Nullo il preliminare di vendita sottoscritto solo dal marito: necessario il consenso di entrambi i coniugi
27 Luglio 2018
Massima
Poiché il disposto di cui all'art. 184 c.c. presuppone l'effettiva autonoma disposizione di un bene comune da parte di uno solo dei coniugi, esso non può trovare applicazione nel caso in cui tutti i contraenti siano a conoscenza della comunione dei beni tra i coniugi e questi ultimi figurino entrambi nel contratto come venditori. In tal caso, infatti, il mancato consenso di uno dei due impedisce il sorgere di una valida obbligazione a carico dell'altro. Il caso
La vicenda trae origine da un giudizio introdotto dal promissario acquirente di un bene immobile, di proprietà di due coniugi in regime di comunione legale, per ottenere, ai sensi dell'art. 2932 c.c., una sentenza produttiva degli effetti del contratto. L'attore evocava in giudizio il marito, sia in proprio, sia quale tutore della moglie interdetta, assumendo che questi, sottoscrivendo il preliminare, avesse agito anche in qualità di rappresentate legale della donna. Si costituivano in giudizio il marito e il protutore della moglie contestando le allegazioni avversarie ed eccependo l'annullabilità del contratto preliminare per mancanza del consenso della moglie. All'esito del processo, sospeso a causa del decesso di entrambi i convenuti e riassunto nei confronti dei rispettivi eredi, il Tribunale accoglieva la domanda dell'attore, dichiarando tardiva l'eccezione di annullabilità del contratto ex art. 184 c.c. in quanto proposta oltre l'anno da quando il protutore aveva avuto notizia del negozio annullabile. La sentenza veniva impugnata dagli eredi dei convenuti e la Corte d'Appello, in riforma della pronuncia di prime cure, rigettava la domanda del promissario acquirente, che ricorreva quindi per la cassazione della sentenza d'appello affidandosi a tre motivi. La questione
Quali sono i presupposti per l'applicazione dell'art. 184 c.c., che prevede una particolare tutela per il coniuge pretermesso dall'atto di disposizione di un bene caduto in comunione? Quali sono i requisiti e i limiti della rappresentanza legale del coniuge nominato tutore dell'altro in seguito a pronuncia di interdizione? Le soluzioni giuridiche
Con la pronuncia in commento la suprema Corte è chiamata ad affrontare sia il tema della validità del contratto sottoscritto da uno solo dei coniugi in regime di comunione, e dell'eventuale annullabilità del negozio, sia quello degli effetti dell'interdizione di uno dei due. Nel giudizio di primo grado l'attore – promissario acquirente – aveva ritenuto che la sola sottoscrizione del marito fosse idonea a impegnare anche la moglie, e tale interpretazione è stata fatta propria dal giudice di prime cure. La Corte d'appello aveva affermato, invece, che pur essendo improprio il richiamo alla speciale disposizione di cui all'art. 184 c.c. – invocata dai convenuti – era tuttavia fondata l'eccezione di nullità-inefficacia del contratto per mancata sottoscrizione di uno dei due comproprietari, entrambi indicati come parti nell'atto. La norma suindicata dispone che gli atti compiuti da un coniuge «senza il necessario consenso dell'altro coniuge, e da questo non convalidati, sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell'art. 2683 c.c.» e la Corte ha ribadito che tale disposizione si riferisce esclusivamente agli atti dispositivi compiuti da un solo coniuge, senza indicazione dell'altro, o senza essere stato autorizzato (Cass. civ., sez. II, 28 febbraio 2018, n. 4676; Cass. civ., sez. II, 17 marzo 2016, n. 5326). La ratio della norma è da rinvenire nella peculiarità della comunione legale, nella quale non sussistono quote, ma i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente a oggetto i beni della comunione stessa. Con particolare riferimento al contratto preliminare di vendita, dottrina e giurisprudenza ritengono pacificamente che l'accordo concluso senza partecipazione e/o consenso di uno dei due coniugi sia da ritenere pienamente valido ed efficace, ma che sia esposto al rischio dell'azione di annullamento da parte del coniuge pretermesso (Cass. civ., sez. II, 30 gennaio 2013, n. 2202), azione che si prescrive entro un anno dalla conoscenza dell'affare e, comunque, dalla trascrizione del contratto (Cass. civ., sez. II, 31 gennaio 2012, n. 1385). La Corte osserva che, nel caso sottoposto al suo giudizio, nel contratto preliminare il marito non aveva agito “anche per la moglie”, ma lo schema contrattuale indicava chiaramente che la parte promittente la vendita era plurisoggettiva: era stato infatti specificato che si impegnavano a vendere l'immobile i due coniugi, di cui erano indicati i rispettivi nominativi e, dunque, le parti erano consapevoli che il bene fosse di proprietà di entrambi. Il fatto che l'atto sia stato sottoscritto solamente dal marito ha quindi determinato la nullità dell'intero atto negoziale, per mancanza di uno dei requisiti essenziali ex art. 1325 ss. c.c.. I convenuti hanno quindi erroneamente e impropriamente richiamato le norme sulla comunione legale dei coniugi e sulla qualificazione del consenso espresso da uno dei due, in quanto la questione giuridica deve essere risolta applicando le regole generali relative ai requisiti essenziali del contratto. Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente aveva dedotto la violazione dell'art. 183, comma 3, c.c. - che esclude di diritto il coniuge interdetto dall'amministrazione dei beni comuni – e dell'art. 424 c.c. che attribuisce al tutore il potere di rappresentanza legale dell'interdetto, ritenendo che il marito-tutore avesse agito anche in rappresentanza della moglie. In proposito la Corte condivide l'assunto della Corte territoriale, confermando che dall'interpretazione del contratto era emerso che la comune intenzione delle parti era quella di «escludere dal contenuto dell'atto qualunque riferimento allo stato di interdizione legale della signora, e quindi alla sua esclusione dall'amministrazione dei beni». La comune intenzione dei contraenti, in sostanza, era quella di far partecipare all'atto entrambi i coniugi, e una diversa interpretazione sarebbe da ritenersi cavillosa o contrastante con gli interessi che le parti hanno voluto tutelare con il negozio. Valorizzando dunque la volontà dei contraenti è stato ritenuto assorbente il vizio di nullità per mancata sottoscrizione della moglie. Con il terzo motivo, infine, il ricorrente contestava nel quantum la liquidazione delle spese di lite, e il motivo è stato dichiarato inammissibile in quanto non sono state analiticamente indicate le voci e gli importi che si assumevano errati. In via incidentale, tuttavia, la Corte ha ribadito che le soglie numeriche indicate nel decreto ministeriale per la liquidazione del compenso non sono vincolanti per il giudice, che è tenuto unicamente a fornire idonea motivazione sul punto, indicando le concrete circostanze che hanno giustificato la deroga ai limiti previsti nel decreto stesso. Osservazioni
La decisione in commento attribuisce un particolare rilievo alla ricerca della reale volontà dei soggetti coinvolti nel negozio giuridico, come risultante dal senso letterale delle parole, che deve essere verificato «alla luce dell'intero contesto utilizzando i criteri ermeneutici di interpretazione soggettiva», così da comprendere l'esatto significato dell'accordo, tenendo conto della “ragione pratica” e della “causa concreta” del contratto. Se è vero, però, che nell'interpretazione del rapporto contrattuale non si può prescindere dalla considerazione dell'effettiva volontà dei contraenti, parimenti non si può dimenticare che, nel particolare caso di incapacità di uno dei coniugi, l'ordinamento ha previsto una speciale disciplina a tutela degli interessi del soggetto debole. È corretto affermare che l'art. 184 c.c. si applica unicamente alle fattispecie in cui uno dei coniugi agisce senza spendere il nome dell'altro, ma sugli effetti dell'interdizione è lecito porsi qualche domanda. L'art. 183, comma 3,c.c. prevede un'ipotesi di esclusione legale del coniuge dall'amministrazione dei beni comuni laddove sia incapace ad amministrare, esclusione che opera ipso iure in caso di pronuncia di interdizione. Ne consegue che l'altro conserva pieni poteri di amministrazione, negandosi al tutore il potere di sostituire l'incapace tanto nel compimento di atti di ordinaria amministrazione quanto in quelli di straordinaria amministrazione. Il rappresentante del coniuge interdetto ha unicamente la possibilità, in caso di pericolo per gli interessi dell'incapace, di chiedere la separazione dei beni secondo quanto disposto dall'art. 193, comma 3, c.c., in quanto si ritiene che, in ragione della natura strettamente personale dell'amministrazione, un soggetto estraneo non possa ingerirsi in decisioni riservate alla competenza esclusiva dei coniugi. La dottrina precisa, però, che nelle ipotesi in cui il coniuge capace sia anche tutore dell'altro, per tutti gli atti di straordinaria amministrazione, presupposto imprescindibile per il compimento dell'atto è l'autorizzazione da parte del giudice tutelare (con intervento del protutore in caso di conflitto di interessi). Stando così le cose, con la pronuncia in commento è stato forse attribuito un valore eccessivo alla volontà delle parti: non si può non tener conto, infatti, della circostanza che alla moglie, una volta dichiarata l'interdizione, era preclusa la possibilità di sottoscrivere l'atto, perché esclusa di diritto dall'amministrazione del bene, e ciò indipendentemente dal fatto che le parti avessero voluto o meno la sua partecipazione al negozio. Se dunque il promissario acquirente era a conoscenza della condizione di incapacità – come sembra di capire dalla lettura della motivazione – allora il contratto potrebbe essere ritenuto invalido non tanto per difetto della sottoscrizione della moglie, ma perché privo della necessaria autorizzazione giudiziale. |