La pensione di reversibilità non dev’essere detratta dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal superstite
18 Giugno 2018
Massima
Dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall'Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto. Il caso
Il coniuge superstite della vittima di un sinistro stradale aveva richiesto al responsabile ed alla Compagnia di assicurazioni di quest'ultimo il risarcimento di tutti i danni patiti, ivi compreso quello – di natura patrimoniale – consistente nella perdita del contributo economico fornitole, in vita, dal de cuius. Nondimeno, tanto il Tribunale quanto la Corte di Appello rigettavano la domanda con riguardo a tale specifica voce di danno, atteso che la superstite - godeva di redditi superiori a quelli prodotti dal de cuius (per l'effetto era da escludersi che quest'ultimo destinasse, in favore della prima, parte del proprio reddito) e, in ogni caso, - aveva maturato - proprio a seguito della morte del coniuge - il diritto al trattamento di reversibilità, pari al 60% della pensione percepita dalla vittima al momento del sinistro (per l'effetto era da escludersi a priori che la superstite avesse patito il danno lamentato). Gli eredi dell'attrice (anch'ella nel frattempo deceduta) proponevano, dunque, ricorso per Cassazione, richiamando il consolidato principio di diritto, più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui l'importo capitalizzato della pensione di reversibilità non deve essere decurtato dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno patrimoniale, atteso che l'emolumento previdenziale conseguito dal danneggiato troverebbe titolo non nell'illecito aquiliano ma in una norma di legge (in tal senso, ex multis Cass. civ., 10 marzo 2014 n. 5504). La questione
Invero, tale principio era stato messo in discussione da Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2014 n. 13537, che era giunta ad opposte conclusioni, muovendo una serrata critica alle ragioni poste alla base di quell'orientamento giurisprudenziale. In particolare, stando a quanto osservato dal relatore di quell'isolata pronuncia, la prevalente giurisprudenza di legittimità si sarebbe da sempre espressa in favore del cumulo di risarcimento e pensione di reversibilità sulla base di erronea interpretazione dell'istituto della c.d. compensatio lucri cum damno, e cioè procedendo dall'erronea convinzione secondo cui tale istituto imporrebbe sì di tener conto, nella liquidazione del danno, di tutti i vantaggi patrimoniali conseguiti dal danneggiato, ma solo a condizione che gli stessi trovino fonte nell'illecito e non in un differente titolo. Ebbene, si rileva in quella pronuncia, l'istituto della compensatio - ove inteso nei termini di cui all'orientamento tradizionale - non potrebbe trovare di fatto alcuna applicazione, dal momento che “è assai raro (se non impossibile) che un fatto illecito possa provocare da sé solo, e cioè senza il concorso di nessun altro fattore umano o giuridico, sia una perdita, sia un guadagno”. Al contrario, l'istituto in questione dovrebbe essere inteso come un mero corollario della regola contenuta nell'art. 1223 c.c., che imporrebbe di tener conto – nell'accertamento e nella quantificazione del danno - di tutte le utilità eventualmente percepite dal danneggiato a seguito dell'illecito. Diversamente opinando, “si perverrebbe alla assurda conseguenza che il patrimonio complessivo del nucleo familiare della vittima sarebbe paradossalmente accresciuto in conseguenza del decesso” e ciò violerebbe il c.d. principio dell'indifferenza del risarcimento (secondo cui il pagamento del risarcimento deve riportare il danneggiato nella medesima situazione patrimoniale in cui si sarebbe trovato ove l'illecito non si fosse verificato). Ancora più assurdo sarebbe, poi, che tale incremento patrimoniale vada a gravare sulla collettività intera; ed infatti, sempre a dire del relatore di Cass. civ., n. 13537/2014, ove si ammettesse che il danneggiato possa cumulare risarcimento e trattamento di reversibilità, a quel punto l'assicuratore sociale sarebbe di fatto privato della facoltà di agire in surrogazione nei confronti del responsabile (il quale, col pagamento del risarcimento in favore del danneggiato, estinguerebbe integralmente la propria obbligazione). A fronte del contrasto giurisprudenziale di cui sopra, la III Sezione della Corte (con ordinanza n. 15536/2017) aveva dunque richiesto l'intervento delle Sezioni Unite cui veniva posto il seguente quesito di diritto: «se il risarcimento del danno patrimoniale patito dal coniuge di persona deceduta, e consistito nella perdita dell'aiuto economico offertole dal defunto, va liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della pensione di reversibilità attribuita al superstite». Peraltro, occorre rilevare come Cass. civ., n. 13537/2014, nel muovere una critica generale all'interpretazione corrente del principio della compensatio lucri cum damno, abbia reso necessario un chiarimento circa la possibilità di “scomputare” dal risarcimento anche altre tipologie di benefici, differenti dalla reversibilità, che il danneggiato potrebbe eventualmente conseguire per effetto dell'illecito. Tant'è che l'intervento delle Sezioni Unite era stato richiesto anche nell'ambito di altri procedimenti incardinati davanti alla Corte, aventi ad oggetto le differenti ipotesi in cui il danneggiato aveva percepito l'indennizzo erogato dall'assicuratore privato (Cass. civ., ord. n. 15534/2017), la rendita INAIL (Cass. civ., ord. n. 15535/2017) e l'indennità di accompagnamento (Cass. civ., ord. n. 15537/2017). Pertanto, nel pronunciarsi sui differenti quesiti posti con le ordinanze di rimessione di cui sopra, il Supremo consesso è stato chiamato a svolgere un'analisi per “categorie” di benefici, e ciò anche in ragione delle attribuzioni processuali delle Sezioni Unite, «alle quali è affidata … la soluzione di questioni di principio di valenza nomofilattica pur sempre riferibili alle specificità del singolo caso della vita» (così le Sezioni Unite nelle quattro pronunce, tra cui quella in commento, del 22 giugno 2018 nn. 12564, 12565, 12566 e 12567). D'altro canto, per poter rispondere ai quattro quesiti, le Sezioni Unite hanno dovuto in ogni caso indagare - in termini generali - la questione relativa ai limiti ed alla portata del principio della compensatio lucri cum damno (non è stata, invece, oggetto di analisi la fattispecie in cui «pur in presenza di titoli differenti, vi sia unicità del soggetto responsabile del fatto fonte di danni ed al contempo obbligato a corrispondere al danneggiato una provvidenza indennitaria. In queste ipotesi» - precisano le Sezioni Unite – «vale la regola del diffalco, dall'ammontare del risarcimento del danno, della posta indennitaria avente una cospirante finalità compensativa … venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto» – sul punto cfr. Cass. civ., Sez. Un., 14 marzo 2013, n. 6573; più di recente cfr. Cons. Stato, Ad. Pl., 23 febbraio 2018, n. 1 con commento di PENTA A., L'Istituto della compensatio lucri cum damno: il punto di vista del giudice amministrativo, in Ridare.it). Procediamo dunque con ordine. Le soluzioni giuridiche
1) La soluzione delle Sezioni Unite: funzione del beneficio… Occorre sin da subito rilevare come le Sezioni Unite condividano l'assunto da cui muove Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2014 n. 13537, e cioè quello secondo cui l'istituto della compensatio lucri cum damno troverebbe la propria collocazione nell'art. 1223 c.c.. Ed infatti, tale norma, nel prevedere che il risarcimento del danno deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, “implica in linea logica che l'accertamento conclusivo degli effetti pregiudizievoli tenga conto anche degli eventuali vantaggi collegati all'illecito”. In particolare, si legge nella sentenza, l'istituto della compensatio trova il proprio fondamento nell'idea del «danno risarcibile quale risultato di una valutazione globale degli effetti prodotti dall'atto dannoso». Le Sezioni Unite condividono inoltre l'obiezione che Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2014 n. 13537 muove al prevalente orientamento di legittimità, e cioè quella secondo cui «è assai raro che le poste attive e passive abbiano entrambe titolo nel fatto illecito». D'altro canto, il Supremo consesso dichiara espressamente di non potersi neppure spingere «fino al punto di attribuire rilevanza a ogni vantaggio indiretto o mediato, perché ciò condurrebbe ad un'eccessiva dilatazione delle poste imputabili al risarcimento, finendo con il considerare il verificarsi stesso un merito da riconoscere al danneggiante». Così opinando, infatti, occorrerebbe tener conto anche di tutti quei vantaggi che potrebbero sì conseguire all'illecito ma per effetto di un'autonoma scelta del danneggiato (come nel caso del superstite, prima inoccupato, che intraprenda, a seguito del sinistro, un'attività lavorativa). E ancora, occorrerebbe tener conto degli eventuali vantaggi patrimoniali che il superstite potrebbe conseguire per effetto della successione ereditaria, così come – aggiungiamo noi – occorrerebbe negare la sussistenza di un danno nel caso in cui, nelle more del giudizio nei confronti del responsabile, il genitore del danneggiato si induca a "regalargli" una nuova autovettura in sostituzione di quella andata distrutta all'esito di sinistro stradale (per utilizzare un esempio a suo tempo addotto, a sostegno dell'orientamento tradizionale, da Cass. civ., n. 20548/2014). In altri termini, aderendo alla tesi fatta propria da Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2014 n. 13537, l'istituto della compensatio lucri cum damno si tradurrebbe in un'acritica regola contabile, che prescinde da qualsivoglia indagine sulla ragione che giustifica l'incremento patrimoniale conseguito all'illecito. Al contrario, affermano le Sezioni Unite, occorre guardare alla funzione di quel beneficio “collaterale” che trova fonte in un differente titolo e, in particolare, verificare se l'attribuzione di quel vantaggio abbia proprio la finalità di rimuovere il pregiudizio prodotto dall'illecito; poiché solo a tale condizione è “ragionevole” procedere con la decurtazione. In tal senso muovono le più evolute regole dell'ermeneutica giuridica. Il paragrafo 10:103 dei Principles of European Tort Law prevede, infatti, che nella determinazione dell'ammontare del risarcimento si tenga conto di tutti i vantaggi che il danneggiato ha conseguito per effetto dell'evento dannoso, salvo che ciò sia inconciliabile con la finalità propria di quei vantaggi. Tale principio è altresì rinvenibile nel Progetto di Codice Civile Europeo (Draft Common Frame of Reference) all'art. 6:103 del libro VI, che richiede al giudice di tener conto dei benefici percepiti dal danneggiato laddove ciò risulti “equo” e “ragionevole” in considerazione della “finalità” sottesa al beneficio stesso. Alla luce di quanto sopra, «la selezione tra i casi in cui ammettere o negare il diffalco deve essere fatta, dunque, per classi di casi, passando attraverso il filtro di quella che è stata definita la ‘giustizia' del beneficio e, in questo ambito, considerando la funzione specifica svolta dal vantaggio».
2) …e previsione di un meccanismo di surroga/rivalsa L'indagine di cui sopra, tuttavia, non è sufficiente per poter eventualmente procedere con la detrazione del beneficio dal risarcimento. Secondo la Corte occorrerà altresì verificare se l'ordinamento abbia associato alla previsione del beneficio patrimoniale un meccanismo di surroga/rivalsa che consenta al terzo di ottenere dal responsabile quanto pagato in favore del danneggiato per rimuovere (parzialmente o integralmente) il danno. «Se così non fosse» – si legge nella sentenza – «se cioè il responsabile dell'illecito, attraverso il non-cumulo, potesse vedere alleggerita la propria posizione debitoria per il sol fatto che il danneggiato ha ricevuto, in connessione con l'evento dannoso, un provvidenza indennitaria grazie all'intervento del terzo, e ciò anche quando difetti la previsione di uno strumento di riequilibrio e di riallineamento delle poste, si avrebbe una sofferenza del sistema, finendosi col premiare, senza merito specifico, chi si è comportato in modo negligente». In altri termini, ove si potesse procedere con l'operazione di scomputo senza che il terzo possa surrogarsi/rivalersi nei confronti del responsabile, verrebbe irrimediabilmente sacrificata la funzione “poliedrica” della responsabilità civile, che «non ha solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, ma persegue altresì la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria» (così Cass. civ., Sez. Un. n. 16601/2017). D'altro canto, tengono a precisare le Sezioni Unite, solo il legislatore può compiere la scelta di prevedere tale meccanismo di surrogazione/rivalsa: «ad esso soltanto compete, in definitiva, trasformare quel duplice, ma separato, rapporto bilaterale in una relazione trilaterale, così apprestando le condizioni per il dispiegamento dell'operazione di scomputo». Pertanto, in difetto di un simile meccanismo, deve dedursi che il legislatore – nell'ambito della propria discrezionalità – abbia ritenuto di riconoscere un trattamento “di favore” ai danneggiati che, dunque, potranno cumulare risarcimento e beneficio “collaterale”. Del resto, ci pare di poter aggiungere che la previsione di un meccanismo di surroga/rivalsa non solo presidia la funzione (anche) deterrente della responsabilità civile, ma costituisce esso stesso un indice certamente rilevante per comprendere, di volta in volta, se l'emolumento pagato dal terzo abbia o meno finalità indennitaria (e cioè quella di rimuovere il danno). In tal senso, sono le stesse Sezioni Unite ad affermare – in un'altra delle quattro sentenze gemelle del 22 giugno 2018 - che è proprio la previsione di un meccanismo di surroga/rivalsa a «confermare logicamente la funzione compensativa dell'indennità di accompagnamento corrisposta all'invalido civile: una provvidenza che – quando l'invalidità dipenda, come nel caso di specie, dalla responsabilità del medico e della struttura ospedaliera – ha la specifica finalità di concorrere a rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell'illecito o dell'inadempimento e del danno che ne è derivato. In tanto, infatti, si giustifica il ‘recupero' da parte dell'ente erogatore del valore capitale dell'indennità di accompagnamento nei confronti del terzo autore della condotta dannosa, in quanto l'erogazione assistenziale condivide, con il risarcimento del danno, la finalità di riparare il pregiudizio rappresentato dagli oneri di assistenza» (così Cass. civ., Sez. Un. n. 12567/2018).
3) Sulla pensione di reversibilità Ebbene, date queste premesse, le Sezioni Unite escludono che la pensione di reversibilità debba essere decurtata dal risarcimento del danno patrimoniale. Quanto alla “funzione” dell'emolumento, la Corte precisa infatti che l'erogazione della pensione di reversibilità «non è geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell'illecito”, ma costituisce, piuttosto, l'adempimento di una promessa», e cioè quella che, «a far tempo dal momento in cui il lavoratore, prima o dopo il pensionamento, avrà cessato di vivere, quale che sia la causa o l'orgine dell'evento protetto, vi è la garanzia, per i suoi congiunti, di un trattamento diretto a tutelare la conitnuità del sostentamento e a prevenire o ad alleviare lo stato di bisogno». La pensione di reversibilità costituisce, cioè, una specifica tutela previdenziale che protegge i superstiti dall'insorgenza di uno stato di bisogno a seguito della morte del familiare. Oltretutto, l'incremento patrimoniale conseguito dal superstite si ricollega ad un sacrificio economico del lavoratore (che - nel corso della propria vita lavorativa – contribuisce all'assicurazione obbligatoria anche a tal fine) e quindi non costituirebbe un vero e proprio lucro; mentre nel giudizio di responsabilità civile, precisa la Corte, si potrebbe avere una riduzione del danno risarcibile solo nei limiti in cui il danneggiato abbia conseguito un “gratuito vantaggio economico”. In altri termini, il fatto illecito costituisce semplicemente «l'occasione per il sorgere di un'attribuzione patrimoniale che trova la propria giustificazione in un corrispondente e precedente sacrificio». In definitiva, la «causa più autentica di tale benificio» - sempre per utilizzare le parole della Corte – «deve essere individuata nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge: tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente e assorbente rispetto alla circostanza (occasionale e giuridicamente irrilevante) che determina la morte». Da ultimo, la Corte rileva giustamente come il legislatore non abbia comunque previsto alcun meccanismo di surroga/rivalsa che consenta all'assicuratore sociale di ottenere dal responsabile il pagamento dell'importo capitalizzato della reversibilità: ed infatti, nessuna delle norme richiamate da Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2014 n. 13537 (art. 1916, comma 4 c.c.; art. 14 l. n. 222/1984; artt. 41 e 42 l. n. 183/2010) «lascia chiaramente intendere la sussistenza di un subentro dell'Inps nei diritti del familiare superstite, percettore del trattamento pensionistico di reversibilità, verso i terzi responsabili del fatto illecito che ha determinato la morte del congiunto». Il che destituisce di qualsivoglia fondamento l'argomento - tanto suggestivo quanto capzioso - propugnato da Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2014 n. 13537, secondo cui l'ammissione del cumulo di risarcimento e reversibilità precluderebbe ad INPS di agire nei confronti del responsabile, consentendo al contempo al danneggiato di arricchirsi a danno della collettività; è infatti evidente che INPS non può ottenere in via surrogatoria quanto pagato a titolo di reversibilità proprio perché nessuna norma gli attribuisce tale facoltà.
Osservazioni
In definitiva, le Sezioni Unite confermano quanto già avevamo rilevato in un precedente articolo pubblicato su questa rivista, e cioè che sussistono numerosi argomenti – tra cui proprio la mancata previsione di un'azione di surrogazione in favore di INPS – per sostenere che «il trattamento di reversibilità assolva ad una funzione non indennitaria ma previdenziale e che, conseguentemente, tale prestazione possa essere cumulata dal superstite con l'eventuale risarcimento del danno» (per un maggior approfondimento vedi anche CHIRIATTI G., Il principio della “compensatio lucri cum damno” nuovamente al vaglio delle Sezioni Unite, in Ridare.it). E ancora, con riguardo alla più generale questione relativa allo “scorporo” dei vantaggi conseguiti dal danneggiato in occasione dell'illecito, le Sezioni Unite parrebbero aderire a quanto da noi suggerito, sempre in quel precedente commento, e cioè che «occorrerebbe verificare, di volta in volta, se le prestazioni erogate dall'assicuratore privato o sociale in favore del danneggiato in seguito (o in occasione) del sinistro abbiano natura indennitaria (vadano cioè a indennizzare il pregiudizio patito dal danneggiato) e, in quanto tali, siano assistite da un diritto di surrogazione in favore dell'ente erogatore». Ed anzi, una lettura complessiva della quattro sentenze “gemelle” del 22 giugno 2018 consente di ritenere in parte superate le obiezioni da noi mosse a Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2014 n. 13537. Nel nostro precedente commento avevamo infatti rilevato come la tesi propugnata da tale ultima sentenza – e cioè quella secondo cui la compensatio opera già solo nella fase di liquidazione del danno – finisca col pregiudicare il diritto di surrogazione eventualmente riconosciuto all'assicuratore: ove infatti si ritenesse che il pregiudizio patito dal danneggiato (in ipotesi 1.000) sia ‘compensato' dal pagamento della prestazione assicurativa (in ipotesi 1.000), a quel punto nulla sarebbe dovuto dal responsabile al danneggiato; per l'effetto, «difetterebbe a priori l'oggetto stesso del fenomeno surrogatorio (ovvero l'eventuale diritto risarcitorio del danneggiato verso il responsabile) e … , conseguentemente, l'assicuratore non potrebbe in alcun modo recuperare presso il responsabile quanto già pagato al danneggiato/assicurato»; ciò a maggior ragione ove si consideri come la surrogazione dell'assicuratore, almeno secondo il prevalente orientamento di legittimità (ex multis Cass. civ., n. 24806/2005), operi per effetto di un'apposita denunciatio al responsabile (comunicazione che potrebbe essere, come spesso accade, successiva al pagamento dell'indennizzo - salvo il particolare il meccanismo previsto dall'art. 142 d. lgs. n. 209/2005 in ambito RCA). Ebbene, le Sezioni Unite hanno sì accolto la tesi sostenuta da Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2014 n. 13537, ma nondimeno hanno statuito – in un'altra delle pronunce “gemelle” del 22 giugno 2018 - che la surrogazione ex art. 1916 c.c. opera già solo per effetto del mero pagamento dell'indennizzo assicurativo (cfr. Cass. civ., Sez. Un. 22 giugno 2018, n. 12565). In altri termini, la surrogazione sarebbe contestuale al pagamento dell'indennizzo e ciò impedirebbe che tale pagamento possa - per così dire - “estinguere” l'obbligazione del responsabile, il quale, pertanto, resta pur sempre impegnato nei confronti del “nuovo” creditore, e cioè l'assicuratore. E ancora, osserveremo come il percorso argomentativo seguito dalle Sezioni Unite consenta di superare alcune irragionevoli conseguenze cui sarebbe esposto il responsabile (e la sua compagnia assicurativa) nell'ipotesi in cui INPS intenda “recuperare” ex art. 41 l. n. 183/2010 gli importi erogati in favore del danneggiato, che, a seguito dell'illecito, sia stato riconosciuto invalido civile ai sensi della normativa assistenziale (per le prestazioni soggette a “recupero” cfr. D.M. 19 marzo 2013). Ed infatti, INPS aveva tenuto a precisare in una propria circolare (la n. 152 del 27 novembre 2014) come l'azione di “recupero” costituisca un diritto autonomo e distinto da quello dell'assistito, «a differenza dell'azione di cui agli artt. 1916 c.c. e 14 della l. n. 222/1984, che prevedono la surroga dell'Istituto nei medesimi diritti dell'assicurato verso i terzi responsabili e quindi la successione nel lato attivo di un rapporto obbligatorio». Ed è sulla base di questa premessa che, nel nostro precedente commento, avevamo paventato il rischio che il responsabile civile, dopo aver risarcito il danno alla vittima, possa essere ulteriormente percosso da INPS, sulla base di un autonomo titolo che si aggiungerebbe, appunto, a quello aquiliano. Ebbene, nella sentenza gemella n. 12567/2018, le Sezioni Unite aderiscono alla tesi sostenuta da INPS, nondimeno chiariscono – sulla scorta dei medesimi principi riportati nella pronuncia in commento - come l'importo capitalizzato della prestazione assistenziale debba essere detratto dal risarcimento dovuto al danneggiato già al momento della liquidazione del danno. Per l'effetto, sarebbe escluso il rischio di una doppia imposizione patrimoniale a carico del responsabile, ove mai INPS intendesse successivamente “recuperare” l'importo erogato al danneggiato sulla base della legislazione assistenziale. Invero, poggiando l'iniziativa di INPS su di un titolo autonomo e distinto dall'illecito, il responsabile potrebbe comunque esser chiamato a pagare l'importo preteso dall'Istituto a prescindere dall'esatta quantificazione del danno secondo le regole e i parametri civilistici. Ed anche per scongiurare tale aporia avevamo proposto un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 41 l. n. 183/2010 che, aldilà della sua atecnica formulazione («le pensioni, gli assegni e le indennità, spettanti agli invalidi civili ai sensi della legislazione vigente, corrisposti in conseguenza del fatto illecito di terzi, sono recuperate»), riconducesse tale “meccanismo” nell'alveo dell'istituto della surrogazione. Ad ogni modo, a prescindere da tale ultima specifica questione che andrebbe meglio approfondita in separata sede, ci pare che l'intervento delle Sezioni Unite abbia comunque il merito, nel suo complesso, di ricomporre il contrasto giurisprudenziale aperto da Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2014 n. 13537, ricorrendo ad un brillante ed evoluto percorso argomentativo che ben tiene conto delle ragioni poste a fondamento di quella pronuncia, quanto della necessità di vagliare quegli argomenti al filtro del diritto positivo e, in generale, delle più attuali coordinate del sistema di responsabilità civile. |