Il figlicidio. Casistica e ricostruzione del profilo criminologico
07 Agosto 2018
Premessa
Le percentuali riferite agli omicidi in famiglia sul totale degli omicidi commessi variano da luogo a luogo e per epoca storica, con motivazioni e vittime preferenziali differenti. Negli ultimi anni l'omicidio in ambito familiare ha interessato un sempre più ampio numero di professionisti che se ne occupano a vario titolo: specialistico, giuridico, informativo-culturale. Spesso ciò che colpisce, sia gli addetti ai lavori in ambito giuridico che l'opinione pubblica, è la diffusione di tali eventi criminosi trasversalmente in tutte le età, contesti sociali, culturali ed economici e la loro efferatezza a fronte di motivazioni dell'autore spesso considerate futili o sovrastimate, in presenza frequentemente di situazioni “patogene” in cui non si è posto intervento nelle modalità o nelle tempistiche più adeguate. La famiglia, per i membri nucleo centrale di integrazione/mediazione tra il proprio modello di valori interiorizzato, le proprie aspettative e il contesto sociale e culturale in cui sono inseriti, diventa spesso anche il luogo di “implosione” di aspetti psicopatologici e disfunzionali e all'agito in atti estremi. Nell'ambito degli omicidi in famiglia si distinguono due categorie:
Tra questi reati, quello intuitivamente più incomprensibile ai più risulta essere proprio il figlicidio, evento che suscita generalmente profonda angoscia, sgomento e incredulità, in quanto il rapporto genitore-figlio è culturalmente connotato da un impegno di cura, tutela e affetto del primo nei confronti del secondo, esente dalla conflittualità e dalla passionalità che si possono ritrovare come motivazioni alla base dell'uxoricidio o del fratricidio. Se il figlicidio da parte del padre spesso si correla a situazioni di separazione e conflittualità in cui i figli diventano oggetto di vendetta trasversale e vittime di una strage familiare allargata, i casi di figlicidio in cui è la madre che commette il delitto tale agito si correla più facilmente a una situazione relazionale disfunzionale, alla presenza di una psicopatologia e di eventi critici importanti. È evidente che si tratta di un crimine molto complesso nelle sue dinamiche affettive e relazionali e spesso multifattoriale. Può essere molto difficile comprendere cosa spinge una mamma a uccidere il proprio figlio. È un'azione sentita dalla comunità come così irrazionale che generalmente porta a pensare che sia dovuta a una patologia. Nei paragrafi seguenti si affronterà nello specifico il figlicidio materno, al fine di evidenziarne le specificità e la complessità. Il figlicidio materno: definizione e tipologie
In ambito giuridico la fattispecie delittuosa in esame si distingue in due tipologie sulla base di un criterio temporale ed evidenziando quindi una ipotesi implicita relativa a una differenziazione di cause. Si distingue quindi tra infanticidio, cioè l'uccisione del neonato dopo il parto o del feto durante il parto quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto stesso (art. 578 c.p.), e omicidio (art. 575 c.p.) con l'applicazione delle norme aggravanti nel caso in cui un genitore uccida il figlio non più neonato oppure neonato ma in assenza delle predette condizioni di abbandono.
In criminologia invece si distingue tra:
Tale distinzione implicitamente si correla agli aspetti situazionali e alla motivazione alla base del delitto in quanto è piuttosto evidente che il neonaticidio spesso si verifica in situazioni in cui la madre non ha avuto modo di creare alcun legame affettivo, alcuna relazione con il figlio, vivendolo come estraneo e “agendo” in modo da impedirne l'inizio della sua vita; l'infanticidio e il figlicidio invece avvengono in presenza di un rapporto consolidato, se pur ambivalente o basato su dinamiche relazionali disfunzionali.
MERZAGORA (2003) sottolinea: «Il figlicidio può essere suddiviso in una serie di tipologie non solo motivazionali ma anche situazionali in un continuum che va dall'assenza di patologia fino alla patologia più grave».
Questa tipologia di crimine è stata oggetto di ricerca di alcuni studiosi, in particolare dagli anni '70 in avanti. Tra gli studiosi PHILIP RESNICK (1969-1970), analizzando 131 casi di figlicidio perviene ad una prima classificazione di questa tipologia di reato identificandone 5 tipi differenti:
Qualche anno più tardi SCOTT (1973), basandosi sulla classificazione di Resnick identifica ulteriori elementi correlati alle motivazioni sottostanti il reato come: omicidio del figlio non voluto per aggressione oppure atto di negligenza;
E ancora D'ORBAN (1979) struttura una ulteriore classificazione in cui identifica:
Alcuni anni più tardi WILCZYNSKY (1997) specifica, sulla base di 3 campioni (uno britannico e due australiani), un'ulteriore classificazione che conferma di fatto quelle precedenti.
Infine in Italia NIVOLI (2002) e MERZAGORA (2003), fornisco una definizione in termini criminologici questa tipologia di omicidio. In particolare, secondo NIVOLI le motivazioni che portano la madre a commettere figlicidio sono:
MERZAGORA, invece, facendo un'accurata disamina del fenomeno rileva che paradossalmente solo una porzione minima dei casi nei campioni riportati nella letteratura è rappresentata dalla sindrome o complesso di Medea, dove l'omicidio del figlio è compiuto per vendetta. Il fattore scatenante sarebbe basato sulla conflittualità con il marito, utilizzando il figlio come un vero e proprio strumento, al fine di creare sofferenza o di attirare l'attenzione di chi è il vero oggetto di ostilità. Identifica invece diverse tipologie di madri, con caratteristiche di personalità e con comportamenti specifici cui conseguono i fatti reato. Tra queste:
Nel 2005 è stata effettuata una attenta disamina di 80 perizie psichiatriche disposte nei confronti di madri dichiarate colpevoli dell'omicidio del o dei loro bambini al fine di tracciare un profilo della madre figlicida e del reato di figlicidio in Italia (BRAMANTE, 2005).
I casi considerati nella ricerca si sono verificati nell'arco temporale compreso tra il 1967 e il 2003. Dalla analisi dei dati emerge che tali madri:
Dalla disamina della perizia inoltre si è evidenziata una presenza importante di patologia psichica pregressa al fatto reato (71%). Alcune di queste madri infatti erano già in cura presso i servizi psicosociali territoriali, altre pur evidenziando un problema ed essendone consapevoli, avevano cercato di gestire da sé il proprio male con l'idea che presto “se ne sarebbe andato” con il tempo. Tra queste donne il 55% presentava i sintomi della depressione e soltanto all'11% delle donne era stato diagnosticato un disturbo dell'area psicotica. Tra le diverse diagnosi pregresse riportate si rilevano: sindrome ansioso-depressiva con idee autolesive, depressione con abuso di sostanze stupefacenti, scompenso psicotico con sintomi produttivi, schizofrenia paranoide, sindrome dissociativa con componenti depressive, depressione maggiore, psicosi cronica, schizofrenia ebefrenico-paranoide, psicosi paranoicale, psicosi, depressione maggiore con sintomi persecutori, disturbo dell'umore, depressione post partum, psicosi puerperale, episodio psicotico, disturbo di personalità NAS, ecc. Sempre in anamnesi si ritrovano reiterati ricoveri psichiatrici pregressi e T.S.O. (trattamenti sanitari obbligatori).
Si noti, che i dati sopra descritti non hanno trovato conferma nella diagnosi fatta in seguito dall'esperto perito chiamato in causa per la valutazione psichiatrica dopo la commissione del reato. La metamorfosi diagnostica che emerge tra la valutazione effettuata prima del figlicidio e quella peritale è indicativa della possibilità che il malessere pregresso non fosse stato debitamente considerato nella sua complessità e gravità. È stata riscontrata dal perito la presenza di patologia mentale in un numero elevato di madri figlicide (85%) e le diagnosi maggiormente rappresentate sono: schizofrenia o altri disturbi psicotici nel 49% dei casi, disturbi dell'umore (depressione maggiore) nel 25% dei casi, disturbo di personalità paranoide, borderline e schizoide nel 17%. Analizzando i 73 casi in cui è stata riscontrata un'infermità sugli 80 casi di figlicidio, infatti, si trova in anamnesi come riferita dal perito o come riportata nella cartella dell'O.P.G. una diagnosi simile a quella successiva al delitto in circa la metà dei casi, assenza di diagnosi precedente nel 29% dei casi e una diagnosi radicalmente diversa tra il prima e il dopo nel 22% dei casi Si considerano diagnosi simili tutti quei casi in cui le diagnosi, quella fatta prima del figlicidio e quella successiva, appartengono alla stessa categoria diagnostica, ad esempio una generica depressione che dopo il delitto diviene depressione maggiore, o quelli in cui un disturbo schizo-affettivo evolve in psicosi tout court. Per la seconda categoria, quella in cui non erano riportate diagnosi di sorta, la spiegazione può consistere nel fatto che il perito non ha avuto accesso alla documentazione, oppure nella ben nota cecità da parte dei non addetti ai lavori nei confronti di patologie anche molto gravi Ma ciò che più interessa, e allo stesso tempo impensierisce, è l'ultimo gruppo, quello dei 16 casi in cui da una precisa diagnosi si passa ad un'altra, altrettanto precisa e non comprensibile in termini di evoluzione dall'una all'altra.
Qual è quindi il profilo che emerge? La madre figlicida è una giovane donna (18-32 anni), di nazionalità italiana, scolarità media, coniugata ma in una relazione con il partner che risulta spesso problematica e/o conflittuale, casalinga, troppo spesso per una scelta non sua ma del marito/compagno. Uccide nella sua abitazione, soprattutto nel bagno e in camera da letto, uccide solitamente bambini piccoli (età inferiore a 7 anni), utilizza per commettere il reato modalità che si possono definire “immediate” quali l'annegamento, il soffocamento, la defenestrazione; il movente primario è la malattia mentale, dopo il reato, viene trovata spesso in stato confusionale sul luogo del delitto, confessa oppure tenta il suicidio. Le madri quindi, spinte a commettere il delitto da gravi patologie psichiatriche, generalmente sono affette da tali malattie da tempo. Tali patologie (per lo più di tipo psicotico e su registro paranoideo) portano a percepire il figlio come persecutore o, al contrario, come oggetto fragile che si deve difendere da un mondo estraneo e pericoloso. Nel caso invece del disturbo depressivo maggiore viene meno la capacità della donna di provare emozioni e tutto perde valore, venendo a mancare ogni prospettiva per il futuro; la morte sua e del figlio diventa quindi l'unica via d'uscita da una sofferenza insopportabile e profonda. Per quanto sopra descritto duole constatare che nella maggior parte dei casi la madre figlicida aveva dato segnali di disagio psichico prima dell'atto (tentati suicidi, ricoveri psichiatrici, T.S.O. e in alcuni casi, tentato omicidio della vittima), agiti che avrebbero dovuto allarmare i congiunti e i servizi del territorio relativamente la possibilità di atti autolesivi o lesivi nei confronti del figlio. Negli ultimi anni si è riscontrata una maggiore sensibilità nei confronti della psicopatologia perinatale ma all'interno dei servizi del territorio ancora molto è da costruire per poter fornire il giusto supporto alle madri in difficoltà e, soprattutto, valutare in termini diagnostici gli elementi che possono essere considerati segnali di un malessere grave. Per quanto riguarda le madri figlicide il processo rappresenta l'inizio di un lungo percorso atto ad elaborare il lutto, a prendere coscienza del fatto commesso e con essa sopportare ed elaborare il senso di colpa e la disperazione. Durante le prime fasi la negazione è sicuramente il meccanismo di difesa prevalente della madre e spesso dei parenti. In altri casi può manifestarsi al momento del reinserimento nella società il meccanismo difensivo della riparazione che potrebbe portarle ad avere un altro figlio. Il percorso terapeutico e l'efficacia delle cure sono basilari per il reinserimento in famiglia e società. 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