I compensi del coadiutore dell'Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata

Paolo Florio
19 Giugno 2018

Anche per la liquidazione dei compensi per le prestazioni professionali eseguite quale coadiutore per conto dell'Agenzia nazionale dei beni sequestrai e confiscati (A.N.B.S.C.) trovano applicazione le disposizioni contenute negli artt. 3 e 4 del d.P.R. 177/2015. A stabilirlo il tribunale di Reggio Calabria, Sezione I civile, in composizione monocratica, nel provvedimento del 3 aprile 2018 ...
Abstract

Anche per la liquidazione dei compensi per le prestazioni professionali eseguite quale coadiutore per conto dell'Agenzia nazionale dei beni sequestrai e confiscati (A.N.B.S.C.) trovano applicazione le disposizioni contenute negli artt. 3 e 4 del d.P.R. 177/2015. A stabilirlo il tribunale di Reggio Calabria, Sezione I civile, in composizione monocratica, nel provvedimento del 3 aprile 2018 nel procedimento R.G. n. 1319/2017 a seguito del ricorso ex art.702-bis c.p.c. di un coadiutore nominato dall'A.N.B.S.C. che è stata, inoltre, condannata al pagamento delle spese di giudizio. Il coadiutore, nel ricorso lamentava il «mancato pagamento del compenso per l'attività professionale espletata nell'interesse della resistente, benché più volte sollecitata al pagamento».

Il provvedimento richiamato conferma, da un lato, la competenza del giudice civile per la determinazione del compenso per i coadiutori dell'A.N.B.S.C. nel caso di mancato pagamento (ovvero contestazione dell'importo da parte dell'ente) e dall'altro l'applicazione delle tariffe di cui al d.P.R. 177/2015 e non le tariffe interne dell'A.N.B.S.C.

La sentenza del giudice civile, inoltre, è successiva ad altra sentenza del Tar Lazio depositata il 21 novembre 2016 nel proc. n. 11592/2016 reg. prov. coll. e n. 11069/2016 reg. coll. che, in sostanza conferma quanto statuito dal giudice civile. Sussiste, nel caso di specie, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo («la presente controversia è inerente un diritto di credito che impatta una situazione giuridica di diritto soggettivo pieno») precisando poi che «[] le richiamate disposizioni [artt. 3 e 4 del d.P.R. n. 177/2015], nell'indicare i criteri per la determinazione dell'importo dovuto, non attribuiscono alcun potere discrezionale all'Agenzia, la quale deve compiere soltanto una stima di carattere tecnico volto ad individuare il compenso dovuto, secondo i parametri fissati dalla legge[]». Nei rapporti tra il coadiutore e l'A.N.B.S.C. non possono trovare dunque applicazione le tariffe richiamate nella circolare prot. n. 5792 emessa il 18 marzo 2013 dall'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, contenente disposizione circa la determinazione e la liquidazione dei compensi spettanti per l'attività di amministratore finanziario/coadiutore dell'A.N.B.S.C., secondo l'allegata tabella A, fascia 1, del tribunale di Reggio Calabria, Sezione misure di prevenzione, che, pertanto, possono essere oggetto di contestazione dal professionista nominato che, in termini strettamente procedurali, dovrà ricorrere, secondo il procedimento speciale di cui all'art. 702-bis c.p.c., al giudice civile competente e non a quello amministrativo.

Il d.P.R. 177/2015 costituisce, allo stato, l'unico riferimento normativo per la liquidazione dei compensi degli amministratori giudiziari e coadiutori, iscritti nell'albo di cui al d.lgs. 14/2010, applicabile per tutte le ipotesi di compenso professionali per la gestione di beni oggetto di sequestri e confische di prevenzione, ma anche penali, alla luce delle modifiche introdotte dal d.lgs. 21/2018 contente disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell'articolo 1, comma 85, lett.q), della legge 103/2017, che ha modificato il codice penale, al codice di procedura penale ed alcune leggi speciali quali l'art. 12-sexies del d.l. 306/1992.

Sussistono, tuttavia, alcuni dubbi applicativi che, nonostante le tre distinte sentenze del Tar Lazio (pubblicate il 21 novembre 2017 e di rigetto dei ricorsi presentati dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili (C.N.D.C.E.C) e dall'associazioni degli amministratori giudiziari Ius et gestio ed Inag per l'annullamento del d.P.R. 177/2015) daranno luogo a probabili contenziosi.

Le principali questioni in merito all'applicazione delle tariffe risultano le seguenti.

Inapplicabilità retroattiva delle tariffe

Per come anche confermato nelle sentenze del Tar Lazio sopra citate non sembra possibile applicare le citate tariffe in modo retroattivo. Nelle sentenze del Tar Lazio viene stabilito che il d.P.R. 177/2015 «non ha efficacia retroattiva» e limita «l'applicazione ai soli amministratori giudiziari nominati ai sensi del d.lgs. 159/2011 e non anche alle altre ipotesi di amministratore giudiziario previste dalla legge». Le modifiche introdotte d.lgs. 21/2018 al codice penale, al codice di procedura penale ed alcune leggi speciali quali l'art. 12-sexies del d.l. 306/1992 consentirà certamente l'applicazione del d.P.R. 177/2015 anche alle altre ipotesi di amministratore giudiziario previste dalla legge, ma resta il problema della irretroattività della norma per la quale potrebbero venire in “soccorso” alcuni principi espressi dal Supremo Consesso. Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di tariffe forensi (ma esteso dalla stessa Cassazione anche ai compensi degli amministratori giudiziari e più in genere per tutti i professionisti) per i professionisti si applicano le tariffe vigenti alla conclusione dell'incarico (cfr. Cass. civ., Sez. II Civile, 20 settembre 2017, n. 29217). Assolutamente conforme a tale interpretazione e perfettamente applicabile al caso di specie – poiché si riferisce agli amministratori giudiziari – risultano poi i principi espressi nella recente sentenza della Suprema Corte (Cass. pen., Sez. III, 23 marzo 2017, n. 56441) che così statuisce: «Come, invero, questa Corte ha avuto più volte occasione di precisare, sia pure in sede civile e con riferimento alle tariffe relative alle prestazioni professionali rese dagli avvocati, in caso di successione di tariffe professionali, la liquidazione degli onorari va effettuata in base alla tariffa vigente al momento in cui le attività professionali sono state condotte a termine, identificandosi tale momento con quello dell'esaurimento dell'intera fase rilevante o, per il caso in cui le prestazioni siano cessate prima, con il momento di tale cessazione (Cass. civ. Sez. II, 12 maggio 2010 n. 11482; idem Cass. civ., Sez. III, 11 marzo 2005, n. 5426). […] Ritenuto che tali principi, in ragione della evidente analogia di materia, possano essere tranquillamente applicati anche al caso in esame, atteso che anche nella ipotesi di gestione di un bene da parte dell'amministratore giudiziario è corretto fare riferimento a una attività di carattere professionale che deve essere considerata non atomisticamente ma in senso complessivo, non diversamente da quella svolta in sede di difesa in giudizio da parte dell'avvocato (categoria professionale i cui appartenenti, non a caso, ben possono essere investiti della qualifica di amministratore giudiziario e dei relativi compiti), osserva la Corte che anche in questo caso, premessa la già acquisita necessità di riferirsi per la determinazione dei compensi alle tariffe vigenti per la categoria professionale interessata, deve concludersi nel senso che la individuazione della tabella pertinente vada eseguita, ove l'incarico si sia svolto diacronicamente sotto la vigenza di tabelle diverse succedutesi nel tempo, attraverso l'utilizzazione della tabella applicabile al momento in cui l'incarico si è esaurito o si è, comunque, concluso. È, peraltro evidente che nella determinazione dei compensi il giudice liquidatore avrà la possibilità di esercitare la propria discrezionalità, nei limiti delle forcelle di valore previste dalla tabella professionale di riferimento, valutando – onde meglio calibrare, fra un minimo ed un massimo astrattamente previsti, l'importo del compenso in questione, e giusta la previsione del ricordato art. 2-octies della legge n. 575 del 1965 (ove, come nel presente caso, non sia applicabile alle fattispecie, ratione temporis, quanto previsto dal d.P.R. 7 ottobre 2015, n. 177, recante Regolamento recante disposizioni in materia di modalità di calcolo e liquidazione dei compensi degli amministratori giudiziari iscritti nell'Albo di cui al decreto legislativo 4 febbraio 2010, n. 14, emanato in attuazione, appunto, della previsione contenuta nell'art. 8 del citato d.lgs. 14 del 2010, a sua volta istitutivo dell'Albo degli amministratori giudiziari) – oltre al valore commerciale dei beni patrimoniali amministrati, anche la qualità e la complessità dell'opera prestata dall'amministratore, la sollecitudine dimostrata dal medesimo ed i risultati da lui ottenuti nella gestione dei beni oggetto del suo incarico, potendo in tal modo modulare l'importo dell'effettivo compenso alla reale materialità della opera di volta in volta prestata dal professionista».

Tali principi, tuttavia, non risolvono l'ulteriore problema – che nella prassi si sta verificando – di amministratori giudiziari che hanno ricevuto acconti calcolati secondo le precedenti tariffe (il D.M.140/2012 o quella precedente) e in fase di saldo, applicando il d.P.R. 177/2015, non si trovano alcun compenso o addirittura si trovano a dover restituire parte delle somme ricevute a titolo di acconto sul compenso, quale conseguenze di diversi criteri applicati. È evidente che sussiste anche un problema di legittimo affidamento e di cambiamento delle regole sui compensi (anche in modo riduttivo) mentre la prestazione professionale è ancora in corso per una causa imputabile esclusivamente a un Legislatore “ritardatario” che nel 2010 (con il d.lgs. 14/2010) prevede delle tabelle che, tuttavia, vengono predisposte – a fronte di un termine di 90 giorni contenuto nel d.lgs. 14/2010 – dopo 5 anni, con l'introduzione del d.P.R. 177/2015.

Mancanza di un parametro temporale nel d.P.R. 177/2015

Un problema strettamente connesso a quello dell'applicazione retroattiva delle tariffe del d.P.R. 177/2015 è la mancanza di un parametro temporale di riferimento per la liquidazione del compenso. Il testo, infatti, consente la determinazione del compenso ma non stabilisce a quale periodo di attività professionale si riferisce (un anno, un mese, etc.) con evidenti disparità di trattamento, tenuto conto che l'incarico a seconda della tipologia di sequestro e del periodo in cui è stato disposto ha una durata sensibilmente diversa:

  • nei precedenti sequestri penali e di prevenzione (quelli ex l. 575/1965 ed ante codice antimafia) l'incarico durava fino al terzo grado di giudizio;
  • nel codice antimafia vigente all'epoca in cui è stato emanato il d.P.R. 177/2015 l'incarico durava fino al primo grado di giudizio;
  • nell'attuale versione del codice antimafia, come modificato dalla legge 161/2017, l'incarico dura fino al secondo grado di giudizio.

È evidente come, applicando il giusto principio che il lavoro deve essere remunerato anche in base al tempo nel quale è svolto, per le tre distinte ipotesi, non possa esservi un uguale compenso.

Il problema della mancanza del criterio temporale era stato anche segnalato dalla Sezione consultiva del Consiglio di Stato nel parere al d.P.R. 177/2015 avendo sul punto osservato che «nel testo manca qualsiasi indicazione sui parametri temporali per il calcolo dei compensi, che, avuto riguardo al modello delle procedure concorsuali preso a riferimento, dovrebbero ragionevolmente rapportarsi all'arco annuale o a frazione di esso. L'inserimento di una disposizione chiarificatrice risulterebbe utile anche per prevenire eventuali contenziosi».

Per quanto a conoscenza i tribunali che decidono sulle liquidazioni sembrano invece orientati a rapportare il compenso calcolato dal d.P.R. 177/2015 a 30 mesi, considerato quale probabile durata del primo grado di giudizio. Si riporta, in tal senso, lo stralcio di un recente provvedimento del tribunale di Catanzaro, Sez. Gip, depositato il 18 dicembre 2017 nel proc. al n. 497/2005 R.G.N.R.; n. 619/2015 R.G. Gip che così precisa: «Secondo quanto sostenuto nella Relazione Governativa, il compenso che viene a determinarsi dovrebbe essere riferibile al “compenso dovuto sino alla confisca di primo grado (il cui procedimento può durare non più di trenta mesi, a norma dell'art. 24, comma 2, del codice antimafia [...]). Tale circostanza, ovvero l'assenza di un “parametro temporale” previsto dalla tariffa costituisce un vulnus insuperabile della normativa vigente in quanto frutto della erronea visione “liquidatoria” di una procedura che, in particolare nella fase di primo grado, non può che essere di natura “conservativa” e “gestoria” in una logica di continuità aziendale, coerente alla natura cautelare del procedimento. Tuttavia, si ritiene, prudenzialmente, in questa fase, di seguire la logica indicata dal Legislatore ed individuare nella durata di trenta mesi il parametro da utilizzare per la determinazione del compenso complessivo da cui determinare il richiesto saldo».

Il criterio della prevalenza della gestione più onerosa nel d.P.R. 177/2015

Ulteriori dubbi applicativi sussistono in ordine all'applicazione del criterio della prevalenza contenuto nell'art. 3, comma 6, del d.P.R. 177/2015 che prevede «Nel caso in cui sono oggetto di sequestro patrimoni che comprendono beni rientranti in almeno due delle categorie indicate alle lettere a), b), c) e d) del comma 1, si applica il criterio della prevalenza della gestione più onerosa. Il compenso per tale gestione, individuato a norma dei commi 1 e 2, è maggiorato di una percentuale non superiore al 25 per cento per ogni altra tipologia di gestione ed in relazione alla complessità della stessa».

Alcuni tribunali applicano la disposizione suddetta (che era stata prevista dal Legislatore per limitare alcuni specifici casi di “doppio compenso”) in ogni procedimento ed in modo riduttivo del compenso, limitando in modo considerevole gli importi liquidati per attività effettivamente svolta dal professionista.

Tale applicazione comporta un'illegittima “compressione” del compenso, rispetto all'opera prestata, attraverso un'interpretazione del tutto lontana dalla stessa finalità del Legislatore del d.P.R. 177/2015, che voleva – correttamente – disciplinare alcuni specifici casi in cui lo stesso bene (ad esempio un immobile o un'azienda) rientrasse in più categorie, evitando così ingiustificate duplicazioni di compenso: è questo il caso ad esempio dell'immobile aziendale (sequestrato sia autonomamente che come immobile dell'azienda) ovvero quello dell'azienda che prima può essere gestita direttamente e poi affidata a terzi (rientrando così in due categorie di quelle indicate all'art. 3, comma 1, lettere a), b), c) e d)).

Al di fuori di questi specifici casi (spesso frequenti nei sequestri) l'applicazione del criterio della gestione più onerosa (che potrebbe di fatto essere riduttivo o anche illegittimamente incrementativo del compenso) non ha regione di esistere.

Alcuni tribunali calcolano il “compenso base” per una sola categoria di beni – ad esempio i soli beni immobili – (individuati come gestione più onerosa) e poi applicano il criterio della prevalenza, aumentando fino a un massimo del 25% sulle altre categorie dei beni residui, andando di fatto a ridurre il compenso effettivo dell'amministratore giudiziario per gli altri beni (le aziende, etc.), comunque autonomamente gestiti ed amministrati ed il cui compenso risulta del tutto “sganciato” e non collegato con la gestione e/o il valore degli immobili. Si tratta di una remunerazione del compenso che, anziché tenere conto del bene oggetto del sequestro, applica una maggiorazione determinata con una percentuale (fino al 25%) sul valore di altre categorie di beni che nulla hanno a che vedere con quelli amministrati.

In tal modo (escludendo una remunerazione effettiva sul valore degli altri beni che poteva essere maggior o minore) la tariffa viene applicata in modo restrittivo, illogico e non coerente con il dettato normativo, come emerge da argomentazioni di ordine giuridico, logico e sistematico. La prevalenza della gestione più onerosa quale metro di individuazione del valore dei beni sui quali applicare le aliquote non deve essere intesa con riguardo alle “categorie” di beni, aziendali, immobili, mobili e frutti. La norma contenuta nel primo capoverso del comma 6 si riferisce a «beni rientranti in almeno due delle categorie» per natura ovvero perché, nel corso della procedura, possono cambiare l'appartenenza all'una o all'altra categoria. Trattasi di due precise fattispecie: gli immobili e le aziende.

Gli immobili possono rientrare nella categoria dei beni aziendali se di proprietà di un'impresa in sequestro, ovvero nella categoria beni immobili in quanto tali e sottoposti a specifica esecuzione della misura ablativa, con annotazione nei pubblici registri. In tal caso trova applicazione la norma in commento, nel senso che il compenso va liquidato con riferimento alla gestione più onerosa, onde evitare duplicazioni di compenso. L'immobile dell'azienda avrà sempre lo stesso intrinseco valore, ma la sua gestione può essere (come spesso accade) più complessa e onerosa perché inserito nel contesto aziendale o societario.

Nel caso delle aziende può capitare che un'impresa venga dapprima amministrata direttamente e, successivamente, concessa in godimento a terzi, per poi, infine, essere liquidata. Ipotesi che riguarda tre categorie e altrettanti schemi di aliquote: aziende gestite direttamente, aziende locate e frutti. Come nel caso precedente si applicheranno le aliquote previste per i beni aziendali e, se del caso, la maggiorazione per le altre gestioni meno onerose della concessione in godimento a terzi o dei frutti.

La limitazione della gestione prevalente prevista dalla norma si riferisce ai casi in cui lo stesso bene amministrato rientri, per varie ragioni, in più di una delle categorie e solo in tale circostanza occorrerà stabilire quale gestione sia la più onerosa, per poter individuare le aliquote applicabili.

Una diversa ricostruzione si porrebbe, inoltre, in contrasto con la lett. c), art. 8, comma 2, del d.lgs. 14/2010 che assegna il diritto al compenso su tutti i beni amministrati e non solo su una parte di essi, con il rischio di creare una sostanziale grave iniquità per l'attività di amministrazione effettivamente svolta. In concreto, applicando la norma secondo tale errata interpretazione e riconoscendo solo una percentuale (fino al 25%) per ogni altra gestione si arriverebbe alla possibilità di applicare un maggior o minor compenso (rispetto all'attività in concreto svolta) a seconda se il valore delle altre gestioni è maggior o minore: l'iniquità e la contraddittorietà di tale meccanismo è evidente poiché nel caso di altre gestioni di importi non rilevanti si arriverebbe ad ottenere di più, mentre nel caso di altre gestioni di importi rilevanti, l'effetto sarebbe estremamente penalizzante per il professionista.

In conclusione, la prevalenza della gestione più onerosa quale metro di individuazione del valore dei beni sui quali applicare le aliquote della tariffa deve essere riferita alle limitate ipotesi in cui uno o più beni possono rientrare in più di una delle categorie di cui al comma 1, dell'art. 3, del d.P.R. 177/2015, e non tout court alla categoria di beni di maggior valore, come invece, applicato nel provvedimento impugnato.

La conferma di quanto sopra espresso deriva anche dalla stessa relazione governativa del decreto (trattasi della volontà del Legislatore alla base della ratio del decreto in oggetto), nella quale si fa riferimento ai risultati delle simulazioni che, al fine di ricomprendere i casi più frequenti, sono state operate alle nove ipotesi, variamente componendo l'attivo (e cioè a seconda che si sia ipotizzata o meno la presenza di cespiti aziendali e/o di canoni o altri utili). Nelle simulazioni allegate alla relazione il Legislatore ha applicato i seguenti principi:

a) viene utilizzata l'aliquota massima per il calcolo dei compensi, motivando la scelta con la semplicità di calcolo, ma ciò è irrilevante per quanto qui in discussione;

b) nei casi previsti si presentano patrimoni misti composti da beni aziendali, mobili, immobili, redditi e frutti civili.

c) non si riportano valori complessivi dei patrimoni ma divisi e riferiti alle diverse tipologie.

La relazione governativa è in linea con la corretta interpretazione: in nessuna simulazione viene presso in considerazione il parametro del valore prevalente, nonostante vi siano più gestioni. Il compenso calcolato e indicato negli esempi allegati alla relazione illustrativa, deriva, infatti, dall'applicazione delle aliquote sul valore di ogni categoria singolarmente considerata, andando così a remunerare l'effettivo lavoro dell'amministratore per ogni singolo bene gestito e amministrato.

Quanto esemplificato dal Legislatore conferma che un bene, per sua natura, può rientrare nelle diverse categorie, previste dall'art. 3 comma 1, lett. a), b), c) e d), durante il periodo di vigenza del sequestro. Conseguentemente “la prevalenza” va individuata solo nei casi in cui un bene specifico rientri in più categorie (gestioni) e non nel valore dell'intera categoria dei beni.

La ricostruzione fondata sulla prevalenza della gestione più onerosa dello stesso bene è in linea con l'art. 8 del d.lgs 14/2010 e con l'art. 3, comma 6, del d.P.R. 177/2015, nonché con la relazione governativa di accompagnamento e con gli esempi ivi riportati. La prevalenza è da valutare esclusivamente nei casi in cui un bene specifico rientri in più categorie (gestionali) e non riferita al valore dell'intera categoria dei beni. Il compenso calcolato e indicato negli esempi allegati alla relazione governativa deriva, infatti, dall'applicazione delle aliquote previste sul valore di ogni categoria presa singolarmente e non su quella prevalente. Nel ricorrente caso di patrimoni misti comprendenti beni immobili, aziende e beni mobili, il compenso dovrà essere calcolato, conformemente alla relazione governativa, applicando le aliquote di cui all'art. 3, comma 1, del d.P.R. 177/2015 a ogni singola tipologia di beni, riservando l'applicazione delle maggiorazioni alle sole ipotesi in cui un bene passi da una categoria gestionale all'altra. Ogni altra interpretazione che vorrebbe riconoscere rilevanza alla sola categoria di beni di maggior valore, escludendo gli altri, pur con la mitigazione delle maggiorazioni, non appare conforme all'impianto normativo e ai criteri di logica ed equità.

Sulla determinazione del valore del complesso aziendale

Ulteriore problema applicativo è il richiamo, più volte contenuto nel d.P.R. 177/2015, al valore del complesso aziendale quale parametro di riferimento per il calcolo del compenso nel caso di gestione di imprese e società, avendo il Legislatore – come anche segnalato dalla relazione governativa – provveduto a sostituire il termine “attivo” (utilizzato nella precedente stesura dello schema) con quello di “valore”.

Tale modifica, se applicata restrittivamente e senza criteri di logica, equità e buon senso, potrebbe di fatto annullare completamente il compenso dell'amministratore giudiziario per la gestione di alcune aziende che, seppure prive di valore (PASSIVO maggiore dell'ATTIVO) o con valori minimi, comportano comunque tutta una serie di attività preliminari (esecuzione sequestro, inventario, revisione, adempimenti contabili, civili e fiscali) e complessità gestorie, che richiedono specifiche competenze professionali multidisciplinari (cfr. i requisiti richiesti per l'iscrizione nella Sezione speciale Albo amministratori giudiziari), con conseguenti responsabilità, civili e penali, per l'amministratore giudiziario che si troverebbe ad avere il compenso minimo di € 811,35 o comunque un compenso certamente non congruo all'impegno e lavoro svolto ed alle professionalità richieste.

Anche in questo caso, onde evitare un allontanamento degli amministratori giudiziari di aziende (sezione speciale Albo), che rispetto a quelli della gestione ordinaria hanno meno rischi e responsabilità e maggiori compensi, i tribunali applicano un valore del complesso aziendale mediato, che parte dall'attivo aziendale, detraendo solo in parte i debiti (che tra l'altro dovrebbero essere oggetto di accertamento) ovvero utilizzando criteri, diversi dal dato strettamente tecnico, che consentano di riconoscere, comunque, un equo compenso all'amministratore per l'attività svolta nella gestione dell'azienda (soprattutto nella fase iniziale del sequestro) quale bene complesso anche se la stessa presenti un patrimonio netto negativo. Oggi viene richiesto agli amministratori giudiziari, anche alla luce delle modifiche dell'art. 41 del d.lgs. 159/2011, un maggior rigore nella valutazione dei presupposti di prosecuzione dell'azienda (nel corso dei primi sei mesi di sequestro) e finalizzato ad evitare di far proseguire sul mercato aziende in assenza di un equilibrio economico/finanziario ed evitando così maggiori oneri per l'Erario. Alcuni tribunali ai sensi dell'art. 40, comma 5-ter, d.lgs. 159/2011, in alternativa alla liquidazione e previo parere del pubblico ministero, provvedono al dissequestro di beni (tra cui anche aziende) improduttivi o che non costituiscono alcun vantaggio economico per l'Erario creando, invece, rilevanti diseconomie anche per i costi dell'amministratore giudiziario. In queste valutazioni un ruolo rilevante e di promotore spetta all'amministratore giudiziario che, da subito, dovrà “tagliare i rami secchi” del compendio in sequestro, concentrandosi così nella gestione dei beni che abbiano un effettivo valore economico.

Sulla determinazione della base imponibile per l'applicazione delle percentuali del d.P.R. 177/2015

Altro problema è la “base di calcolo” per determinare il compenso e quindi la diversa applicazione dell'art. 3, comma 1, lettera c) del d.P.R. 177/2015 che testualmente prevede: «c) per i beni immobili, i compensi devono consistere in una percentuale, calcolata sul valore dei beni, non superiore alle seguenti misure: […]». L'articolo citato (che non risulta, così come l'intero d.P.R. 177/2015, particolarmente chiaro) non specifica se le percentuali riportate devono essere singolarmente applicate al valore di ogni singolo bene immobile ovvero al totale complessivo di tutti gli immobili di ogni proposto ovvero al totale complessivo di tutti gli immobili di proprietà di ogni soggetto destinatario del provvedimento ablativo (ad esempio nel caso di parenti o terzi intestatari). L'applicazione degli scaglioni direttamente all'importo “cumulato” della sommatoria dei singoli beni immobili, oltre a risultare eccessivamente penalizzante per l'operato e la professionalità dell'amministratore giudiziario, risulta in violazione anche della norma generale dell'art. 8 del d.lgs. 14/2010. E infatti, l'art. 8, comma 2, alla lett.b) del d.lgs. 14/2010, su cui si fonda lo stesso d.P.R. 177/2015, prevede la “previsione di tabelle differenziate per singoli beni o complessi di beni, e per i beni costituiti in azienda” confermando la volontà interpretativa del Legislatore del d.P.R. 177/2015 che potendo scegliere tra complessi di beni immobili o singoli beni ha fatto riferimento al valore dei beni senza alcun riferimento ad un “complesso” (cfr. art. 3, comma 1, lettera c) del d.P.R. 177/2015 «c) per i beni immobili, i compensi devono consistere in una percentuale, calcolata sul valore dei beni, non superiore alle seguenti misure: […]»). E infatti, ogni singolo bene immobile, ha una sua autonomia gestionale e una sua ubicazione fisica, che lo distingue nelle scelte dell'amministratore, da ogni altra gestione di immobile (spesso ubicato in luoghi diversi) e con singole e specifiche responsabilità per ogni bene amministrato. La liquidazione del compenso parametrata ad ogni effettivo bene sequestrato, inoltre, è conforme alla effettiva realtà processuale delle distinte fasi di gestione: rispetto all'originario sequestro di tutti i beni (del proposto, del coniuge e dei suoi familiari più stretti, nonché dei terzi intestatari) nel corso del procedimento risultano, nella normale prassi, diversi dissequestri (specie dopo la fase del contraddittorio pieno del primo grado di giudizio, essendo il sequestro di prevenzione un provvedimento inaudita altera parte). Ciò significa che la gestione di ogni singolo bene ha una durata in termini di tempo distinta, sia con riferimento a singoli beni che a diverse posizioni soggettive, che portano anche al dissequestro. Solo applicando le percentuali e gli scaglioni ai singoli beni (o al più, ai beni sequestrati ad ogni soggetto giuridico sia esso persona fisica o giuridica) è possibile remunerare - in modo puntuale a preciso - l'effettiva attività svolta per quel bene o a favore di quel soggetto (trattandosi di gestione per conto di chi spetta, sia esso l'erario nel caso di confisca o gli aventi diritto nel caso di restituzione). Quello che si vuole specificare è l'esigenza di individuare un criterio di liquidazione che possa, in modo coerente e proporzionato, remunerare l'attività dell'amministratore giudiziario, che è singola ed effettiva per ogni bene. Si ritiene, pertanto, corretto, in conformità alla normativa di riferimento, calcolare il “compenso base” procedendo alla sommatoria di tutti i singoli compensi base di ogni bene immobile, o almeno di ogni gestione riferita ai soggetti destinatari e non procedendo ad una preliminare sommatoria tout court del valore dei singoli beni, ai quali poi applicare gli scaglioni di riferimento. Si tratta – di fatto – di un illegittimo meccanismo applicativo volta a “calmierare” ingiustificatamente le tariffe senza alcuna coerenza e congruità con attività svolta.

In conclusione

Per come sopra rappresentato l'applicazione del d.P.R. 177/2015 dà luogo a diverse problematiche applicative, che salvo un auspicato intervento chiarificatore del Legislatore, darà luogo, probabilmente, a diverso contenzioso soprattutto nei casi in cui il compenso in concreto liquidato al singolo amministratore giudiziario non rispetta il diritto ad avere una remunerazione proporzionale e sufficiente all'attività svolta (art. 3 della Costituzione).

Purtroppo, pur apprezzando positivamente l'intervento del Legislatore finalizzato ad inserire, con il d.P.R. 177/2015, parametri unici per la liquidazione dei compensi (che in passato avevano dato luogo a liquidazione discrezionali e spesso utilizzando criteri distinti non solo nei diversi tribunali ma anche all'interno delle stesse sezioni, con evidenti disparità di trattamento) il testo della norma deve essere necessariamente migliorato.

Una delle principali critiche è quella di aver previsto, nella stessa tariffa, evidenti disuguaglianze, disparità di trattamento ed errori di valutazione del lavoro svolto a seconda della categoria dei beni sequestrati (immobili o aziende) o dimensioni del compendio in sequestro. Così si verifica che a fronte di patrimoni di rilevanti dimensioni il compenso possa raggiungere effettivamente cifre esorbitanti (che devono comunque tenere conto delle dimensioni e complessità del lavoro) mentre nel caso di patrimoni in sequestro modesti, pur a fronte di rilevanti responsabilità, il compenso è estremamente esiguo allontanando così molti professionista qualificati dal settore, non ritenendo gli stessi adeguatamente remunerata la loro professionalità, anche tenuto conto delle responsabilità connesse e dei contesti ambientali in cui si deve operare.

Si auspica, pertanto, un intervento del Legislatore (ed in mancanza in via suppletiva ed interpretativa da parte dei giudici, che devono applicare questa norma) che possa semplificare il d.P.R. 177/2015 ovvero orientare lo stesso verso criteri di equità e rispetto del lavoro effettivamente svolto (coinvolgendo quindi gli stessi amministratori giudiziari che potranno dare il loro contributo anche in un'ottica di contenimento della spesa pubblica) ed in linea con il recente istituto dell'equo compenso. A tal fine, non sembrerà del tutto fuori dal contesto, il richiamo a recenti interventi della Corte costituzionale in materia di riduzione dei compensi (in analoga fattispecie) dei consulenti tecnici (sent. Corte cost. 192/2015) «Non è, infatti, riconducibile ai pur ampi margini spettanti alla discrezionalità legislativa una scelta attuata senza una preliminare valutazione complessiva della materia, necessaria per compiere un ragionevole bilanciamento tra esigenze di contenimento della spesa e remunerazione, sia pure secondo i ricordati criteri di contemperamento, degli incarichi in questione. In tale prospettiva, va considerato come si tratti, nella specie, di prestazioni tendenzialmente non ricusabili dall'interessato, il quale, in quanto pubblico ufficiale, è obbligato alla fedele e diligente esecuzione delle proprie competenze professionali (ed è, questo, un profilo che differenzia l'ausiliario del magistrato dagli altri soggetti indicati nell'art. 106-bis in esame). Si aggiunga, infine, che vanno adeguatamente apprezzate anche le ricadute “di sistema” di una disciplina che, nelle condizioni descritte, può favorire, per un verso, applicazioni strumentali o addirittura illegittime delle norme, a fini di adeguamento de facto dei compensi (ad esempio mediante un'indebita proliferazione degli incarichi o un pregiudiziale orientamento verso valori tariffari massimi), e, per l'altro, comportare un allontanamento, dal circuito dei consulenti d'ufficio, dei soggetti dotati delle migliori professionalità».

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