Cure urgenti e liste d’attesa: quando l’assistito ha diritto al risarcimento

Giuseppe Chiriatti
02 Luglio 2018

A quali condizioni l'assistito - cui non sia consentito di eseguire un esame strumentale urgente presso una struttura pubblica o convenzionata col Servizio Sanitario Nazionale - può richiedere il rimborso delle spese sostenute per ottenere privatamente la prestazione?
Massima

L'assistito - cui non sia consentito di eseguire presso una struttura pubblica o convenzionata col Servizio Sanitario Nazionale un esame strumentale urgente e indispensabile al fine di individuare la terapia più indicata per debellare o comunque tentare di contrastare l'inesorabile evolversi di una patologia tumorale – ha diritto di richiedere alla Regione il rimborso delle spese sostenute per ottenere privatamente la prestazione.

Il caso

L'attore lamentava di essersi rivolto a tre strutture facenti capo al Servizio Sanitario Nazionale per ottenere, in regime di esenzione, l'esecuzione urgente di un esame PET reso necessario dall'emersione di un sospetto di recidiva di una pregressa patologia tumorale; nondimeno, a fronte dell'impossibilità, per le strutture contattate, di rendere la prestazione richiesta in tempi brevi, l'attore si rivolgeva ad una struttura privata, sostenendo in proprio le spese e convenendo la Regione Puglia davanti al Giudice di Pace di Lecce per ottenerne il rimborso.

All'esito dell'istruttoria, che confermava l'urgenza dell'esame diagnostico richiesto, il giudicante ha accolto la domanda dell'attore, statuendo che «in materia di assistenza sanitaria indiretta la domanda di un assistito del Servizio Sanitario nazionale, quale è quella sottoposta all'esame di questo Giudice, ha come fondamento il diritto soggettivo perfetto alla salute, che trova espresso riconoscimento nell'art. 32 Cost. e come tale rientrante tra i diritti inviolabili della persona ed oggetto pertanto di primaria e completa protezione, tutelabile in via d'azione innanzi all'a.g.o.».

In particolare, il Giudice di Pace di Lecce ha precisato che per accedere alla c.d. assistenza indiretta (e cioè al rimborso delle spese sostenute per ottenere una prestazione sanitaria presso una struttura non convenzionata con il Servizio Sanitario Nazionale) l'assistito dovrebbe ottenere , di norma, una preventiva autorizzazione, «a meno che non ricorra una situazione di urgenza, intesa come assoluta improcrastinabilità della cura, in presenza della quale il diritto alla salute non può patire detto condizionamento … atteso che oggetto della domanda è il diritto primario e fondamentale alla salute, il cui necessario temperamento con altri interessi, pure costituzionalmente protetti, (quali l'esistenza delle risorse del servizio sanitario nazionale), non vale a privarlo della consistenza di diritto soggettivo perfetto».

Alla luce di quanto sopra, la Regione Puglia è stata dunque condannata al rimborso delle spese sostenute privatamente dall'attore, atteso che quest'ultimo «aveva la necessità di un'esecuzione urgente di un esame “salva vita” poiché strumento fondamentale nel campo della diagnostica oncologica giacché consente un planning terapeutico molto più appropriato e mirato di altre metodiche di indagine tradizionali».

La questione

All'indomani della sua pubblicazione, la pronuncia ha rapidamente guadagnato gli onori della cronaca, vuoi in ragione delle specificità del caso da cui è originata (che ha visto coinvolto un malato oncologico), vuoi in ragione del sempre più diffuso malcontento per l'annoso fenomeno delle c.d. liste d'attesa (percepito dall'opinione pubblica come l'indice più significativo dell'inefficienza del Servizio Sanitario Nazionale).

Oltretutto, stando ad alcuni commenti apparsi presso la stampa generalista, il Giudice di Pace di Lecce avrebbe fatto applicazione di un principio generale, che può essere evocato con riguardo a qualsivoglia tipologia di prestazione sanitaria purché urgente.

La pronuncia in commento sollecita, dunque, alcune riflessioni di grande attualità e, soprattutto, impone di meglio comprendere – al filtro del dettato costituzionale – a quali condizioni possa essere effettivamente predicato il “diritto a ricevere prestazioni sanitarie gratuite”.

Le soluzioni giuridiche

Il diritto alle cure nella Costituzione

È opportuno rilevare sin da subito come l'art. 32 Cost. impegni espressamente la Repubblica a garantire “cure gratuite agli indigenti”. Ed è proprio facendo leva sul tenore testuale della norma costituzionale che la Consulta ha chiarito come, nel nostro ordinamento, non possa essere affermato il principio secondo cui, in caso di gravità della malattia e di urgenza dell'intervento terapeutico, il costo di quest'ultimo deve essere rimborsato pure a coloro che non si trovino in una condizione di indigenza (così Corte Cost. n. 354/2008).

Tuttavia è noto che il Legislatore, nel dare attuazione al precetto costituzionale, si è spinto ben oltre i confini della norma. Ed infatti, l'art. 1 della legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (l. 833/1978) definisce tale apparato assistenziale come «il complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l'eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio».

Invero, a dispetto di una formulazione letterale apparentemente restrittiva, la Corte Costituzionale ha precisato come il concetto di “indigenza” di cui all'art. 32 Cost. debba essere inteso non in termini assoluti bensì in termini relativi, e cioè avendo riguardo alla capacità patrimoniale dell'infermo di sostenere i costi connessi alla prestazione sanitaria di volta in volta in richiesta.

In tal senso la Consulta ha affermato che la «nozione di indigenza utilizzata nell'articolo 32 ... non possiede un significato puntuale e sempre identico a sé stesso, sì che possano essere determinati con una sentenza di questa Corte i limiti di reddito o i tetti patrimoniali al di sotto dei quali le condizioni economiche di una persona siano da ritenere insufficienti a fronteggiare le esigenze terapeutiche» (cfr. Corte Cost. n. 309/1999).

Pertanto, l'interpretazione offerta dal Giudice delle Leggi consente di ricomprendere – tra i potenziali beneficiari delle prestazioni sanitarie gratuite – anche coloro che non versano in una situazione di non abbienza, ma che, nondimeno, necessitano di un trattamento particolarmente oneroso ove rapportato alla capacità patrimoniale dell'infermo.

Ed è proprio al fine di razionalizzare i costi (e, per l'effetto, rispondere alla domanda di un più ampio bacino di “utenti”) che l'impianto originario del S.S.N. ha subito, nel corso degli anni '90 del secolo scorso, alcune significative riforme strutturali (ci riferiamo al d. lgs. n. 502/1992 e al d. lgs. n. 229/1999).

In particolare tali interventi normativi si inscrivevano in un nuovo contesto giurisprudenziale all'interno del quale «il diritto a ottenere trattamenti sanitari, essendo basato su norme costituzionali di carattere programmatico impositive di un determinato fine da raggiungere, è garantito a ogni persona come un diritto costituzionale condizionato dall'attuazione che il legislatore ordinario ne dà attraverso il bilanciamento dell'interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone al momento» (cfr. Corte Cost. n. 455/1990).

Fermo restando, ha successivamente chiarito la Corte che tale bilanciamento non può giammai pregiudicare quel «nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l'attuazione di quel diritto» (cfr. Corte Cost. n. 509/2000).

Il diritto alle cure come “diritto soggettivo perfetto”

Ovviamente, i principi di cui sopra sono stati enucleati dalla Consulta nell'esercizio tipico delle proprie prerogative istituzionali e, cioè, sindacando la legittimità delle norme con cui il legislatore (nazionale o regionale) ha ritenuto di dare attuazione al precetto di cui all'art. 32 Cost.

Nondimeno, quei medesimi principi sono stati recepiti dalla magistratura ordinaria la quale ha più volte ribadito come il bene-salute assurga a «diritto soggettivo assoluto e primario, volto a garantire le condizioni di integrità psico-fisica delle persone bisognose di cura allorquando ricorrano condizioni di indispensabilità, di gravità e di urgenza non altrimenti sopperibili« (così Cass. civ., Sez. Un. n. 17461/2006) e, per l'effetto, ha ritenuto di dover tutelare tale situazione giuridica anche al di fuori delle fattispecie espressamente disciplinate dalla legislazione sanitaria.

In particolare, è stata autorizzata in via d'urgenza ex art. 700 c.p.c. la somministrazione di trattamenti terapeutici sperimentali in favore di un soggetto colpito dalla medesima patologia tumorale per cui era stata disposta la sperimentazione, ma che, nondimeno, era stato escluso dal programma terapeutico e, al contempo, non era nelle condizioni di poter acquistare privatamente i farmaci compresi nel trattamento (cfr. Trib. Trani 28 marzo 2008).

E ancora, è stato riconosciuto, in sede di cognizione ordinaria, il diritto dell'assistito a ottenere il rimborso di spese ospedaliere non preventivamente autorizzate dalla Regione ma, nondimeno, urgenti (cfr. Cass. civ. n. 117/1999).

In altri termini, quello che, secondo la giurisprudenza costituzionale, costituisce il nucleo irriducibile del bene-salute, nella prassi giudiziaria assume il rango di posizione giuridica (non più condizionata ad una successiva attuazione per via normativa ma) direttamente azionabile, almeno nei limiti in cui quel bene sia esposto al rischio di un grave e irreparabile pregiudizio.

È dunque in tale solco, già tracciato dalla citata giurisprudenza, che si inserisce la pronuncia in commento, nella parte in cui riconosce il diritto dell'attore al “rimborso” delle spese sostenute per poter conseguire privatamente una prestazione sanitaria urgente.

Rispetto a tale conclusione, nondimeno, occorre procedere con alcune imprescindibili considerazioni.

In primo luogo, il richiedente avrebbe dovuto dimostrare, in ossequio al dettato costituzionale, di versare in quella condizione di indigenza (sia pur da intendersi in termini relativi) che costituisce requisito imprescindibile per poter predicare un diritto alla prestazione sanitaria gratuita.

Ed è proprio questo aspetto che, a parere di chi scrive, non è stato sufficientemente valorizzato nel percorso logico giuridico seguito dal Giudice di Pace di Lecce (sebbene dalla motivazione del provvedimento emerga come l'attore godesse di un'esenzione, ciò che consentirebbe di ritenere, almeno presuntivamente, che lo stesso versasse effettivamente in condizioni di indigenza).

Ma soprattutto, ci preme rilevare come il Giudice di Pace di Lecce, nel definire genericamente la pretesa dell'attore quale diritto al “rimborso”, incorra in un autentico a-tecnicismo (tuttalpiù giustificabile ove il giudicante fosse stato chiamato ad un sindacato secondo equità, ma non in un giudizio secondo diritto, quale, appunto, quello da cui è originata la pronuncia).

Ed anche il riferimento alla “assistenza sanitaria indiretta” appare del tutto improprio, atteso che tale formula identifica una mera modalità di erogazione delle prestazioni, che è disciplinata direttamente dalla legislazione sanitaria e che è definita “indiretta” proprio perché le spese vengono anticipate dall'assistito e successivamente rimborsategli, previa verifica, da parte dell'amministrazione, dei requisiti previsti dalla normativa nazionale e/o regionale di riferimento (si pensi ad esempio all'assistenza indiretta all'estero – cfr. artt. 25 e 37 l. n. 833/1978; art. 8-septies d. lgs. n. 502/1992). Nel caso sottoposto al vaglio del Giudice di Pace di Lecce, invece, la pretesa creditoria dell'attore non troverebbe fonte nella legislazione sanitaria, bensì nel più generale principio di cui si è già detto, e cioè quello secondo cui l'art. 32 Cost. impone di tutelare il bene-salute ogni qualvolta sia esposto al rischio di un pregiudizio grave e irreparabile, e ciò a prescindere dal fatto che il legislatore ordinario possa avere o meno disciplinato quella specifica fattispecie.

Pertanto, andando oltre tale a-tecnicismo (che peraltro è rinvenibile anche in alcuni precedenti di legittimità - cfr. Cass. civ. n. 9319/2010), resta da comprendere, sotto un profilo strettamente formale, quale tipo di tutela sia stata effettivamente riconosciuta all'attore.

Ebbene, ci pare di poter affermare che, nel caso sottoposto al vaglio del Giudice di Pace di Lecce, la pretesa creditoria dell'attore vada formalmente ricondotta nell'alveo di una comune domanda risarcitoria: nel richiedere il rimborso delle spese sostenute, cioè, l'assistito non farebbe altro che lamentare il danno patrimoniale patito per aver dovuto rivolgersi ad una struttura/professionista privato a seguito del rifiuto opposto da parte del S.S.N. e delle strutture con questo convenzionate.

Ci ritroveremmo, dunque, di fronte ad una tipica fattispecie di responsabilità per inadempimento ex art. 1218 c.c., in cui l'obbligo ha ad oggetto un facere e trova fonte direttamente nel comma 1 dell'art. 32 Cost.

Con l'ulteriore conseguenza che, ogni qualvolta il richiedente abbisogni urgentemente di cure e, nondimeno, non sia in grado di “anticipare” le spese per ottenere privatamente la prestazione, la Regione potrebbe essere addirittura esposta al rischio di dover risarcire all'assistito (e se del caso ai suoi familiari, quali eredi o prossimi congiunti, nell'ipotesi estrema di decesso) tutti i danni (anche non patrimoniali) patiti per non aver potuto beneficiare in via diretta della prestazione sanitaria presso il S.S.N.

L'inosservanza dei termini massimi di attesa (art. 3 d. lgs. n. 124/1998)

Ora, pare evidente che rispetto a tale ultima fattispecie, in cui il bene-salute subirebbe un pregiudizio irreparabile, i principi sopra riportati siano del tutto insufficienti a garantire una tutela (per così dire) “reale” a colui che richieda assistenza sanitaria. Ed infatti, se da un lato la tutela risarcitoria mostra tutti i propri limiti ogni qualvolta si discorra di un pregiudizio non patrimoniale (di per sé non ristorabile col denaro), dall'altro il profittevole esperimento della procedura cautelare d'urgenza (e cioè dell'unico strumento processuale che, almeno in astratto, potrebbe consentire di ottenere la prestazione richiesta prima che il bene-salute venga definitivamente pregiudicato) sconta invece il medesimo problema cui dovrebbe rimediare, atteso che anche l'amministrazione giudiziaria, al pari di quella sanitaria, patisce un deficit di risorse che non sempre consente all'istante di ottenere in tempi utili il provvedimento richiesto.

Ed è proprio in tal senso che il legislatore si è premurato di intervenire, già a livello normativo, per governare l'annosa questione delle c.d. liste d'attesa e, più in generale, per incentivare una migliore gestione del servizio.

In particolare, è dapprima intervenuto l'art. 3 comma 10 d. lgs. n. 124/1998, che prevede l'obbligo, per i direttori generali delle aziende sanitarie locali ed ospedaliere, di individuare il tempo massimo che può intercorrere tra la richiesta e l'erogazione delle prestazioni di diagnostica strumentale e di quelle specialistiche ambulatoriali.

Successivamente, in data 28 ottobre 2010 la Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano ha poi approvato il Piano Nazionale per il Governo delle Liste d'Attesa (PNGLA), che introduce un particolare meccanismo di gestione dei tempi massimi d'attesa, mediante la previsione di quattro differenti codici di priorità che vengono individuati in ragione dell'urgenza verificata dal medico che prescrive la prestazione strumentale o specialistica ambulatoriale.

Nel frattempo, la legge finanziaria per l'anno 2006 (l. n. 266/2005) aveva espressamente introdotto un divieto, per le aziende sanitarie ed ospedaliere, di sospendere le attività di prenotazione delle prestazioni (art. 1 comma 282), prevedendo una sanzione amministrativa per la violazione del divieto (art. 1 comma 284).

Ebbene, stando ad alcuni commenti recentemente apparsi sulla stampa nazionale, la normativa primaria e secondaria sopra richiamata avrebbe introdotto un vero e proprio obbligo, per il Servizio Sanitario Nazionale, di eseguire la prestazione nel termine riferito al codice di priorità individuato nella prescrizione medica.

Oltretutto, sempre in quei commenti è stata altresì prospettata la possibilità per l'assistito di ottenere la prestazione sanitaria nell'ambito dell'attività libero-professionale intramuraria, ponendo il costo a carico della azienda oppure pagando una somma pari al valore del ticket che risulterebbe dovuto.

Ora, occorre intanto segnalare come quest'ultima facoltà fosse stata espressamente prevista dall'art. 3, comma 13, d. lgs. n. 124/1998 per la sola fase transitoria, intercorrente tra l'entrata in vigore di tale provvedimento e l'approvazione delle normative che, a livello regionale, avrebbero dovuto attuarlo, individuando, tra le altre, le misure necessarie per «assicurare all'assistito la effettiva possibilità di vedersi garantita l'erogazione delle prestazioni nell'ambito delle strutture pubbliche» (tra cui proprio la possibilità di ricorrere all'attività libero-professionale intramuraria – cfr. comma 12 lett. a).

Pertanto, per poter predicare l'attuale vigenza della facoltà di cui sopra, occorrerebbe intanto verificare se ed in che termini il d. lgs. n. 124/1998 abbia avuto attuazione a livello regionale. Inoltre, osserveremo come il medesimo PNGLA si limiti a riconoscere le prestazioni erogate in regime libero professionale quale «ulteriore possibile strumento per il governo delle liste ed il contenimento dei tempi d'attesa».

Più generale, è quantomeno dubbio che la normativa sopra riportata possa effettivamente impegnare l'amministrazione sanitaria nei confronti dell'assistito, atteso che l'art. 3 comma 10 obbliga sì i dirigenti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere di individuare i tempi massimi d'attese, ma non obbliga espressamente tali enti a rispettare i detti termini. Potrebbe cioè sostenersi che i tempi massimi d'attesa assumano una natura meramente ordinatoria e che l'individuazione degli stessi debba essere apprezzata sotto il profilo meramente organizzativo. Ciò a maggior ragione ove si consideri quel principio, già richiamato in precedenza e secondo cui l'attuazione, in via legislativa, del diritto alle cure deve tener conto anche delle risorse organizzative e finanziarie disponibili (cfr. Corte Cost. n. 455/1990).

Del resto, ove si sostenesse che l'amministrazione sia obbligata a osservare il tempo massimo d'attesa, a quel punto la violazione di qualsivoglia termine potrebbe astrattamente legittimare eventuali iniziative risarcitorie da parte degli utenti del servizio e ciò anche nel caso di prestazione non urgente. Con l'effetto che l'amministrazione sanitaria potrebbe ritrovarsi a dover distrarre, a tal fine, risorse che meglio potrebbero essere impegnate per fornire assistenza sanitaria diretta e gratuita a chi davvero ne necessiti (secondo una logica solidaristica che trova la propria collocazione nell'art. 2 Cost.).

Osservazioni

Al netto di alcuni a-tecnicismi, le conclusioni cui giunge la pronuncia in commento appaiono condivisibili, atteso che l'attore non solo aveva necessità di sottoporsi urgentemente all'esame richiesto, ma, oltretutto, versava in una condizione di presunta indigenza (vuoi in considerazione del costo intrinseco della prestazione, vuoi in considerazione del fatto che il richiedente beneficiava di un'esenzione ticket, e, cioè, di un'agevolazione economica che, almeno teoricamente, è connessa a situazioni di non abbienza).

Ed è proprio tale ultimo aspetto che avrebbe meritato di essere meglio valorizzato dal Giudice, trattandosi di un elemento che caratterizza la proposizione costituzionale di cui all'art. 32 Cost. (“La Repubblica … garantisce cure gratuite agli indigenti”) e che costituisce diretta espressione dello spirito solidaristico che anima la Carta Fondamentale (art. 2).

Del resto, non possiamo neppure ignorare come il concetto stesso di indigenza, nella sua accezione relativa, non consente di procedere con letture restrittive dell'art. 32 Cost. e, al contrario, impone di ricomprendere, all'interno della platea dei potenziali beneficiari dell'assistenza sanitaria, anche coloro che non versano in condizioni di non abbienza ma che, nondimeno, necessitano di cure particolarmente onerose.

Spetta però al legislatore il compito di attuare il dettato costituzionale, tenendo a mente che, i rimedi approntati dalla giurisprudenza ordinaria, come nel caso in concreto, non garantiscono tutela effettiva a coloro che, in caso di urgenza, non hanno mezzi per poter ricorrere alla sanità privata e dunque necessitano di assistenza diretta.