Tenore di vita goduto in costanza di matrimonio: archiviato anche nella separazione?

04 Giugno 2018

Il coniuge, inizialmente ritenuto avente diritto al mantenimento, che rifiuta successivamente delle proposte di lavoro, può legittimamente vedersi revocato l'assegno di mantenimento?
Massime

In sede di separazione, l'attitudine al lavoro del coniuge, intesa come effettiva e provata possibilità di svolgimento di un'attività retribuita, costituisce un elemento valutabile ai fini della pronuncia sul riconoscimento del diritto all'assegno di mantenimento.

Il caso

Avverso la sentenza con cui la Corte di Appello di Roma, che nel giudizio di separazione personale, rigettava la doglianza della coniuge riguardante la revoca dell'assegno di mantenimento, la moglie ricorreva per Cassazione, sulla base di due motivi cui resisteva con controricorso il marito.

La Cassazione dichiarava inammissibile il primo motivo e parte del secondo, per violazione del principio di autosufficienza, avendo la parte omesso l'indicazione degli ulteriori motivi di gravame rispetto alla lamentata revoca, nonché chiesto alla Corte un sindacato di merito su una valutazione probatoria. Quanto al secondo motivo lo riteneva manifestamente infondato, in relazione all'art. 156 c.c., non avendo la ricorrente superato la prova positiva della propria capacità a produrre reddito.

La questione

Il coniuge, inizialmente ritenuto avente diritto al mantenimento, che rifiuta successivamente delle proposte di lavoro, può legittimamente vedersi revocato l'assegno di mantenimento? Le ricevute proposte di lavoro possono essere valutate dal giudice al fine di ritenere il coniuge debitore come idoneo al lavoro e quindi capace di produrre guadagno?

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Cassazione dichiarava inammissibile la doglianza, argomentata dalla ricorrente con la violazione dell'art. 156 c.c., ritenendo la coniuge, anche se solo potenzialmente, autosufficiente, essendovi agli atti prova di proposte di lavoro che, laddove accettate, le avrebbero assicurato un reddito adeguato a mantenersi, non potendo viceversa prendere in considerazione la allegata strumentalità delle proposte, per non avere provato la ricorrente tale carattere. Con la ordinanza in commento la Corte ribadisce il principio secondo cui il diritto al mantenimento, va ancorato ad una situazione di effettiva capacità di produrre reddito. Se, in considerazione delle caratteristiche individuali del coniuge e dell'ambiente in cui vive, è provato che il primo è in grado di svolgere un lavoro retribuito adeguatamente, a nulla rileveranno i suoi eventuali ed immotivati rifiuti.

Osservazioni

L'ordinanza in commento, arrivando in seguito a Cass., sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504, permette di fare il punto sullo stato dell'arte in materia di rapporti patrimoniali nel momento in cui il rapporto coniugale “entra in fibrillazione”, nei due momenti della separazione e del divorzio. La stessa ordinanza sembra fare eco alla detta sentenza, enfatizzando l'autosufficienza del coniuge richiedente, ossia la sua capacità a produrre reddito, dando ad intendere di fare dipendere dalla stessa la prima valutazione relativa all'an debeatur del diritto al mantenimento, senza tuttavia dirlo esplicitamente. Accenna alla circostanza che il coniuge cui è diretta la richiesta ha l'onere di provare non già l'autosufficienza economica del richiedente, quanto la di lui/lei possibilità di procurarsi autonomamente una fonte di reddito, disponendo di mezzi adeguati. Con previsione per la richiedente di provare di non aver conseguito l'autosufficienza.

Tuttavia l'ordinanza non contiene alcun riferimento al punto critico del dibattito che tanto sta interessando gli operatori del diritto ossia a quali condizioni il reddito possa essere ritenuto adeguato, limitandosi a omettere ogni riferimento al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, che pure è stato finora costantemente invocato in provvedimenti simili.

In termini generali si deve ricordare come a lungo la gestione dei rapporti patrimoniali dei coniugi, nella fase della crisi del rapporto, sia ruotata intorno al principio cardine della solidarietà post-coniugale. Principio imposto dal contesto socio-economico che, seppure caratterizzato a fare data dalla riforma del diritto di famiglia da una formale uguaglianza dei diritti dei coniugi, doveva pure fare i conti con una realtà in cui le reciproche posizioni rimanevano difformi, con le mogli generalmente nel ruolo di casalinghe e i mariti protagonisti del mondo del lavoro: con tutto ciò che ne conseguiva rispetto alla effettiva possibilità delle prime di produrre reddito e al contributo, viceversa, loro offerto affinché i secondi venissero messi nella condizione di produrlo. Il “diritto vivente” regolamentava i momenti di crisi del rapporto assicurando che venisse garantito al coniuge economicamente più debole non solo la possibilità di essere mantenuto, ma di continuare a godere dello stesso tenore di vita avuto in costanza di matrimonio. Questo orientamento, in ragione del mutare della società, è stato progressivamente messo in discussione, perché sempre più anacronistico. La frequenza dei divorzi, la breve durata dei matrimoni, il nuovo ruolo socio-economico della donna, la crisi economica, che metteva sempre più in difficoltà il coniuge economicamente più forte, costretto spesso a vedere peggiorato il proprio tenore mantenendo elevato quello dell'ex, il diritto alla formazione di una nuova famiglia, la iniquità di accollare sul singolo le difficoltà di un welfare sempre più depauperato, l'esigenza di estirpare inattuali forme di parassitismo e non ultimo una libera esigenza di armonizzazione del nostro diritto con quello europeo, hanno portato a formulare una istanza di rivisitazione della materia. I passaggi non sono stati così lineari nel tempo e la giurisprudenza ha percorso strade talvolta molto diverse nel rispondere alle istanze espresse dalla applicazione pratica ora della separazione ora del divorzio spingendosi a pronunce discordanti anche all'interno del medesimo istituto.

Nell'ambito della separazione il tenore letterale dell'art. 156 c.c. ha imposto una interpretazione granitica fino ai nostri giorni. La previsione secondo cui «il giudice, pronunciando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri», e aggiungendo, al comma 2, che «l'entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell'obbligato», è stata letta dall'interprete nei termini di un diritto al mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione e che ne faccia domanda, allorché sia privo di privo di redditi utili a mantenere un tenore di vita, tendenzialmente analogo a quello goduto durante la convivenza, o a quello di cui avrebbe potuto godere, nella prospettiva di attualizzazione delle potenzialità economiche complessive dei coniugi. Il diritto al mantenimento sorgeva allorché, confrontando i mezzi a disposizione del coniuge richiedente con il tenore di vita della coppia, i primi non fossero adeguati a mantenere il secondo.

La storia dell'assegno divorzile è stata più variegata in ragione del susseguirsi delle riforme normative. L'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970 stabiliva un rapporto direttamente proporzionale tra l'assegno, le proprie sostanze e i propri redditi. A maggiore ricchezza corrispondeva una maggiore contribuzione. Nella nuova formulazione dell'art. 5, comma 6,legge n. 898/1970, così come sostituito dall'art. 10 legge n. 74/1987 l'assegno divorzile è previsto “solo quando” uno dei due coniugi non abbia mezzi adeguati o comunque non possa procurarseli per ragioni oggettive. Prevedendo che la sua entità venisse decisa in base ai criteri indicati nei commi seguenti.

Rispetto all'adeguatezza dei mezzi economici del richiedente alcuni la “ancoravano” ad un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso, altri al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Il contrasto fu superato dalla Corte di Cassazione, S.U., n. 11490/1990 a favore del secondo indirizzo. Con il tempo si consolidò l'orientamento che subordinava l'attribuzione di un assegno di divorzio alla mancanza di “mezzi adeguati”, rispetto alla conservazione del tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio. L'accertamento si articolava in una prima fase relativa all'an debeatur, ancorata alla inadeguatezza dei mezzi o all'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, rispetto al tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, in una successiva fase in cui veniva determinato in concreto l'ammontare dell'assegno, sulla base dei criteri indicati nello stesso art. 5 l. n. 898/1970, utili a moderare e/o diminuire la somma individuabile in astratto.

Tuttavia il consolidarsi di un diverso assetto socio economico ha fatto maturare l'insofferenza nei confronti del “diritto vivente”, per l'eccesso di solidarietà, per la contraddizione logica che creava tra lo scopo del divorzio, rappresentato dalla cessazione del matrimonio e i suoi effetti e perché dava una configurazione anacronistica della famiglia. Con incidente costituzionale il Tribunale di Firenze (ordinanza del 22 maggio 2013) denunciò il contrasto dell'art. 5 l. n. 898/1970, con gli artt. 2, 3 e 29 Cost.. Tale contrasto non venne ritenuto ammissibile dalla Corte alla luce degli ulteriori parametri utilizzabili ai fini del decidere: la condizione e il reddito dei coniugi, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla formazione del patrimonio comune, la durata del matrimonio e le ragioni della decisione.

Nonostante ciò il diritto vivente è rimasto per anni radicato al criterio del tenore di vita, mortificando le esigenze espresse dalla mutata società.

In questo contesto si inserisce la pronuncia della Cass., 10 maggio 2017, n. 11504 il cui ragionamento si fonda su alcune parole chiave:

  • estinzione del matrimonio conseguente al divorzio;
  • recupero dello stato di persone singole in capo ai coniugi, anche nei rapporti economico-patrimoniali, con il venire meno del reciproco dovere di assistenza morale e materiale;
  • permanenza del dovere di solidarietà economica di cui all'art. 2 in relazione all'art. 23, Cost, il cui adempimento è richiesto ad entrambi gli ex coniugi, quali "persone singole", a tutela della "persona" economicamente più̀ debole (cd. solidarietà̀ post-coniugale).

Precipitato logico di tale argomentare il principio secondo cui l'assegno divorzile non spetterebbe se il richiedente ha una condizione reddituale e patrimoniale tale da renderlo autosufficiente economicamente, a nulla rilevando che non possa mantenere ex se il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Nella successiva fase della quantificazione, per il principio di solidarietà̀ economica dell'ex coniuge obbligato nei confronti dell'altro (artt. 2 e 23 Cost.), potranno essere presi in considerazione tutti gli elementi indicati dalla norma: condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio.

La sentenza tuttavia ha omesso di indicare quando il reddito possa essere adeguato alla autosufficienza economica. Lasciando spazio ad interventi standardizzanti come quelli che hanno fatto riferimento, seppure come parametro non esclusivo, all'ammontare degli introiti che consente a un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato o a quelli in cui è stato suggerito il reddito medio percepito nella zona in cui il richiedente vive ed abita.

Di contro in altre sentenze si è lamentato che una rigida applicazione dei principi indicati dalla Cassazione frustrerebbe le esigenze espresse dalle singole e diverse storie degli ex coniugi (cfr. ex multis Trib. Roma 11 settembre 2017, n. 16887).

Quali ricadute ha questo nuovo orientamento sulla separazione?

Separazione e divorzio hanno visto nel tempo assottigliarsi i lori confini temporali e sostanziali, con il venire meno in capo alla separazione della sua funzione di sospensione della vita matrimoniale, ai fini di una sua ripresa, assumendo la stessa le caratteristiche di una vera e propria breve anticamera del divorzio. Sarebbe quanto mai opportuno rendere uniformi le discipline dei due istituti, diversamente si andrà sempre più incontro al rischio di pronunce, temporalmente ravvicinate tra di loro, e diametralmente opposte tra loro, in cui un coniuge si vedrà accordato un mantenimento ex art. 156 c.c. per poi vedersi negato un assegno divorzile.

La sentenza della Cassazione n. 11504/2017 e l'ordinanza in commento mostrano di essere sensibili ai mutamenti della realtà sociale ma ciascuna, nei rispettivi campi, non indica con chiarezza i criteri da seguire nei singoli. Entrambe non hanno varcato la soglia della fase destruens, come se l'obiettivo di demolire il pilastro del tenore di vita fosse assorbente, omettendo di costruire un armonico sistema costituito dai diversi criteri e dalle regole utili a farli interagire tra di loro. É attesa a breve una pronuncia delle SU della Cassazione, cui la questione è stata rimessa.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.