La legittimazione processual-tributaria del curatore

Lorenzo Gambi
28 Giugno 2018

Una recentissima pronunzia della Corte di Cassazione – Cass., civ. sez. VI, ord. n. 8132 del 3 aprile 2018 – offre lo spunto per approfondire il tema della legittimazione attiva, in ambito tributario, del curatore fallimentare, nonché della correlata posizione giuridica che il debitore viene ad assumere nel corso dello svolgimento del concorso.
Premessa

Una recentissima pronunzia della Corte di Cassazione – Cass., civ. sez. VI, ord. n. 8132 del 3 aprile 2018 – offre lo spunto per approfondire il tema della legittimazione attiva, in ambito tributario, del curatore fallimentare, nonché della correlata posizione giuridica che il debitore viene ad assumere nel corso dello svolgimento del concorso.

Il quadro di riferimento: spossessamento, concorso, soggettività tributaria

Con il fallimento, il debitore viene privato della facoltà di amministrare e gestire il proprio patrimonio.

Si verifica il cd. spossessamento (art. 42, comma 1, l. fall.: “la sentenza che dichiara il fallimento priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”).

Nel fallimento, a differenza di quanto accada in sede di processo individuale – nel quale gli effetti della indisponibilità sui singoli beni e/o diritti del debitore sono il frutto di una serie di atti, progressivi, fra loro propedeutici, che trovano compimento con la trascrizione del pignoramento – gli effetti dello spossessamento si producono, ex lege, con l'apertura del concorso.

Com'è stato rilevato in dottrina, la perdita del potere di disposizione “è correlata alla destinazione del patrimonio del debitore al soddisfacimento dei creditori concorsuali ed attiene al profilo espropriativo dell'esecuzione fallimentare” (L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2012, 103).

Lo spossessamento, peraltro, non determina per il fallito la perdita del diritto di proprietà e/o degli altri diritti reali sul proprio patrimonio, bensì, unicamente, la perdita della facoltà di disporre ed amministrare i beni, i diritti ed i rapporti giuridici dei quali tale patrimonio è composto.

In dottrina si segnala, sul punto, come l'art. 42, comma 1, l. fall. esprima il principio fondamentale della cd. universalità oggettiva del fallimento, insieme contribuendo a determinare l'effetto della cd. cristallizzazione del passivo (P. Vella, Sub Art. 42. Beni del fallito, in M. Ferro (a cura di), La legge fallimentare, Padova, 2014, 582).

Con l'apertura del concorso, il potere di amministrare e gestire il patrimonio fallimentare viene attribuito al curatore, ai sensi e per gli effetti dell'art. 31 l. fall. (bene analizza, sul tema, gli effetti della perdita del potere di amministrazione in capo al fallito a favore della curatela, sotto il profilo della sostituzione ex lege, in funzione non solo di una valenza liquidatoria “statica”, ma anche in chiave “dinamica”, C. Costa, Gli effetti del fallimento sul fallito, in G. Ragusa Maggiore-C. Costa, Le procedure concorsuali. Il fallimento, Torino, 1997, 3 ss.).

Il fallito resta quindi proprietario dei propri beni, diritti e rapporti giuridici sino al momento della loro liquidazione in sede concorsuale, per quanto gli stessi siano destinati ad evolversi e mutare, in virtù della gestione fallimentare, nella prospettiva della monetizzazione secondo il vincolo liquidatorio impresso, con la sentenza di fallimento, sul patrimonio del debitore.

È opinione prevalente che la perdita in capo al fallito della facoltà di gestire il proprio patrimonio, e la contestuale acquisizione in capo alla curatela di tale facoltà, determini una “scissione” tra titolarità e legittimazione, scissione che sarebbe riconducibile al fenomeno della sostituzione, operante ex lege (Cass., civ. sez. II, 23 aprile 1993, n. 4776; in dottrina, in senso conforme: R. Rosapepe, Effetti nei confronti del fallito, in V. Buonocore-A. Bassi (a cura di), Trattato di diritto fallimentare, I, Padova, 2010, 236).

Il debitore, dopo la sentenza di fallimento, può peraltro astrattamente compiere negozi che attengano al proprio patrimonio: in tal caso, i relativi atti non sarebbero invalidi – è ancora il titolare del patrimonio fallimentare, per quanto spossessatone –, bensì inefficaci rispetto alla massa dei creditori, ex art. 44, comma 1, l. fall. (S. Bonfatti-P.F. Censoni, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2009, 109).

Lo spossessamento determina pertanto una sorte di “segregazione” giuridica sul patrimonio del fallito, che sorge per effetto dell'apertura del concorso.

Tale segregazione ha, peraltro, efficacia temporanea: il fallito riacquisterà piena facoltà sul proprio patrimonio ove, alla chiusura della procedura, pagati integralmente i creditori concorsuali (rectius, concorrenti) e prededucibili, residui una determinata entità patrimoniale.

Sotto il profilo processuale, è l'art. 43 l. fall. ad integrare gli effetti sostanziali dello spossessamento, come previsti dall'art. 42, comma 1, l. fall.

Secondo il richiamato art. 43 l. fall., spetta al curatore fallimentare la legittimazione processuale, tanto attiva, quanto passiva, in tutte le controversie relative ai rapporti di natura patrimoniale del debitore compresi nel fallimento, ove anche pendenti al momento dell'apertura del concorso.

Per consolidato orientamento giurisprudenziale, il fallito può intervenire esclusivamente nei giudizi dai quali possa dipendere una fattispecie di bancarotta imputabile a suo carico, ovvero quando il proprio intervento sia previsto dalla legge (Cass., civ. sez. I, 14 maggio 2012, n. 7448; Cass., civ. sez. II, 20 marzo 2012, n. 4448; Cass., civ. sez. II, 17 giugno 2010, n. 14624).

Ben sintetizza gli effetti patrimoniali della sentenza di fallimento per il debitore, una recente sentenza della Suprema Corte: “a prescindere dalle varie teorie sull'inquadramento giuridico del fenomeno fallimentare (in termini, sotto il profilo oggettivo, di pignoramento universale, esecuzione collettiva, separazione patrimoniale o vincolo di destinazione, e sotto il profilo soggettivo, di interdizione o comunque perdita della capacità di agire), è pacifico che uno degli effetti del fallimento consista nella sottrazione al soggetto fallito, in linea di principio, della disponibilità del suo patrimonio, quanto a godimento, amministrazione e disposizione dei beni, diritti e facoltà che ne fanno parte (c.d. spossessamento), da taluno estesa anche ai comportamenti omissivi che abbiano riflessi patrimoniali (come ad esempio gli atti interruttivi della prescrizione, o il decorso dell'usucapione a favore di terzi)” (Cass., civ. sez. V, 14 settembre 2016, n. 18002).

Tutti i creditori del fallito per ragioni e titoli sorti prima della sentenza di fallimento – e, dunque, anche l'Erario, per le proprie ragioni creditorie – sottostanno alle regole del “concorso”, ex art. 52 l. fall.

Tale norma determina la cd. “cristallizzazione del passivo”, circoscrivendo l'area della partecipazione alla procedura ai titolari di crediti sorti ante fallimento, secondo un criterio di temporalità dell'elemento genetico dell'obbligazione.

L'art. 52 l. fall. esprime un principio di “universalità” soggettiva del concorso, che si declina nelle due forme di concorso sostanziale e concorso formale.

Ciascun creditore, in base al primo, ha diritto a vedere soddisfatte, sotto il profilo economico, le proprie ragioni creditorie in ragione d'un criterio proporzionale, salve le legittime cause di prelazione; in base al secondo, per poter validamente partecipare alla vicenda fallimentare deve sottostare all'accertamento del passivo.

Rito – quest'ultimo – che rappresenta un vero e proprio onere giuridico, dal momento che la presentazione della domanda ex art. 92 ss. l. fall. costituisce presupposto necessario affinché il creditore abbia valido accesso alla procedura (G.U. Tedeschi, L'accertamento del passivo, in A. Didone (a cura di), Le riforme delle procedure concorsuali, I, Milano, 2016, p. 809 ss.).

Anche il Fisco, come ogni altro creditore, soggiace per i titoli sorti ante fallimento, alle regole del concorso, tanto sostanziale (preclusione di procedere in executivis contro il fallito), quanto formale (rituale presentazione della domanda di ammissione al passivo).

Connesso ai fenomeni dello spossessamento e del concorso è il tema della soggettività tributaria in ambito fallimentare.

Sotto il profilo dei presupposti impositivi, il fenomeno dello spossessamento non determina alcuna variazione in ordine al soggetto giuridico cui sia riferibile l'obbligazione tributaria, che è, e resta, il fallito.

Il venir meno, con lo spossessamento, di ogni facoltà per il debitore di disporre del proprio patrimonio, non impedisce infatti, secondo la norma fiscale, che il presupposto d'imposta si configuri in capo al medesimo debitore.

Egli, col fallimento, viene a perdere la sola disponibilità “materiale” dei propri beni, diritti e rapporti giuridici, non già la titolarità formale degli stessi.

Né, d'altra parte, vi è nel nostro ordinamento giuridico alcuna norma di legge che qualifichi o riconosca la procedura fallimentare – in sé – quale autonomo soggetto d'imposta.

Com'è stato autorevolmente rilevato (M. Miccinesi, L'imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990, 55), l'unità e la completezza del ciclo impositivo sono “in funzione della unicità del soggetto al quale va riferita la ricchezza prodotta. Sicché, per quanto riguarda il fallimento, l'imputazione al medesimo e non al fallito dei risultati fiscali della liquidazione concorsuale spezzerebbe automaticamente tale unità, alterando la omogeneità del prelievo”.

Del resto, in tutti i casi di tassazione post fallimento, l'onere economico relativo al prelievo tributario va ad incidere direttamente sul patrimonio fallimentare, quale credito prededucibile sorto in occasione e/o per effetto della procedura (art. 111, comma 2, l. fall.), al verificarsi delle fattispecie impositive previste dalle singole leggi d'imposta (salva peraltro l'annotazione che i tributi diretti, per espressa previsione di legge – art. 183 TUIR – vengono soddisfatti non già nel corso della procedura, bensì solo a procedimento concluso, una volta che siano stati integralmente soddisfatti tutti i crediti, tanto prededucibili quanto concorrenti).

Secondo la stessa giurisprudenza della Suprema Corte, il contribuente dichiarato fallito “non è privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario” (Cass., civ. sez. V, 24 febbraio 2006, n. 4235).

Ciò che muta, con il fallimento, non è dunque il soggetto passivo del rapporto tributario, bensì, esclusivamente, il soggetto legittimato – ed insieme obbligato – a compiere gli adempimenti fiscali previsti dalla legge, una volta apertasi la procedura concorsuale.

Tale soggetto è il curatore fallimentare, il quale non ha alcuna autonoma soggettività tributaria, come, del resto, non ne ha la procedura fallimentare in sé.

Il curatore fallimentare opera quale soggetto “deputato” per legge, con l'apertura del concorso, a compiere atti di natura tributaria che producono effetti nell'ambito della sfera patrimoniale di titolarità del fallito.

Con il fallimento il curatore viene ad assumere, rispetto al debitore spossessato, una funzione surrogatoria in relazione all'adempimento degli obblighi tributari correlati alla procedura concorsuale, nei limiti stabiliti dalla legge ed in funzione delle finalità concorsuali dalla stessa fissate.

Sulla base della propria funzione pubblicistica, volta a garantire il miglior soddisfacimento dei creditori, può dunque dirsi che il curatore “succeda” al fallito, sotto il profilo dell'adempimento amministrativo degli obblighi tributari, nei limiti fissati dalla legge e nel rispetto del principio di tassatività degli obblighi tributari (F. Tesauro, Appunti sugli adempimenti fiscali del curatore fallimentare, in Rass. trib., 1990, 241).

Legittimazione del curatore e posizione del fallito secondo la Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla sentenza n. 3563/1/2016, depositata il 15 maggio 2016, con la quale la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, respingendo l'appello proposto dall'Amministrazione finanziaria avverso la sentenza di primae curae, aveva omesso di rilevare – nei limiti che qui interessano – il difetto di legittimazione attiva, ex art. 43 l. fall., del legale rappresentante della società fallita ad impugnare gli atti impositivi notificati tanto alla curatela fallimentare, quanto al debitore medesimo, una volta apertasi la procedura, ha ricordato , in via preliminare, come l'avviso di accertamento avente ad oggetto crediti fiscali i cui presupposti siano sorti prima della sentenza dichiarativa di fallimento del soggetto passivo d'imposta debbano essere notificati non solo al curatore, ma anche allo stesso debitore, restando egli esposto alle conseguenze patrimoniali e sanzionatorie scaturenti dalla eventuale definitività della pretesa tributaria.

Secondo la Corte: “l'avviso di accertamento concernente crediti fiscali i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente, deve essere notificato non solo al curatore, ma anche al fallito, il quale conserva la qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, pur essendo condizionata la sua impugnazione all'inerzia della curatela, sicché, in caso contrario, la pretesa tributaria è inefficace nei suoi confronti e l'atto impositivo non diventa definitivo” (Cass., civ. sez. VI (ord.), 3 aprile 2018, n. 8132).

Già, sull'argomento, la Cassazione aveva avuto modo di ritenere che “l'accertamento tributario inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d'imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, deve essere notificato non solo al curatore ma anche al contribuente, il quale non è privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario” (Cass., n. 4235/2006, cit.; in senso conforme, v. anche Cass., civ. sez. V, 6 febbraio 2009, n. 2910; Cass., civ. sez. V, 18 dicembre 2008, n. 29642; Cass., civ. sez. V, 8 marzo 2002, n. 3427)

Ed ancora che, per quanto debba ritenersi insussistente, per effetto di quanto disposto ex art. 43 l. fall., una legittimazione processuale concorrente fra il debitore fallito e la curatela fallimentare, tale principio viene peculiarmente ad attenuarsi con riferimento alle controversie tributarie.

Richiedendosi che, “al fine di garantire una effettiva tutela del contribuente, gli atti impositivi in pendenza di fallimento vengano notificati non soltanto al curatore ma anche al contribuente dichiarato fallito, il quale, restando esposto ai riflessi, anche di carattere sanzionatorio, conseguenti alla definitività dell'atto impositivo, è eccezionalmente abilitato ad impugnarlo, nell'inerzia degli organi fallimentari, non potendo attribuirsi carattere assoluto alla perdita della capacità processuale conseguente alla dichiarazione di fallimento” (così, Cass., civ. sez. V, 24 luglio 2014, n. 16816).

In caso di difetto di notifica dell'atto impositivo nei confronti del fallito, la sottostante pretesa fiscale deve considerarsi inefficace nei confronti del debitore e l'atto, dunque, inidoneo a divenire definitivo verso il medesimo, quanto sopra tenuto anche conto del fatto che il debitore non è parte necessaria del giudizio tributario in ipotesi instaurato dalla curatela fallimentare.

In questo senso: “nel caso di notifica dell'atto impositivo al solo curatore fallimentare il contribuente non è parte necessaria del processo. La rappresentanza processuale del curatore, in un'ipotesi del genere, si estende a tutte le controversie relative ai rapporti compresi nel fallimento, così che, essendo egli libero di agire nell'interesse di ciascun soggetto rappresentato e dunque anche del medesimo contribuente, l'integrità del contraddittorio viene ad essere garantita dall'unicità del curatore. Resta tuttavia fermo che l'accertamento tributario, ove inerente a crediti fiscali i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente, deve essere notificato non solo al curatore, in ragione della partecipazione di detti crediti al concorso fallimentare mediante ammissione al passivo, ma anche al contribuente, il quale non è privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario e resta esposto ai riflessi della definitività dell'atto impositivo” (così, Cass. civ. sez. V, 18 marzo 2016, n. 5392; in senso conforme: Cass., civ. sez. V, 17 dicembre 2010, n. 25616).

Il debitore, ricorda la Suprema Corte con l'ordinanza in esame, continua a mantenere la qualità di soggetto passivo nell'ambito del rapporto giuridico d'imposta, per quanto la facoltà del debitore d'impugnare l'atto impositivo sia subordinata ad una condotta (ingiustificatamente) inerte da parte della curatela fallimentare.

Al riguardo: “la dichiarazione di fallimento, pur non sottraendo al fallito la titolarità dei rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, comporta, a norma dell'art. 43 l. fall., la perdita della sua capacità di stare in giudizio nelle relative controversie, spettando la legittimazione processuale esclusivamente al curatore. Se, però, l'amministrazione fallimentare rimane inerte, il fallito conserva, in via eccezionale, la legittimazione ad agire per la tutela dei suoi diritti patrimoniali, sempre che l'inerzia del curatore sia stata determinata da un totale disinteresse degli organi fallimentari e non anche quando consegua ad una negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia” (Cass., n. 8132/2018, cit.).

Fra l'altro, in questo contesto, si ritiene che la curatela fallimentare, pur in mancanza di una norma di legge che in tal senso espressamente disponga, sia tenuta a trasmettere al fallito ogni atto amministrativo notificato alla procedura per quanto idoneo ad incidere, dopo la chiusura del fallimento, sulla sfera patrimoniale del debitore.

Il curatore non è chiamato a curare esclusivamente l'interesse dei creditori, ma anche a tutelare l'interesse del fallito a non trovarsi esposto, dopo la chiusura del procedimento fallimentare, a pretese creditorie le quali avrebbero potuto essere contestate con una più solerte gestione da parte della curatela, e ciò con particolare riferimento ai rapporti tributari, suscettibili – come sono – di generare effetti di rilevanza anche penale (Cass., civ. sez. I, 28 aprile 1997, n. 3667).

In questo caso (e dunque qualora l'Amministrazione finanziaria non abbia notificato l'atto impositivo al debitore, ma a ciò abbia provveduto la curatela fallimentare), il termine a favore del fallito per impugnare l'atto non decorre se non dal momento in cui lo stesso sia stato formalmente portato a sua conoscenza da parte del curatore: “quando al curatore sia notificato un accertamento e l'ufficio fallimentare dichiari inequivocabilmente [...] di voler disinteressarsi del rapporto tributario in contestazione, si deve ritenere rettamente che il termine per impugnare non decorre, nei confronti del fallito, che dal momento in cui l'accertamento stesso sia stato portato a sua conoscenza” (così, Cass., civ. sez. I, 20 marzo 1993, n. 3321; in senso conforme: Cass., civ. sez. I, 20 dicembre 1994, n. 10957).

Secondo la Suprema Corte, affinché possa operare la legittimazione sussidiaria del debitore, occorre che la condotta passiva da parte della curatela sia caratterizzata dal proprio totale disinteresse, nel concreto, in ordine al rapporto tributario oggetto della possibile controversia ed al correlato atto impositivo.

Non può così considerarsi ingiustificatamente “inerte” la condotta omissiva del curatore che consegua ad una valutazione, nel merito, della non convenienza per la procedura di far ricorso al giudizio tributario.

Nel caso in esame, ha rilevato la Corte con la richiamata ordinanza, “non vi era stata una semplice inerzia della curatela fallimentare, quanto piuttosto vi era stata una esplicita presa di posizione negativa circa la utilità per la massa dei creditori di promuovere la lite fiscale de qua […]e che quindi non sussiste la legittimazione dell'ex legale rappresentante della società contribuente fallita ad impugnare gli avvisi di accertamento in oggetto” (Cass., n. 8132/2018, cit.).

In altro caso nel quale la curatela aveva proposto al giudice delegato apposita istanza volta ad acquisire l'autorizzazione a non instaurare il procedimento tributario, a motivo della valutata carenza d'interesse per la procedura, la Corte aveva, al pari, ritenuto che “la scelta consapevole della procedura fallimentare di non instaurare o subentrare al fallito in una controversia relativa a rapporti patrimoniali del medesimo esclude la legittimazione del fallito ex art. 43 l. fall., così come può desumersi anche dall'interpretazione testuale del primo comma della norma (ratione temporis applicabile, ma rimasto immutato anche dopo la riforma), secondo la quale nelle controversie “anche in corso” relative a diritti patrimoniali del fallito […] sta in giudizio il curatore (così, Cass., civ. sez. VI (ord.), 6 luglio 2016, n. 13814; in senso conforme: Cass., civ. sez. III, 21 luglio 2009, n. 16926).

Con riferimento ai menzionati interessi (protetti) del debitore, la curatela è dunque tenuta a rappresentargli, con tempestività, le scelte assunte in ordine all'esercizio della facoltà di impugnare o meno l'avviso di accertamento.

Sottolinea la Corte di Cassazione, a questo proposito, che la “prassi – seguita dai giudici delegati più avveduti – di far notificare al fallito, unitamente alla determinazione dell'ufficio fallimentare di non proporre impugnativa, l'avviso di accertamento, con il contestuale avvertimento al fallito che a tanto potrà provvedere direttamente, è appunto intesa a garantire a quest'ultimo l'esercizio del suo diritto di difesa. Essa adempie ad un dovere che trae origine dal carattere impugnatorio del processo tributario, avuto riguardo al termine di decadenza fissato al contribuente per proporre il ricorso”(Cass., civ. sez. V, 23 giugno 2003, n. 9951).

Profili processuali ed applicativi

Ove la sentenza di fallimento intervenga in pendenza di un giudizio tributario avviato dal debitore in bonis, il processo, in qualunque grado esso si trovi, si interrompe ex art. 40, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 546/1992, verificandosi una causa di “perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti”.

Secondo quanto previsto dal secondo comma di tale norma, l'interruzione si verifica (recte, viene accertata) al momento in cui l'evento venga dichiarato in pubblica udienza ovvero sia rappresentato, per iscritto, dal difensore.

L'interruzione consegue peraltro, in modo concorrente, anche dalla previsione ex art. 43, comma 3, l. fall. (“L'apertura del fallimento determina l'interruzione del processo”).

Secondo la Corte, “l'evento […] della perdita della capacità processuale della parte costituita che sia dichiarato in udienza o notificato alle altre parti dal procuratore della stessa parte colpita da uno di detti eventi produce, ai sensi dell'art. 300, comma 2, cod. proc. civ., l'effetto automatico dell'interruzione del processo dal momento di tale dichiarazione o notificazione e il conseguente termine per la riassunzione, in tale ipotesi, come previsto in generale dall'art. 305 cod. proc. civ., decorre dal momento in cui interviene la dichiarazione del procuratore o la notificazione dell'evento, ad opera dello stesso, nei confronti delle altre parti, senza che abbia alcuna efficacia, a tal fine, il momento nel quale venga adottato e conosciuto il provvedimento giudiziale dichiarativo dell'intervenuta interruzione (avente natura meramente ricognitiva) pronunziato successivamente e senza che tale disciplina incida negativamente sul diritto di difesa delle parti” (così, Cass., civ. sez. un., 20 marzo 2008, n. 7443),

Conseguenza dell'interruzione “automatica” del processo tributario è la nullità dei successivi atti e, dunque, la loro inopponibilità alla curatela (Cass., civ. sez. IV, 28 ottobre 2013, n. 24271; Cass., civ. sez. III, 30 aprile 2009, n. 10112; Cass., civ. sez. I, 15 febbraio 2007, n. 34599).

In questo senso, la Cassazione, decidendo su un avviso d'accertamento notificato al debitore in bonis, e da questi tempestivamente impugnato, cui sia seguito il fallimento, senza interruzione del processo tributario, ha rilevato come la sentenza resa dalla commissione non sia “opponibile alla curatela (mentre ovviamente lo sarebbe se la sentenza fosse stata pronunciata prima della dichiarazione di fallimento)”, conseguendone che la “cartella esattoriale notificata al fallimento è illegittima perché adduce un titolo costitutivo della pretesa fiscale che non è opponibile al fallimento stesso” (Cass., civ. sez. VI (ord.), 28 ottobre 2014, n. 22809).

Verificatasi la causa interruttiva del processo tributario, ai fini della decorrenza del dies a quo per la riassunzione, rileva la conoscenza “legale” del giudizio per il quale l'effetto interruttivo sia occorso (Cass., civ. sez. IV, 7 marzo 2013, n. 5650).

Il termine per la riassunzione del processo tributario è di sei mesi dalla conoscenza “legale” del relativo giudizio (art. 43, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992).

La prova ai fini del mancato rispetto del termine per la riassunzione del processo, ove venga eccepita la conoscenza legale del giudizio, incombe sulla parte diligente, non potendo, l'altra parte, provare il fatto negativo (Cass., civ. sez. VI (ord.), 25 febbraio 2015, n. 3782; Cass., civ. sez. III, 11 febbraio 2010, n. 3085; Cass., civ. sez. I, 3 settembre 2009, n. 19122).

In caso di mancata interruzione del giudizio promosso dal debitore in bonis, il relativo giudicato non è da ritenersi né nullo, né inutiliter datum: l'eventuale credito erariale divenuto definitivo potrà essere fatto valere dall'Amministrazione finanziaria nei confronti del contribuente, una volta chiusa la procedura (Cass., civ. sez. 1, 4 marzo 2011, n. 5226; Cass., civ. sez. V, 10 dicembre 2010, n. 24963).

Fra l'altro, qualora la curatela subentri nel processo tributario iniziato dal debitore ante fallimento, in rappresentanza del debitore e non della massa dei creditori, la relativa sentenza spiega i propri effetti “anche nei confronti del debitore tornato in bonis, non incidendo la vicenda relativa alla legittimazione processuale determinata dal fallimento sulla riappropriazione da parte del debitore successivamente alla chiusura della procedura concorsuale della posizione di parte processuale, come tale legittimata a subentrare al curatore – decaduto – nel giudizio eventualmente pendente, ovvero ad essere destinataria degli effetti della sentenza di merito eventualmente già pronunciata” (Cass., n. 16816/2014, cit.; in senso conforme: Cass., civ. sez. III, 22 marzo 2013, n. 7263; Cass., civ. sez. 1, 24 luglio 2012, n. 12965).

Nel caso in cui entrambi i soggetti – curatore e fallito – impugnino l'avviso d'accertamento notificato in corso di procedura e relativo a presupposti impositivi sorti ante fallimento, si pone il problema dell'ammissibilità del ricorso proposto dal debitore, in proprio.

In tal caso, non essendovi alcuna condotta inerte da parte della curatela fallimentare, la capacità processuale del debitore deve ritenersi “assorbita” da quella azionata dal curatore ex art. 43 l. fall., da ciò conseguendo l'inammissibilità del ricorso proposto dal fallito.

Annessa a tale questione è poi quella, ulteriore, se, in presenza di un ricorso introdotto dalla curatela – ma ritenuto dal fallito incompleto e/o inidoneo ai fini della contestazione dell'accertamento –, egli abbia la legittimazione ad introdurne altro, in via autonoma (lo stesso interrogativo si pone ove il fallito non condivida, ritenendole erronee e/o incomplete, le valutazioni assunte dalla curatela).

Riteniamo che l'esercizio dell'azione processuale da parte della curatela precluda al fallito ogni possibilità di proporre un'autonoma iniziativa giudiziale.

E ciò – al di là del merito della linea difensiva prospettata dalla curatela (che pur si presume connotata da professionalità, anche considerato che il patrocinio difensivo in sede tributaria è pur sempre di nomina del giudice delegato) – per ragioni legate ai generali principi di legittimazione, economia e rito del processo (anche tributario).

V'è peraltro chi, in dottrina, autorevolmente ritiene che in presenza d'una condotta “relativamente” inerte da parte del curatore (valutazione solo parziale e/o erronea dei presupposti su cui si fondi l'avviso di accertamento), il fallito sia comunque legittimato ad impugnare, in via autonoma, l'atto impositivo ( G. Di Gennaro, Il ricorso tributario proposto dal fallito rispetto all'inerzia del curatore, in www.ilcaso.it, 2015).

Qualora il medesimo atto impositivo venga impugnato sia dal debitore, sia dal curatore –ipotizzando che non venga pronunziata l'inammissibilità del primo ricorso –, in caso di conflitto tra giudicati, questi opererebbero su piani diversi.

Il giudicato intervenuto nei confronti del debitore spiegherà così effetto solo nei propri confronti (e sarà azionabile quando egli tornerà in bonis), mentre il giudicato intervenuto nei confronti della curatela fallimentare avrà rilevanza ed effetto ai fini del concorso.

In questo senso: “in tema di contenzioso tributario, la sentenza di merito che accerta il credito erariale nei confronti del curatore del fallimento, il quale, pur avendone contezza, non sia intervenuto nell'autonomo giudizio introdotto dal fallito ed avente ad oggetto il medesimo atto impositivo, spiega i suoi effetti solo nella procedura concorsuale in quanto funzionale alla scelta dell'Amministrazione finanziaria di ottenere un titolo ai fini dell'ammissione al passivo”, conseguendone – in conclusione – che “il giudicato formatosi in detto giudizio non può essere opposto dal Fisco al contribuente tornato in bonis, nei cui confronti risulti pronunciata altra sentenza del giudice tributario, anch'essa passata in giudicato, di annullamento dell'atto impositivo, poiché i due giudicati operano su piani distinti e non può essere ravvisato un contrasto tra gli stessi, visto che nei rapporti tributari la sostituzione processuale del curatore al fallito è caratterizzata da elementi di peculiarità e resta subordinata e limitata alle valutazioni di opportunità del primo” (Cass., n. 16816/2014, cit.).

Sommario