Matrimonio same sex quale presupposto giuridico per l’applicazione di norme materiali europee

04 Luglio 2018

L'articolo 21, par. 1, TFUE, relativo al diritto di circolazione e soggiorno dei cittadini dell'UE, vieta alle autorità competenti dello Stato membro di cui un individuo ha la cittadinanza di negare un diritto di soggiorno derivato, conformemente alle condizioni di cui all'art. 7, par. 1, della direttiva 2004/38/CE, al coniuge, cittadino di uno Stato terzo, non rilevando la circostanza che lo Stato di origine del cittadino UE vieti il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Massima

L'art. 21, par. 1, TFUE, relativo al diritto di circolazione e soggiorno dei cittadini dell'UE, vieta alle autorità competenti dello Stato membro di cui un individuo ha la cittadinanza di negare un diritto di soggiorno derivato, conformemente alle condizioni di cui all'art. 7, par. 1, direttiva 2004/38/CE, al coniuge, cittadino di uno Stato terzo, non rilevando la circostanza che lo Stato di origine del cittadino UE vieti il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Tale diritto di soggiorno, superiore a tre mesi, non può essere sottoposto a condizioni più rigorose di quelle disposte dall'art. 7 direttiva 2004/38/CE, applicabile per analogia

Il caso

La Corte di giustizia UE, con la sentenza resa il 5 giugno 2018, si è pronunciata sulla nozione di “coniuge” ai sensi della direttiva 2004/38 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, nel contesto di un matrimonio, concluso a Bruxelles, tra un cittadino rumeno che possiede anche la cittadinanza statunitense e un cittadino statunitense. Nel 2012, i coniugi hanno avviato le pratiche amministrative affinché, in forza della citata direttiva, il cittadino UE potesse lavorare e soggiornare legalmente in Romania con il proprio coniuge, per un periodo superiore a tre mesi.

L'11 gennaio 2013, l'Ispettorato generale per l'Immigrazione della Romania, ha respinto la relativa domanda, perché, ai sensi della legislazione rumena che non riconosce i “matrimoni omosessuali”, non è possibile concedere, a titolo di ricongiungimento familiare, la proroga del diritto di soggiorno temporaneo di un cittadino statunitense.

I coniugi hanno proposto ricorso avverso la decisione dinanzi al Tribunale di primo grado del settore 5 di Bucarest, sollevando un'eccezione di incostituzionalità delle norme del codice civile rumeno che vietano i matrimoni tra persone dello stesso sesso, per violazione delle disposizioni della Costituzione rumena concernenti il diritto alla vita privata e familiare, nonché delle disposizioni relative al principio di uguaglianza.

La questione

La Corte costituzionale rumena ha deciso di sospendere il procedimento e di adire la Corte di giustizia in via pregiudiziale, avendo maturato diversi dubbi sull'interpretazione da assegnare ad alcune questioni giuridiche presenti nella direttiva 2004/38, alla luce della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e della recente giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti dell'uomo, in materia di diritto al rispetto della vita familiare.

La domanda di pronuncia pregiudiziale si incentra sull'art. 2, punto 2, lett. a), sull'art. 3, par. 1 e 2, lett. a) e b), e sull'art. 7, par. 2, della direttiva 2004/38/CE. In particolare, la Corte, avendo dato risposta affermativa ai quesiti, si è espressa esclusivamente sulle prime due questioni proposte, chiarendo se il termine “coniuge”, ai sensi dell'art. 2, par. 2, lett. a), direttiva 2004/38, in combinato disposto con le pertinenti disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, si applichi a un cittadino di uno Stato extra UE, dello stesso sesso del cittadino dell'Unione con il quale egli è legittimamente sposato in base alla legge di uno Stato membro diverso da quello ospitante, e se l'art. 3, par. 1, e l'art. 7, par. 2, della direttiva 2004/38, in combinato disposto con le stesse norme della Carta, impongano allo Stato membro ospitante la concessione di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a 3 mesi.

Le soluzioni giuridiche

Preliminarmente la Corte ha rilevato che, nel caso di specie, l'esercizio della libertà di soggiorno superiore a tre mesi non può essere fatto valere in forza della direttiva che com'è noto disciplina unicamente le condizioni di ingresso e di soggiorno di un cittadino dell'Unione negli Stati membri diversi da quello di cui egli ha la cittadinanza. Laddove si tratti di invocare un diritto simile, anche di natura derivata, occorre applicare direttamente l'art. 21, par. 1, TFUE, con delle condizioni che non devono essere più rigorose di quelle previste dalla direttiva 2004/38 che risulta applicabile per analogia alla vicenda in esame.

Si tratta evidentemente dell'attuazione del principio dell'effetto utile, in forza del quale, negando un diritto di soggiorno derivato nel paese di origine, l'art. 21, par. 1, TFUE verrebbe privato di significato, poiché il cittadino dell'Unione potrebbe essere dissuaso dal lasciare lo Stato membro di cui possiede la cittadinanza (nel nostro caso la Romania), non avendo la certezza di poter proseguire in questo Stato una vita familiare sviluppata nello Stato membro ospitante (nel nostro caso il Belgio. v., tra le altre, Corte di giustizia UE, 12 marzo 2014, C‑456/12, punto 54).

In riferimento alla prima questione, la Corte ha statuito che la direttiva 2004/38, come s'è detto applicabile per analogia, al suo art. 2, punto 2, lett. a), menziona espressamente, quale “familiare”, il “coniuge” che è nozione neutra dal punto di vista del genere, potendo comprendere il coniuge dello stesso sesso del cittadino dell'Unione interessato.

Inoltre, gli Stati membri, nell'esercizio della competenza in materia di stato civile, devono rispettare le disposizioni dei Trattati e in particolare quelle relative alla libertà riconosciuta a ogni cittadino dell'Unione di circolare e di soggiornare nel territorio europeo. Se in alcuni Stati circolazione e soggiorno fossero subordinati all'esistenza di un matrimonio concluso tra soggetti di sesso diverso, otterremmo una libertà di circolazione à la carte, variabile da uno Stato membro all'altro in funzione delle disposizioni di diritto nazionale.

Conseguentemente le autorità di uno Stato membro, ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato, non possono impedire il riconoscimento del matrimonio di un cittadino di uno Stato terzo con un cittadino dell'Unione dello stesso sesso, contratto durante un soggiorno effettivo in un altro Stato membro, conformemente alla legislazione di tale Stato. La Corte ha cura di precisare che l'affermazione di questo principio non comporta l'obbligo di adottare, nella normativa nazionale, l'istituto del matrimonio same-sex.

La Corte ha anche affermato che il limite dell'ordine pubblico, invocato nel caso all'esame da alcuni governi, deve essere interpretato in senso restrittivo e soprattutto la sua portata non può essere determinata unilateralmente senza il controllo delle istituzioni dell'Unione. Inoltre, un riconoscimento ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato non è in grado di incrinare l'identità nazionale, né di minacciare l'ordine pubblico dello Stato interessato.

Infine la Corte sottolinea che, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte EDU, 7 novembre 2013, Vallianatos e a. c. Grecia, par. 73, nonché Corte EDU, 14 dicembre 2017, Orlandi e a. c. Italia, par. 143), risulta che l'unione che lega una coppia omosessuale può rientrare nella nozione di «vita privata», nonché in quella di «vita familiare», al pari della relazione che lega una coppia di sesso opposto che si trovi nella stessa situazione.

Invero, richiamando l'art. 52, par. 3, CEDU, la Corte di giustizia riconosce espressamente che la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione tutela, quale famiglia, le coppie dello stesso genere.

Osservazioni

Nell'ambito del procedimento dinnanzi alla Corte, vari governi hanno presentato osservazioni, sottolineando il carattere fondamentale del matrimonio e la volontà di alcuni Stati membri di mantenere tale istituzione quale unione tra un uomo e una donna, tutelata spesso da norme di rango costituzionale. In particolare, il governo lettone ha sottolineato, in udienza, che, quand'anche il rifiuto di riconoscere i matrimoni omosessuali contratti in un altro Stato membro costituisse una restrizione all'art. 21 TFUE, sarebbe giustificata da motivi connessi all'ordine pubblico e all'identità nazionale, di cui all'art. 4, par. 2, TUE.

Nella sentenza in commento il giudice europeo ha risolto una questione di diritto internazionale privato adoperando una tecnica internazionalprivatistica, dovendo decidere se un matrimonio tra persone dello stesso sesso, esistente per il diritto belga, possa assumere rilevanza ai fini dell'applicazione dell'art. 3, par. 1, e dell'art. 7, par. 2, della direttiva 2004/38, che impegnano lo Stato membro ospitante a concedere il diritto di soggiorno, per un periodo superiore a tre mesi, al coniuge di un cittadino dell'Unione. Occorre capire, in particolare, se è possibile sostituire ad un istituto di diritto interno, considerato dallo stesso diritto come condizione pregiudiziale di un effetto giuridico determinato, un istituto analogo di diritto straniero. Il problema indicato può verificarsi in una varietà di situazioni, tutte comunque riconducibili alla questione se i due istituti in esame (quello di diritto interno e quello di diritto straniero) possano essere considerati equivalenti.

La prospettiva tracciata dalla Corte è molto interessante perché si tratta di stabilire quale sia l'ordinamento cui fare capo allorché una norma materiale europea designi, come presupposto delle conseguenze da essa previste, delle situazioni giuridiche. Tali presupposti vengono indicati mediante espressioni giuridiche che richiamano istituti che risultano autonomamente organizzati in altra parte dell'ordinamento giuridico e vanno quindi determinati mediante un riferimento alle fonti ulteriori che tali istituti provvedono a disciplinare (v. P. Picone, Norme di conflitto speciali per la valutazione dei presupposti di norme materiali, Napoli, 1969, 5).

L'ordinamento UE, sia pure integrato dai principi generali comuni agli ordinamenti giuridici degli Stati membri, ha natura settoriale, dunque, difficilmente è in grado di contenere un'apposita disciplina dei presupposti giuridici utilizzati dalle sue norme materiali, laddove tali presupposti riguardino istituti da esso non regolati, qual è il caso in cui la norma europea ricolleghi i suoi effetti alla qualità di coniuge. Tuttavia, proprio perché si tratta di un ordinamento integrato dai principi generali di diritto comuni agli Stati membri, è possibile che venga a delinearsi un'autonoma nozione europea di coniuge.

In sostanza occorre verificare se una situazione concretamente esistente per un ordinamento straniero, in ragione della sua analogia con una questione disciplinata in astratto dall'ordinamento UE ma non concretamente creatasi in esso, sia idonea a funzionare da presupposto della norma materiale europea e degli effetti da essa previsti e dunque a sostituirsi all'analoga situazione disposta nell'ordinamento europeo, ma non realizzatasi nel suo ambito.

A tale riguardo, è necessario accertare, sulla base del diritto dell'Unione europea, nel quale è contenuta la norma materiale che viene in rilievo, i concetti giuridici in essa impiegati e, conseguentemente, valutare se possa rientravi la situazione giuridica aliena suscettibile di costituire il presupposto della norma materiale.

La Corte di giustizia ha delineato innanzitutto la nozione di coniuge per l'ordinamento UE, affermando che tale nozione vale a designare una persona unita ad un'altra da vincolo matrimoniale ed è neutra dal punto di vista del genere, potendo comprendere quindi il coniuge dello stesso sesso. Secondo la Corte, a differenza di quanto accade per le unioni registrate, si sarebbe sviluppata sul punto una nozione autonoma in ambito UE, tratta dai principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati. Difatti, per determinare la qualificazione di “familiare” di un partner con cui il cittadino dell'Unione ha contratto un'unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, l'art. 2, punto 2, lett. b), della direttiva 2004/38 rinvia alle condizioni previste dalla legislazione pertinente dello Stato membro in cui tale cittadino intende recarsi o soggiornare. L'art. 2, punto 2, lett. a), della direttiva citata non contiene, invece, un siffatto rinvio per quanto riguarda la nozione di “coniuge”.

Conseguentemente, la Corte ha statuito che, sulla base del significato tracciato, il matrimonio tra due persone dello stesso sesso, esistente per il diritto belga, sia idoneo a rilevare come presupposto della norma materiale europea e a far discendere l'effetto (concessione di un diritto di soggiorno derivato a un cittadino di uno Stato terzo) da essa contemplato. In sostanza, il giudice ha ammesso che possa ravvisarsi una fungibilità tra la situazione costituitasi per l'ordinamento straniero (quello belga) e i contenuti tipici di quella analoga astrattamente disciplinata dal diritto UE, facendone discendere che la prima situazione giuridica può prendere il posto della seconda al fine di dare luogo agli effetti ricollegati alla situazione stessa dalla norma materiale del foro (europea).

È utile precisare che la questione descritta non può essere confusa con il problema del limite dell'ordine pubblico internazionale. Infatti nel caso in questione non si tratta di dare efficacia nell'ordinamento UE, in generale ed a tutti gli effetti, al matrimonio tra due persone dello stesso sesso, venuto in essere per il diritto belga, essendo in giuoco esclusivamente la questione di rendere possibile la realizzazione, nell'ambito di tale ordinamento, delle conseguenze della situazione giuridica costituitasi all'estero. Com'è noto infatti, il limite dell'ordine pubblico non funziona nei confronti delle norme straniere che devono essere applicate al fine di risolvere una questione preliminare posta da una norma materiale straniera richiamata dal foro (P. Picone, op. cit., 37).

Rileva, a tale proposito, il punto 45 della sentenza, dove la Corte assai opportunamente statuisce che «l'obbligo per uno Stato membro di riconoscere un matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto in un altro Stato membro conformemente alla normativa di quest'ultimo, ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato a un cittadino di uno Stato terzo, non pregiudica l'istituto del matrimonio in tale primo Stato membro, il quale è definito dal diritto nazionale». La Corte correttamente aggiunge che «tale obbligo è circoscritto al riconoscimento di siffatti matrimoni, contratti in un altro Stato membro in conformità della normativa di quest'ultimo, e ciò unicamente ai fini dell'esercizio dei diritti conferiti a tali persone dal diritto dell'Unione. Pertanto, un simile obbligo di riconoscimento ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato a un cittadino di uno Stato terzo non attenta all'identità nazionale né minaccia l'ordine pubblico dello Stato membro interessato» (corsivo di chi scrive).

In questo caso infatti le norme straniere non sono applicate all'interno dell'ordinamento del foro (ovvero nell'ordinamento europeo), ma sono prese in considerazione allo scopo di risolvere una questione sollevata da una norma materiale straniera applicabile in forza di una norma materiale dello stesso foro. E, difatti, il matrimonio tra due persone dello stesso sesso, esistente, per il diritto belga, appare idoneo a rimpiazzare il matrimonio, indicato dalla norma materiale comunitaria quale presupposto dell'effetto (concessione di un diritto di soggiorno derivato) da essa previsto.

Questa possibilità in ipotesi potrebbe venire meno solo ove si verificasse che il diritto belga, ad esempio, non ricollegasse al matrimonio same sex taluni effetti relativi alla libera circolazione, connessi al possesso di un certo status familiare. In un caso di questo tipo, infatti, nell'ambito dell'ordinamento europeo, il matrimonio finirebbe col produrre un effetto che esso non produce nell'ambito dell'ordinamento in cui è stato creato.

Pertanto, per escludere la sovrapponibilità tra le due fattispecie (matrimonio per il diritto belga e matrimonio configurabile per il diritto europeo) non è corretto affermare che il secondo si realizzi tra persone di differente sesso, dovendosi verificare al limite come il primo sia organizzato nell'ordinamento da cui proviene.

Da un punto di vista pratico, la decisione della Corte rappresenta una svolta, in ambito europeo, risolvendo a monte le cosiddette situazioni giuridiche “claudicanti” che vengono a crearsi per via delle differenze tra le legislazioni nazionali in merito alle unioni o a i matrimoni same sex.

Guida all'approfondimento

W. Wengler, Le questioni preliminari nel diritto internazionale privato, in Diritto internazionale, 1963, 53 ss.

P. Picone, Norme di conflitto speciali per la valutazione dei presupposti di norme materiali, Napoli, 1969.

P. Picone, Saggio sulla struttura formale del problema delle questioni preliminari nel diritto internazionale privato, Napoli, 1971.

P. Picone, Les méthode de la référence à l'ordre juridique compétent en droit international privé, inRecueil des Cours de l'Académie de droit international de la Haye, 1986, II, 229 ss.

P. Picone (a cura di), Diritto internazionale privato e diritto comunitario, Padova, 2004.

G. Carella, Sistema delle norme di conflitto e tutela internazionale dei diritti umani: una rivoluzione copernicana?, in Diritti umani e diritto internazionale, 2014, 523 ss.

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