L'obbligo di mantenimento nel contratto di convivenza

Andrea Vitali
12 Giugno 2018

La legge 20 maggio 2016, n. 76, nel tratteggiare i diritti e i doveri che spettano reciprocamente ai conviventi di fatto, ha volontariamente omesso l'esistenza di un diritto al mantenimento dopo la cessazione della vita comune, in favore, invece, di un semplice e, invero, quasi irrealizzabile diritto agli alimenti a favore del convivente che versi in stato di bisogno.L'Autore, dopo aver analizzato le ragioni di un simile atteggiamento anche alla luce delle precedenti proposte legislative, pone l'accento sullo strumento dell'autonomia privata che lo stesso Legislatore ha consentito di utilizzare ai conviventi di fatto per regolare i propri aspetti patrimoniali (il contratto di convivenza), al fine di valorizzare comportamenti di tipo solidaristico anche dopo la cessazione della convivenza.
La legge 20 maggio 2016 n. 76 e le precedenti formulazioni

Il tema delle famiglie di fatto e della loro regolamentazione ha iniziato a interessare il Parlamento italiano a partire dagli anni 80' del secolo scorso, quando furono presentate le prime proposte di legge volte a regolamentare un fenomeno che stava sempre più prendendo piede nella società italiana, a discapito del ruolo totalizzante che sino ad allora aveva assunto il modello di vita matrimoniale; tuttavia, si è dovuto attendere fino agli inizi degli anni 2000 prima di vedere compiute discussioni sul tema, con i progetti volti all'introduzione dei «Patti civili di solidarietà» – Pacs (C. 3296 della XIV Legislatura) e dei «Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi» – Di.Co. (S. 1339 della XV Legislatura).

Entrambe le proposte menzionate, pur modellando i diritti dei conviventi sulla falsariga di quelli coniugali, prevedevano però una limitata solidarietà economica dopo la cessazione della convivenza, poiché solamente al manifestarsi dello stato di bisogno di una parte avrebbe potuto seguire il pagamento di un assegno alimentare da parte del convivente economicamente più forte: nessun automatismo, dunque, tra la cessazione della vita comune e il diritto al mantenimento.

Diversamente si era orientata l'originaria proposta della Legge recante la «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze» (S. 2081 della XVII Legislatura), in cui all'art. 15 si prevedeva, accanto alla possibilità di avanzare domanda per gli alimenti qualora alla cessazione della vita comune il convivente più debole versasse in condizioni di bisogno, anche l'ipotesi di un vero e proprio diritto al mantenimento, da stabilirsi dal giudice «per un periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza» e ove ricorressero i presupposti di cui all'art. 156 c.c.. La norma, dunque, nella sua primaria intenzione voleva assicurare al convivente di fatto più debole cui non fosse addebitabile la rottura della vita comune una sorta di “periodo cuscinetto” in cui avrebbe potuto godere, si ipotizza, del medesimo tenore di vita presente durante la convivenza, con una sorta di assegno a tempo che avrebbe dovuto idealmente scongiurare l'aggravio economico derivante dalla rottura del rapporto.

Durante la discussione parlamentare, tuttavia, il testo è stato profondamente modificato, sull'assunto che sembrava eccessivo porre un vincolo tipicamente riconducibile al matrimonio (quale è, appunto, il diritto al mantenimento) anche a coloro che volontariamente rifuggivano quelle limitazioni e quei doveri creati dall'istituto stesso, in favore di una più libera e autonoma convivenza.

Pertanto, l'unica ipotesi di solidarietà economica post-convivenza, oltre al limitato diritto abitativo di natura successoria (cfr. V. Tagliaferri, La successione del convivente e il diritto di abitazione attribuito a causa di morte, in Ilfamiliarista.it), si è poi tradotta, nel testo definitivamente approvato, nella previsione di un diritto alimentare, i cui presupposti sono parsi tuttavia di difficile realizzazione, dal momento che l'ex convivente di fatto è chiamato ad adempiere all'obbligo solo in subordine alla quasi totalità dei familiari dell'avente diritto e, peraltro, per un periodo limitato nel tempo e calcolato sulla durata della convivenza stessa.

L'inserimento della clausola di mantenimento nel contratto di convivenza

La legge n. 76/2016 ha introdotto una nuova figura contrattuale nel nostro ordinamento, destinata ad essere utilizzata dai conviventi per regolare il proprio ménage familiare e, soprattutto, le questioni patrimoniali attinenti alla vita comune. Senza soffermarsi eccessivamente sugli aspetti che possono essere disciplinati dal contratto di convivenza (si rinvia, in proposito, a A. Simeone, P. Zanoni, Contratti di convivenza, in Ilfamiliarista.it; S. Molfino, Il contratto di convivenza: forma e contenuto, in Ilfamiliarista.it), la previsione contenuta nell'art. 1, comma 53, lett. b) consente ai conviventi di inserire nel contratto «le modalità di contribuzione necessarie alla vita comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alle capacità di lavoro professionale o casalingo».

La disposizione, opportunamente generica nella sua formulazione, permette quindi alle parti di declinare le proprie esigenze all'interno di clausole dalla natura più varia possibile, nonché di prevedere delle modifiche ai regimi di contribuzioni in caso di eventi sopravvenuti durante la convivenza quali, per esempio, la nascita di un figlio o la perdita del posto di lavoro.

La genericità della previsione della lett. b) non deve tuttavia portare ad affermare che il possibile oggetto del contratto non possa estendersi verso altre pattuizioni, sulla scorta del fatto che l'elenco disposto dal comma 53 non è tassativo; è vero che le tre previsioni ivi contenute esauriranno, nella maggior parte dei casi, il contenuto voluto dalle parti, ma si possono immaginare anche scenari diversi, in cui l'oggetto del contratto si riferisca anche ad obblighi da eseguire dopo la rottura del rapporto.

Così, nel contratto di convivenza potranno essere inserite pattuizioni volte a derogare in meliusquei diritti che la Legge accorda ai conviventi di fatto dopo la cessazione della convivenza. Si può immaginare, pertanto, che i conviventi di fatto regolino il pagamento dell'eventuale assegno alimentare (nel quantum o nel quomodo), senza tuttavia scendere al di sotto di quella soglia minima che viene riconosciuta nel carattere inderogabile degli alimenti (lo stato di bisogno).

Ben più rilevante, e, invero, di maggior tutela per la parte economicamente più debole, è la clausola con la quale un convivente si obbliga a mantenere l'altra parte alla cessazione della convivenza: non pare che tale pattuizioni contrasti con l'ordine pubblico, dovendosi anzi rilevare come la stessa sia portatrice di un interesse costituzionalmente apprezzabile, concretizzando quei doveri di solidarietà postulati dall'art. 2 Cost..

É chiaro, poi, che in questo ambito l'autonomia privata non incontra particolari limiti, dovendosi ritenere che, al contrario, dovrebbero essere favoriti e incentivati strumenti che, senza operare una indebita coercizione della persona, possano permettere al convivente che, in ipotesi, abbia dedicato la propria vita alla famiglia e alla crescita dei figli di ottenere una somma destinata al riequilibrio delle sostanze patrimoniali della famiglia di fatto. Si badi: la situazione fattuale non è così diversa rispetto alla famiglia matrimoniale, in cui tuttavia l'obbligo di mantenimento discende esclusivamente da obblighi legali e non dall'assunzione volontaria di obbligazioni di natura pattizia.

Pertanto, si potranno immaginare clausole dirette al mantenimento destinate a durare solo per un definito lasso di tempo, clausole volte a garantire un sostentamento economico fintantoché il convivente più debole non abbia raggiunto l'autosufficienza economica, ovvero ancora clausole dirette a riequilibrare quelle situazioni patrimonialmente disomogenee che si erano create durante la convivenza (si pensi, per esempio, all'ipotesi in cui il convivente più debole abbia speso i suoi risparmi per ristrutturare la casa familiare intestata all'altra parte).

Per certi versi, a voler ricercare un parallelismo, tali pattuizioni non risulterebbero distanti dai cd. patti prematrimoniali, in cui i coniugi disciplinano “ora per allora” le conseguenze economiche del divorzio (cfr. V. De Vellis, Patti prematrimoniali, in Ilfamiliarista.it), con il vantaggio che quelle previste nel contratto di convivenza non sconterebbero, ovviamente, tutte quelle critiche che riguardano il contrasto con i doveri coniugali, l'indisponibilità dell'assegno divorzile e l'elusione del vaglio di equità da parte del Tribunale.

Un problema interpretativo: il comma 56 e il suo necessario superamento

L'inserimento di clausole volte al mantenimento del convivente di fatto dopo la cessazione della convivenza sconta, in verità, un problema di compatibilità con il comma 56, che sancisce che «il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione» e che «nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non apposti».

È evidente, ad una prima lettura, che la norma sembra limitare enormemente l'autonomia privata dei contraenti, i quali potrebbero trovarsi ad essere ingabbiati all'interno di pattuizioni solamente “pure”, contrarie alla propria reale volontà e, soprattutto, non coerenti con gli interessi che vorrebbero perseguire. La disposizione manca anche di una propria coerenza sistematica, poiché da un lato vieta l'inserimento di elementi accessori ad un contratto senza una apparente ratio (se non quella di avvicinare lo stesso ad altri negozi familiari di natura non contrattuale, quali la dichiarazione di matrimonio o l'accettazione dell'eredità) e, dall'altro, mostra una disarmonia testuale facendo riferimento a “termine” e “condizione” prima al singolare e poi al plurale.

In questo senso, è stato proposto in dottrina che il divieto sia da interpretarsi nel senso che non possano essere apposti termini o condizioni al contratto di convivenza inteso nel suo complesso, ferma restando la possibilità per i conviventi di pattuire singole clausole sottoposte ad un elemento accidentale. In altre parole, le parti non potrebbero prevedere di subordinare (o di far cessare) gli effetti del contratto di convivenza ad una circostanza futura ed incerta ovvero far decorrere gli stessi da una precisa data, ma non si porrebbero dubbi allorquando solo una clausola del contratto, come è appunto quella destinata a garantire il mantenimento alla cessazione della convivenza, sia sottoposta a condizione. Tale clausola, peraltro, non sconterebbe neppure problemi di illiceità, qualificandosi, tutt'al più, come una condizione potestativa (e non meramente potestativa), potendosi ravvisare nella cessazione della convivenza un serio ed apprezzabile elemento che, pur rimanendo nella volontà della parte, non dipende esclusivamente dal suo mero arbitrio (cfr., da ultimo, Cass. civ, sez. I, 20 gennaio 2017, n. 1586).

In conclusione: il contratto come realizzazione di una solidarietà post-convivenza

La disciplina delle convivenze di fatto introdotta dalla legge n. 76/2016, se da un lato ha avuto il merito di tradurre (parzialmente) quei diritti e doveri che la giurisprudenza e leggi di dettaglio avevano esteso, negli anni, anche alla famiglia non fondata sul matrimonio, dall'altro ha abdicato quasi totalmente ad introdurre previsioni di carattere solidaristico dopo la rottura del rapporto di fatto, sull'assunto che l'autonomia dei conviventi e la maggiore libertà del vincolo assunto non dovessero ricevere indebite compressioni derivanti da strascichi di natura patrimoniale. La soluzione, pur trovando una propria ragionevolezza nella diversità con l'istituto matrimoniale, non deve essere tuttavia di ostacolo alla possibilità che siano i conviventi stessi a inserire nel contratto con cui disciplinano i propri rapporti patrimoniali clausole volte al mantenimento che possano attenuare le possibili conseguenze negative che la rottura della convivenza rischia di portare con sé.

Clausole volte a derogare in melius quei minimi diritti di natura patrimoniale che la Legge ha riservato, ovvero volte a prevedere contributi economici da versare dopo la cessazione della convivenza sono, pertanto, meritevoli di tutela e dovrebbero essere incoraggiate ogniqualvolta trovino la propria giustificazione nella disparità economica tra i conviventi di fatto o in dinamiche familiari analoghe a quelle che si presentano nel matrimonio (specie con riguardo al sacrificio che potrebbe portare un convivente ad abbandonare la propria posizione lavorativa per dedicarsi alle cure dei figli).

Guida all'approfondimento

D. Achille, Il contenuto dei contratti di convivenza tra tipico e atipico, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 1570 ss.;

C.M. Bianca (a cura di), Le unioni civili e le convivenze, Torino, 2017;

G. Buffone, M. Gattuso, M.M. Winkler, Unione civile e convivenza, Giuffrè, 2017;

M. Colella, Rapporti patrimoniali tra conviventi e uso dello strumento contrattuale, in Fam. pers. succ., 2012, 752 ss.;

S. Delle Monache, Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale, in Riv. dir. civ., 2015, 944 ss.;

G. Di Rosa, I contratti di convivenza, in Nuove leggi civ. comm., 2016, 694 ss.;

U. Perfetti, Autonomia privata e famiglia di fatto. Il nuovo contratto di convivenza, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1755 ss.;

F. Tassinari, Il contratto di convivenza nella l. 20 maggio 2015, n. 76, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1745 ss.;

G. Villa, Il contratto di convivenza nella legge sulle unioni civili, in Riv. dir. civ., 2016, 1319 ss.

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