Fallimento, cessazione del rapporto di lavoro e conseguenze della violazione delle norme limitative dei licenziamenti

25 Giugno 2018

La decisione del curatore di sciogliersi dal rapporto di lavoro sospeso ex art. 72 l.fall. alla data di apertura del fallimento dev'essere esercitata nel rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi, non essendo sottratta ai vincoli dell'ordinamento lavoristico.
Massima

La decisione del curatore di sciogliersi dal rapporto di lavoro sospeso ex art. 72 l.fall. alla data di apertura del fallimento dev'essere esercitata nel rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi, non essendo sottratta ai vincoli dell'ordinamento lavoristico (nel caso di specie, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso con cui un lavoratore, il cui licenziamento era stato dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato per via del mancato ricorso alla procedura di licenziamento collettivo, aveva lamentato l'esclusione dallo stato passivo dei crediti retributivi e del trattamento di fine rapporto maturati dalla data di licenziamento a quella della reintegrazione nel posto di lavoro).

Il caso

Con due sentenze rese a poche settimane l'una dall'altra, la Corte di cassazione torna a confermare il proprio orientamento in merito alla necessità per la curatela fallimentare di esercitare la scelta di interrompere il rapporto di lavoro sospeso ai sensi dell'art. 72 l.fall. a seguito della dichiarazione di fallimento nel pieno rispetto delle disposizioni che limitano il ricorso ai licenziamenti e formula un importante principio: il mancato esercizio della prestazione di lavoro conseguente al fallimento dell'azienda non comporta sempre l'esclusione del dipendente dal diritto al versamento della retribuzione e al riconoscimento dei contributi che discendono dal rapporto di lavoro.

La sentenza in commento è la prima di queste e riguarda il caso di un lavoratore dipendente di una società poi dichiarata fallita, il quale – in seguito alla sospensione del proprio rapporto ai sensi dell'art. 72 l.fall. – non aveva più percepito le retribuzioni ed era quindi stato licenziato dalla curatela. Successivamente, il recesso era stato dichiarato inefficace per violazione della legge n. 223/1991 con sentenza definitiva, con conseguente suo diritto a percepire le retribuzioni maturate dalla data del fallimento, secondo la formulazione dell'art. 18 Statuto dei lavoratori all'epoca vigente.

La domanda di ammissione al passivo fallimentare per i crediti inerenti le spettanze retributive dovute a titolo risarcitorio, respinta in primo grado dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, era stata poi accolta in sede di impugnazione dalla Corte d'appello di Napoli, la quale aveva riconosciuto il diritto del lavoratore all'ammissione dei crediti richiesti dalla data di dichiarazione del fallimento (ottobre 1999) alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Con la pronuncia in esame, resa all'esito del ricorso della curatela fallimentare, la Suprema Corte torna quindi ad analizzare una serie di questioni già sottoposte al proprio vaglio, che meritano di essere riesaminate alla luce delle disposizioni della bozza di nuovo Codice della crisi e dell'insolvenza (c.c.i.) attuativa della legge delega 19 ottobre 2017, n. 155, consegnata al Ministero della Giustizia il 21 dicembre 2017, in attesa di essere definitivamente approvata ed entrare in vigore.

La sorte dei rapporti di lavoro alla data di apertura della liquidazione giudiziale nella bozza di nuovo Codice della crisi e dell'insolvenza, art. 194

La Suprema Corte ribadisce che, a seguito della dichiarazione di fallimento, il rapporto di lavoro rimane sospeso, secondo un orientamento giurisprudenziale oramai consolidato (cfr. i precedenti richiamati dalla sentenza in commento: Cass. n. 799/80 e Cass. n. 1832/03), confermato dalla formulazione dell'art. 72 l.fall. introdotta dal d.lgs. n. 5/06, che disciplina il fenomeno degli effetti del fallimento sui rapporti giuridici pendenti.

Tale costruzione trova ora puntuale riscontro nell'art. 194, comma 1, c.c.i. a norma del quale “l'apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro non costituisce di per sé motivo di licenziamento e i rapporti di lavoro subordinato in atto alla data della sentenza dichiarativa restano sospesi fino a quando il curatore, con l'autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, ovvero il recesso ai sensi della disciplina lavoristica vigente, fatte comunque salve le specifiche previsioni del presente articolo”. Il comma 2 precisa inoltre che “il recesso del curatore dai rapporti di lavoro subordinato sospesi ha effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale”.

Una volta aperta la procedura di liquidazione giudiziale, come indicato dal successivo comma 3, “il curatore procede senza indugio al recesso dai rapporti di lavoro subordinato qualora non sia possibile la continuazione o il trasferimento dell'azienda o di un suo ramo o sussistano manifeste ragioni economiche inerenti l'assetto dell'organizzazione del lavoro”. I rapporti si intendono in ogni caso cessati di diritto una volta decorsi quattro mesi dall'apertura della procedura, in assenza di subentro del curatore.

Il 4° comma introduce una rilevante novità, disponendo che il termine massimo di sospensione di quattro mesi può essere prorogato qualora vengano ritenuti sussistenti possibilità di ripresa o trasferimento a terzi dell'azienda o di un suo ramo: in tal caso, su domanda del curatore, del direttore dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro o dei singoli lavoratori da depositare almeno quindici giorni prima della scadenza del termine di quattro mesi, il giudice delegato assegna al curatore un ulteriore termine, della durata variabile da quattro ad otto mesi, per decidere il subentro o il recesso. L'inerzia del curatore determina a favore dei lavoratori il cui rapporto di lavoro non sia già cessato, e che si intende risolto con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale, il diritto ad un'indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, che viene ammessa al passivo come credito successivo all'apertura della liquidazione giudiziale.

Si può pertanto concludere che, al di fuori dell'eccezione costituita dall'art. 194, comma 4, c.c.i. appena esaminata, nel quadro normativo attuale ed in quello che dovesse entrare in vigore con l'approvazione del Codice della crisi e dell'insolvenza, difettando l'esecuzione della prestazione lavorativa, viene conseguentemente meno l'obbligo di corrispondere al lavoratore retribuzione e contributi (cfr. Cass. n. 7473/12).

Liquidazione giudiziale e licenziamento collettivo: l'obbligo sancito dalla giurisprudenza e dall'art. 194, comma 6, della bozza di Codice della crisi e dell'insolvenza

Il caso in questione trae origine dal fatto che il curatore del fallimento aveva esercitato la facoltà di sciogliersi dal rapporto di lavoro ai sensi dell'art. 72 l.fall. senza tuttavia adottare la procedura di licenziamento collettivo. Sul punto, ripercorrendone le decisioni, la Suprema Corte ha in un primo tempo affermato che il rispetto di tale procedura sarebbe necessario solamente nel caso in cui il fallimento consenta lo svolgimento di tutta o di parte dell'attività d'impresa, con la conseguenza di dover scegliere i lavoratori da licenziare secondo i criteri indicati dalla legge, e non anche quando la totale cessazione dell'attività imponga il recesso da tutti i rapporti di lavoro (cfr. Cass. sez. lav. n. 4146/97). Il curatore – nell'ipotesi di continuazione, sia pure parziale e temporanea dell'attività aziendale dell'impresa fallita – sarebbe tenuto all'osservanza delle norme previste dal primo comma dell'art. 24 della l. n. 223/1991 per i casi in cui i livelli occupazionali possano essere salvaguardati solo parzialmente, ma non anche nella diversa ipotesi della cessazione dell'attività dell'impresa.

Tale orientamento è stato in seguito sottoposto ad una profonda revisione che ne ha così determinato un deciso revirement: con diverse pronunce successive, tutte di analogo tenore, la Cassazione ha infatti affermato la necessità di esperire la procedura di cui alla legge n. 223/1991, anche nell'ipotesi in cui nell'ambito di una procedura concorsuale risulti impossibile la continuazione dell'attività aziendale (cfr. Cass. sez. lav. 12645/04; n. 5032/09). La Suprema Corte ha motivato la diversa posizione ricordando innanzitutto le sentenze con le quali la Corte costituzionale (cfr. rispettivamente Corte cost., 21 gennaio 1999, n. 6 e Corte cost., 13 giugno 2000, n. 190) ha confermato a più riprese la portata generale della disciplina prevista dagli articoli 3, 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223, destinata a trovare applicazione ogniqualvolta non sia rinvenibile un'esplicita disposizione derogatoria nei suoi confronti, per poi affermare che la sua obbligatorietà non trova limite nell'ipotesi di cessazione dell'attività aziendale, dal momento che anche questa deve essere inserita in quella complessa concertazione attraverso cui la normativa sulla mobilità tende a ridurre le conseguenze della crisi o della ristrutturazione dell'impresa sull'occupazione, e ciò in quanto “la messa in mobilità viene a coniugarsi con gli ulteriori meccanismi predisposti per la ricollocazione dei lavoratori”, di talché “essa assurge ad espressione d'un principio generale, che non può non valere anche quando ci si trovi in presenza della mera soppressione dell'impresa”.

Recependo tale orientamento, l'art. 194, comma 6, c.c.i. detta al curatore la necessità di esperire la procedura di licenziamento collettivo, secondo norme che ricalcano in larga parte quelle dell'art. 4, commi da 2 a 8, legge n. 223/91.

Le conseguenze sanzionatorie del licenziamento inefficace intimato dal curatore

La difformità dal modello legale del recesso espone la curatela alle conseguenze dell'illegittimo esercizio del potere unilaterale, con la limitazione derivante dal fatto che la definitiva disgregazione dell'azienda, se potrà escludere la ripresa del rapporto di lavoro (e, del resto, la sentenza in commento formula tale principio, operante anche per l'imprenditore in bonis: cfr. Cass. sez. lav. n. 29936/08 e n. 13297/07), di certo comporterà sempre e comunque il diritto al risarcimento del danno previsto dall'ordinamento “secondo la disciplina applicabile tempo per tempo, a tutela della posizione del lavoratore”.

Nel caso di specie, quindi, la Corte ha rinviato alla Corte d'appello di Napoli in diversa composizione perché provveda ad ammettere al passivo del fallimento il lavoratore per le retribuzioni maturate a seguito del licenziamento dichiarato inefficace, con esclusione di quelle relative al periodo intercorso tra la data di fallimento ed il recesso esercitato dal curatore, nel quale opera la sospensione ai sensi dell'art. 72 l.fall.

Osservazioni conclusive. La NASpILG

La Cassazione, con la sentenza in commento, chiarisce ancora una volta l'applicabilità al fallimento delle norme limitative dei licenziamenti e delle conseguenze sanzionatorie derivanti dalla loro violazione, con motivazioni condivisibili, fatta eccezione per le utilità connesse al ripristino del rapporto di lavoro in uno stato di quiescenza attiva (tipico della situazione vissuta dal lavoratore reintegrato nell'azienda disgregata), tra le quali continua inopinatamente a trovare spazio l'indennità di cassa integrazione, nonostante l'abrogazione dell'art. 3 legge n. 223/91 ad opera della legge n. 92/12.

Sul punto, si deve registrare la novità costituita dalla Nuova Prestazione di Assicurazione per l'Impiego nella Liquidazione Giudiziale (NASpILG) che, se il Codice della crisi e dell'insolvenza dovesse essere approvato nell'attuale formulazione, spetterebbe ai sensi dell'art. 195 c.c.i. al lavoratore in considerazione del fatto che lo stato di sospensione conseguente all'apertura della procedura “è equiparato allo stato di disoccupazione” (cfr. comma 1). Tale trattamento “cessa quando il curatore comunica il subentro nel rapporto di lavoro e non può superare la durata massima prevista dal d.lgs. n. 22/15” e si somma alla NASpI, che sarebbe erogata successivamente in conseguenza della cessazione del rapporto.

Troverebbe così finalmente soluzione l'annoso problema della sospensione del rapporto di lavoro non garantita da un adeguato sostegno al reddito.

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