come profondamente diverso il susseguirsi della trama normativa che ha connotato l'intervento del 2015.

La peculiarità di questa "seconda parte" della vicenda sta nel fatto che l'art. 3 d.l. 92 del 2015 che ha neutralizzato gli effetti del sequestro preventivo già disposto dall'autorità giudiziaria non è stato convertito in legge: prima ancora della scadenza del termine per la conversione del d.l. 92 del 2015, invero, è sopravvenuta la l. 6 agosto 2015, n. 132, che ha convertito in legge il d.l. 27 giugno 2015, n. 83 (Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria) ove, con l'art. 1, comma 2, si è abrogato l'art. 3 d.l. 92 del 2015 e contestualmente sancito una clausola di salvezza per gli effetti giuridici prodottisi a seguito dell'introduzione di quell'art. 3 d.l. 92/2015. Al contempo, la legge 132 del 2015, all'art. 21-octies, ha nuovamente introdotto la previsione abrogata.

Di conseguenza, come rilevato nella sentenza costituzionale n. 58 del 2018, «la legge n. 132 del 2015 ha formalmente abrogato e simultaneamente salvaguardato e riprodotto il precetto normativo contenuto nell'impugnato art. 3 del decreto legge 92 del 2015». Ne è derivata una situazione in cui l'art. 3 d.l. 92 del 2015, secondo quanto evidenziato in sentenza, «ha continuato ininterrottamente a esplicare effetti nell'ordinamento, dalla entrata in vigore del decreto legge impugnato fino ad oggi, assicurando una copertura legislativa al protrarsi dell'attività d'impresa nello stabilimento Ilva di Taranto, compresa quella dell'altoforno, nonostante l'intervenuto sequestro».

Sulla base di tanto è stata rigettata la richiesta di declaratoria di inammissibilità della Q.L.C., prospettata dall'Avvocatura generale dello Stato, per sopravvenuta carenza di interesse, posto che la norma oggetto del vaglio di costituzionalità "è rimasta nell'ordinamento senza variazioni di contenuto e senza soluzione di continuità, pur sotto la specie di diversi precetti legislativi concatenati fra loro" (così sent. cost. n. 58 del 2018).

Ebbene, lo stesso giudice delle leggi, nel valutare la questione di legittimità sfociata nella decisione che si annota, ha dovuto soffermarsi su questo succedersi di disposizioni tutte concernenti i provvedimenti normativi che hanno riguardato la disposizione oggetto di scrutinio.

A questo proposito, nella sentenza in commento, si evidenzia come, in virtù della tecnica normativa adottata dal Legislatore, la norma sia stata soltanto «apparentemente abrogata», posto che la stessa «ricompariva in un'altra disposizione del medesimo atto legislativo» e che «sono stati fatti salvi gli effetti pregressi prima ancora che scadesse il termine per la conversione del decreto legge originario che la conteneva». Tale tecnica normativa – a parere del giudice costituzionale – «reca pregiudizio alla chiarezza delle leggi e alla intelligibilità dell'ordinamento, in conseguenza dell'uso del tutto anomalo della legge di conversione».

Nello specifico, è stata rilevata la «piena continuità normativa della disciplina oggetto dei dubbi di legittimità costituzionale». Non viene, dunque, meno «la perdurante rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata» e non ne risulta pregiudicato l'esame nel merito. Se così non fosse – rileva la Corte costituzionale – «si consentirebbe al Legislatore di dilazionare, ostacolare o addirittura impedire il giudizio di questa Corte, in contrasto con il principio di economia dei giudizi (Corte cost. n. 84 del 1996) e a scapito della pienezza, tempestività ed effettività del sindacato di costituzionalità delle leggi, compromettendo in modo inaccettabile la tutela di diritti fondamentali, specie se connessi, come nel caso in esame, alla tutela della vita».

Come affermato nella sentenza n. 84 del 1996 e ribadito dalla sentenza n. 44 del 2018, la Corte costituzionale «giudica su norme, ma pronuncia su disposizioni».

Resta, dunque, da verificare su quali disposizioni si riverbera il vaglio di costituzionalità, posto il peculiare susseguirsi di interventi legislativi concernenti la norma in giudizio.

In proposito, nella decisione in commento, si sottolinea la differenza tra il caso sotteso alla "odierna" questione di costituzionalità e il caso oggetto della sentenza n. 84 del 1996. In quell'occasione si aveva a che fare con la reiterazione di decreti legge dopo la scadenza del termine per la conversione, con salvezza degli effetti pregressi, sulla scorta di una prassi che sarebbe stata di lì a poco censurata dalla stessa Corte costituzionale con sentenza n. 360 del 1996. Di conseguenza, nella sentenza n. 84 del 1996, il vaglio costituzionale riguardò la disposizione che sanava gli effetti del decreto-legge non convertito.

Nel caso che ha dato origine alla Q.L.C. sfociata nella decisione in commento, invece, il percorso seguito dal Legislatore, apparso «tortuoso e del tutto anomalo», non è riconducibile «né [ad] una semplice mancata conversione, né [ad] una reale abrogazione e neppure [ad] una abrogazione con successiva diversa regolamentazione» (così sent. cost. n. 58 del 2018).

L'analisi che precede, compiuta dai giudici costituzionali, è stata funzionale a stabilire quale o quali norme debbano considerarsi oggetto di vaglio ed eventuale censura costituzionale. A tal riguardo, la Corte costituzionale osserva che, nel caso di specie, a fronte di una soltanto apparente abrogazione, la successione di disposizioni legislative nasconde un'«effettiva continuità di contenuti normativi». Pertanto, «la norma oggetto del giudizio vive nell'ordinamento in forza di una inscindibile combinazione di disposizioni strettamente interconnesse tra loro» e, dunque, «il giudizio di costituzionalità non potrà che investire tutte le disposizioni considerate in combinazione tra loro: vale a dire l'art. 3 del decreto-legge n. 92 del 2015 e gli artt. 1, comma 2, e 21-octies l. 6 agosto 2015, n. 132» (così sent. cost. n. 58 del 2018).

Superato il vaglio circa l'ammissibilità della Q.L.C., nel merito la stessa è stata ritenuta fondata.

A questo proposito, l'art. 3, comma 1, d.l. 92 del 2015, come esplicitamente dichiarato nell'incipit della stessa norma perseguiva l'intento di garantire una linea di continuità rispetto alla precedente normativa riguardante l'esercizio dell'attività di impresa in stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale, contenuta nel d.l. 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), convertito, con modif., in l. 24 dicembre 2012, n. 231. Su tale "antecedente" normativa la Corte costituzionale aveva già avuto modo di esprimersi, con sentenza n. 85 del 2013. Pertanto, la decisione ora in commento ha dovuto tener conto dei principi in quella sentenza espressi.

Nella sent. n. 85 del 2013, la Corte costituzionale ha rilevato come sia da considerarsi «lecita la continuazione dell'attività produttiva di aziende sottoposte a sequestro, a condizione che vengano osservate [...] le regole che limitano, circoscrivono e indirizzano la prosecuzione dell'attività stessa». In quell'occasione, la Corte costituzionale rigettò la questione di legittimità, poiché ritenne che nelle disposizioni oggetto di scrutinio si riflettesse «un ragionevole e proporzionato bilanciamento» dei diversi diritti coinvolti nella vicenda e tutti costituzionalmente protetti. Ciò in quanto il proseguimento dell'attività d'impresa, malgrado la presenza di un provvedimento di sequestro preventivo disposto dall'autorità giudiziaria, era subordinata all'osservanza di limiti specifici, derivanti da provvedimenti amministrativi riguardanti l'autorizzazione integrata ambientale, e tutelata da specifiche attività di controllo.

Nella sentenza in commento, è evidenziato come non possa «ritenersi astrattamente precluso al Legislatore di intervenire per salvaguardare la continuità produttiva in settori strategici per l'economia nazionale e per garantire i correlati livelli di occupazione, prevedendo che sequestri preventivi disposti dall'autorità giudiziaria nel corso di processi penali non impediscano la prosecuzione dell'attività d'impresa». Tuttavia – precisa la Corte – «ciò può farsi solo attraverso un ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco».

Si tratta di un bilanciamento di valori che va realizzato evitando una «illimitata espansione di uno dei diritti» a scapito degli altri, pure costituzionalmente tutelati (così sent. n. 85 del 2013). A tal fine, è necessario che quel bilanciamento avvenga sulla scorta di "criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro" (così la sentenza in commento, riprendendo le sentenze costituzionali n. 63 del 2016 e n. 264 del 2012).

Dopo aver premesso quanto sopra, la Corte costituzionale, nella decisione in commento, è giunta a conclusioni diverse rispetto a quelle cristallizzate nella sentenza n. 85 del 2013. In particolare, si è ritenuto che il Legislatore non abbia effettuato un bilanciamento ragionevole e proporzionato di tutti «gli interessi costituzionali rilevanti e, pertanto, sia incorso in un vizio di illegittimità costituzionale per non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori, a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio della stessa vita». Ciò, a parere dei giudici costituzionali, si sarebbe verificato poiché, nella normativa oggetto di vaglio, il proseguimento dell'attività d'impresa è subordinata soltanto alla predisposizione unilaterale di un "piano" di intervento da parte dello stesso soggetto privato che subisce il sequestro cautelare disposto dall'autorità giudiziaria. Su questo aspetto, nella sentenza annotata, vi sono osservazioni critiche per non essere stata inclusa nel suddetto piano di intervento alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati.

L'inadeguatezza delle condizioni d'intervento, inoltre, a parere della Corte costituzionale, emerge dal fatto che il Legislatore concede un termine di trenta giorni per la predisposizione del piano, che, tra l'altro, può anche essere provvisorio. Nella previsione di questo termine, il giudice delle leggi individua la mancanza di volontà legislativa per misure «immediate e tempestive atte a rimuovere prontamente la situazione di pericolo per l'incolumità dei lavoratori» (così sent. cost. n. 58 del 2018).

Tale mancanza si rivela – nella prospettiva dei giudici costituzionali – ancor più grave per il fatto che durante la pendenza del suddetto termine è consentita dal Legislatore, in modo esplicito, la prosecuzione dell'attività d'impresa senza soluzione di continuità.

Ciò implica – sottolinea la Corte – che «gli impianti sottoposti a sequestro preventivo possono continuare ad operare senza modifiche in attesa della predisposizione del piano e, quindi, senza che neppure il piano sia adottato». Invero, l'unico limite di tempo "effettivo" è previsto al comma 2 dell'art. 3, ove si stabilisce che l'attività di impresa non possa essere proseguita «per un periodo di tempo superiore a dodici mesi dall'adozione del provvedimento di sequestro».

Le censure di costituzionalità espresse nella sentenza in commento si fondano altresì sul fatto che il piano dovrebbe includere «misure e attività aggiuntive, anche di tipo provvisorio», che, però, non trovano alcuna chiara definizione da parte del Legislatore.

Nella predisposizione del piano, inoltre, non è contemplata alcuna partecipazione di autorità pubbliche, le quali devono essere informate solo in un momento successivo e vengono a svolgere un generico potere di monitoraggio e ispezione da parte di Inail, Asl e vigili del fuoco, rendendo, in definitiva, ambigua e indeterminata l'effettiva possibilità di incidenza sullo svolgimento del piano e sul proseguimento dell'attività.

Per tali ragioni, diversamente da quanto accadde nel 2013, questa volta, vagliando la conformità a Costituzione della norma impugnata, la Corte costituzionale ritiene che il Legislatore abbia «finito col privilegiare in modo eccessivo l'interesse alla prosecuzione dell'attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.)». In particolare, secondo la Corte, la norma sottoposta al vaglio costituzionale non rispetta i limiti che la Costituzione impone «all'attività d'impresa la quale, ai sensi dell'art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Invero, «rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l'incolumità e la vita dei lavoratori costituisce infatti condizione minima e indispensabile perché l'attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona» (vedi anche Cortecost. n. 405 del 1999; Corte cost. n. 399 del 1996).

Il sequestro preventivo e la prosecuzione dell'attività d'impresa

Il sequestro preventivo crea un vincolo d'indisponibilità su un bene che viene provvisoriamente sottratto alla gestione di chi ne è proprietario o possessore. Sono, in tal modo, inibite, attività che su quella cosa, in assenza del vincolo giudiziario, potrebbero essere altrimenti realizzate. L'obiettivo è evitare il pericolo di protrarre o aggravare le conseguenze del reato per cui si procede o di agevolare la commissione di altri reati ovvero di distrarre o distruggere la cosa su cui la confisca dovrebbe cadere. L'autorità giudiziaria quando adotta il provvedimento cautelare reale si pone esclusivamente nella prospettiva dell'interruzione/eliminazione del periculum in mora. Nella vicenda in commento la res è rappresentata dagli impianti dello stabilimento Ilva ed è determinata dall'esigenza di impedire quelle attività criminose oggetto di imputazione tanto nel procedimento penale concernente i reati ambientali (decreto Ilva del 2012 e Corte cost. n. 85 del 2013), quanto in quello, più recente, derivante dalla morte di un lavoratore (decreto Ilva 2015 e Corte cost. n. 58 del 2018).

Il caso pone delicati e rilevanti interrogativi sul come far convivere esigenze produttive e di tutela dell'occupazione con esigenze di tutela dell'ambiente e della salute dei lavoratori. Induce a soffermarsi sui rapporti tra poteri dello Stato, nella misura in cui un provvedimento normativo che interviene ex post finisce sostanzialmente per inibire gli effetti di una misura cautelare adottata dall'autorità giudiziaria. Ma pone altresì numerosi quesiti sulla portata applicativa del sequestro penale e sui suoi limiti, nonché sulla sua esecuzione.

Il dilemma tra l'apposizione e il mantenimento del vincolo cautelare da un lato e lo svolgimento dell'attività produttiva dall'altro è stato in un primo momento risolto dal decreto legge salva Ilva, quello del 2012, ove si è chiaramente optato per la prosecuzione dell'attività lavorativa a fronte di stabilimenti aventi rilevanza strategica nazionale, malgrado la sussistenza di un vincolo derivante da un provvedimento dell'autorità giudiziaria. In quel caso la Corte costituzionale (sent. n. 85 del 2013) ritenne che non vi fosse alcun distonia costituzionale, posto che i diversi diritti, tutti di rilevanza costituzionale, erano stati adeguatamente bilanciati. Diversa, come già esposto sopra, l'impostazione fatta propria dalla Corte costituzionale nella sent. n. 58 del 2018 a fronte del "secondo" decreto Ilva (2015) e delle peculiarità che hanno riguardato il susseguirsi delle norme in quest'ultimo caso.

Tuttavia, in entrambi i casi vi è un punto fermo intorno al quale ruota la questione dei rapporti tra sequestro penale disposto dall'autorità giudiziaria e valutazioni a livello legislativo circa l'opportunità di proseguire le attività economiche coinvolte dal provvedimento cautelare reale. Nella decisione n. 85 del 2013, la Corte costituzionale ha evidenziato come la norma censurata «consente chiaramente la permanenza delle misure già adottate e mira solo a escludere che i provvedimenti di sequestro, presenti o futuri, possano impedire la prosecuzione dell'attività produttiva a norma del comma 1» dell'art. 1 d.l. 207 del 2012. Peraltro, non si è ritenuto, in quell'occasione, pregiudicato «il potere-dovere del pubblico ministero di esercitare l'azione penale, previsto dall'art. 112 Cost., che è pur sempre da inquadrare nelle condizioni generali poste dal contesto normativo vigente, ove, dopo l'entrata in vigore del d.l. 207 del 2012, è considerata lecita la continuazione dell'attività produttiva di aziende sottoposte a sequestro» a condizione – come detto prima – che vengano rispettate le prescrizioni dell'Aia riesaminata. A parere dei giudici costituzionali, il comma 4 dell'art. 1 d.l. 207 del 2012 «consente chiaramente la permanenza delle misure già adottate e mira solo ad escludere che i provvedimenti di sequestro, presenti o futuri, possano impedire la prosecuzione dell'attività produttiva a norma del comma 1» (così sent. Corte cost. n. 85 del 2013).

In definitiva, il cuore della questione è la continuazione dell'attività produttiva di aziende sottoposte a sequestro. A questo proposito, la sent. cost. n. 85 del 2013 rileva come non può considerarsi astrattamente «precluso al Legislatore di intervenire per salvaguardare la continuità produttiva in settori strategici per l'economia nazionale e per garantire i correlati livelli di occupazione, prevedendo che sequestri preventivi disposti dall'autorità giudiziaria nel corso di processi penali non impediscano la prosecuzione dell'attività d'impresa; ma ciò può farsi solo attraverso un ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco». In quella prima volta che la Corte costituzionale ebbe ad intervenire, rigettò la questione di legittimità costituzionale, ritenendo che il Legislatore avesse realizzato un ragionevole e proporzionato bilanciamento attraverso quanto previsto dall'art. 1 comma 4 d.l. 207 del 2012. Ciò in considerazione del fatto che il proseguimento dell'attività d'impresa era vincolata all'osservanza di limiti determinati contenuti nell'ambito di provvedimenti amministrativi relativi all'autorizzazione integrata ambientale ed, inoltre, veniva tutelata dalla garanzia di una specifica disciplina di controllo e sanzionatoria.

Limiti e bilanciamenti che, tuttavia, a parere della Corte costituzionale (sent. n. 58 del 2018), sono mancati nel decreto Ilva del 2015 al punto da portare ad una valutazione di illegittimità costituzionale della normativa censurata «per non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori, a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio della stessa vita". In questa seconda occasione, infatti, nelle disposizioni sottoposte a giudizio, "la prosecuzione dell'attività d'impresa è subordinata esclusivamente alla predisposizione unilaterale di un "piano" ad opera della stessa parte privata colpita dal sequestro dell'autorità giudiziaria, senza alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati". Vi è la previsione di un termine di trenta giorni per predisporre un piano, che può anche essere provvisorio. Alla luce di tanto, secondo i giudici costituzionali, "manca del tutto la richiesta di misure immediate e tempestive atte a rimuovere prontamente la situazione di pericolo per l'incolumità dei lavoratori (n. 58 del 2018). Mancanza che appare tanto più grave ove si consideri che nel corso della pendenza del suddetto termine è esplicitamente prevista la prosecuzione dell'attività d'impresa "senza soluzione di continuità". Ciò implica che pure "gli impianti sottoposti a sequestro preventivo possono continuare ad operare senza modifiche in attesa della predisposizione del piano e, quindi, senza che neppure il piano sia adottato". In definitiva, la norma sottoposta al vaglio costituzionale, è stata dichiarata non conforme a Costituzione poichè, a differenza di quanto accaduto nella precedente circostanza (decreto Ilva 2012), "il Legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l'interesse alla prosecuzione dell'attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.)" (così sent. cost. n. 58 del 2018).

In conclusione

Nella vicenda oggetto d'esame già con il d.l. 207 del 2012, come, peraltro, interpretato dalla sent. cost. 85 del 2013, si era finito sostanzialmente per configurare un tipo di sequestro che non inibisce del tutto la prosecuzione delle attività produttive degli stabilimenti sottoposti a sequestro preventivo, ma ne consente la prosecuzione seppure a determinate condizioni previste dal provvedimento normativo.

L'art. 104-bis disp. att. c.p.p., inserito dall'art. 2, comma 9, lett. b), l. 15 luglio 2009, n. 94, nel dettare le regole sul come procedere all'amministrazione di taluni beni sottoposti a sequestro preventivo, prevede che, qualora il sequestro preventivo abbia ad oggetto aziende, società o beni dei quali è necessario assicurare l'amministrazione, l'autorità giudiziaria nomina un amministratore giudiziario, per garantire la continuità dell'attività produttiva anche durante la pendenza del vincolo cautelare.

La nomina dell'amministratore spetta al giudice che ha disposto il provvedimento di sequestro. Il giudice ha anche il compito di fornire le direttive per l'amministrazione del bene e controllare il corretto svolgimento dell'amministrazione.

In sintesi, dunque, l'adozione del sequestro preventivo di società o beni aziendali non necessariamente implica l'interruzione dell'attività produttiva, rimettendo tale decisione all'organo giurisdizionale.

Nel caso di specie, la peculiarità dello stabilimento (rilevanza strategica nazionale) su cui è ricaduto il sequestro preventivo ha determinato l'intervento del Legislatore e la sostanziale affermazione della necessità di prosecuzione dell'attività d'impresa, ma alle condizioni fissate dal medesimo Legislatore. I diritti costituzionali coinvolti hanno però ricevuto un bilanciamento diverso a seconda del decreto normativo in questione e, così generato, due diverse prese di posizione della Corte costituzionale in termini di conformità ai principi fondanti la Carta fondamentale.

Guida all'approfondimento

BIN, Giurisdizione o amministrazione, chi deve prevenire i reati ambientali?, in Quaderni Costituzionali, 2013.

ONIDA, Un conflitto fra poteri sotto la veste di questione di costituzionalità: amministrazione e giurisdizione per la tutela dell'ambiente, in Rivista telematica Associazione Italiana Costituzionalisti, 2013, n. 3;

PULITANÒ, Giudici tarantini e Corte costituzionale davanti alla prima legge Ilva, in Giur. cost., 2013, p. 1424.

TONINI, Il caso Ilva induce a ripensare gli effetti del sequestro preventivo, in Dir. pen. proc., 2014, 1153;

TRIGGIANI, La misura volta ad evitare il reiterarsi del reato o l'inasprimento dei suoi effetti, in Sequestro e confisca, a cura di M. Montagna, Torino, 2017, 154.

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