Legittimità del termine di decadenza dall'azione di disconoscimento della paternità secondo la Corte EDU
09 Agosto 2018
Massima
Limitare le possibilità di contestare giudizialmente la filiazione costituisce un'ingerenza dell'autorità nella vita privata che può trovare giustificazione nell'esigenza di tutelare l'interesse alla certezza dei rapporti giuridici, sotto il duplice profilo dell'interesse del minore e di quello generale della società alla stabilità dei rapporti; detta ingerenza diviene illegittima, ex art. 8 CEDU, giacché sproporzionata nel caso in cui l'autorità nazionale rifiuti di esaminare nel merito la posizione di un individuo incorso senza colpa nella decadenza dall'azione. Il caso
Nel corso del matrimonio tra Tizio e Caia nascono due bambini. Nel 2006 i coniugi sciolgono consensualmente il matrimonio; l'accordo di divorzio prevede un contributo al mantenimento dei bambini a carico del padre. Successivamente Tizio scopre che al tempo del concepimento del secondo figlio, nato nel 2003, la moglie aveva avuto una relazione extraconiugale e, successivamente, da un test genetico riceve la conferma di non essere padre del bambino. Subito dopo, nel febbraio 2007, promuove una causa per il disconoscimento della paternità, che viene rigettata in quanto il codice civile bulgaro fissa per l'esercizio dell'azione il termine di un anno dal momento in cui il marito della donna che ha partorito ha notizia della nascita. Esauriti i rimedi interni l'uomo si rivolge alla Corte di Strasburgo allegando una violazione dell'art. 8 CEDU: egli afferma che la previsione della possibilità di contestare la paternità è espressione del diritto alla vita privata dell'individuo, che bilancia in modo efficace la presunzione di paternità in capo al marito della donna che partorisce; ma il termine di un anno per l'esercizio dell'azione, impedisce in modo irragionevole di contestare la paternità a tutti coloro che apprendano di non essere padri successivamente allo spirare del termine stesso; ciò rappresenta un'ingerenza eccessiva dello Stato nella vita privata dell'individuo. Lo Stato Bulgaro allega, al contrario, che il termine di decadenza di un anno rappresenta un ragionevole bilanciamento di due opposte esigenze: quella di chi intende contestare la paternità e quella di garantire certezza legale e stabilità ai legami giuridici, soprattutto a tutela del minore, che è il soggetto più vulnerabile della famiglia. Il termine di un anno per contestare la paternità, secondo lo Stato Bulgaro, rappresenta una ragionevole soluzione nel bilanciamento dell'interesse di adeguare la realtà giuridica a quella biologica con l'interesse alla certezza delle origini. La questione
La Corte valuta preliminarmente che la questione proposta riguarda effettivamente l'ambito della vita privata di cui all'art. 8 CEDU. La norma riconosce la vita privata quale diritto fondamentale e prevede che non possa esservi ingerenza dell'autorità pubblica nell'esercizio di questo diritto «se non in quanto tale ingerenza sia prevista dalla legge e in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui». In secondo luogo la Corte ricorda che in altre pronunce ha considerato che l'interesse a contestare lo status di genitore può essere sacrificato a fronte dell'esigenza di certezza del diritto nelle relazioni familiari. Inoltre, afferma la Corte, la valutazione dei best interests del bambino può assumere una posizione di supremazia rispetto alle posizioni degli adulti. Stabilito dunque che l'ingerenza dello Stato nella vita familiare può essere legittima sotto il profilo della limitazione delle azioni di contestazione della filiazione, e che gli Stati aderenti alla convenzione dispongono in ciò di un ampio margine di apprezzamento, resta da stabilire riguardo al caso concreto se l'autorità nazionale abbia raggiunto un adeguato equilibrio tra gli interessi; cioè se il rifiuto di esaminare la domanda del ricorrente realizzasse una misura «necessaria in una società democratica»,come recita l'art. 8 CEDU. Le soluzioni giuridiche
Secondo la valutazione della Corte il requisito della proporzionalità dell'ingerenza non è soddisfatto: «Sebbene la scelta del legislatore di limitare l'esercizio dell'azione nel tempo non possa essere definita irrazionale o arbitraria, la Corte ritiene che non possa essere considerata proporzionata in considerazione dei particolari interessi in gioco e della rigidità con cui opera in tutti i casi». Nel caso in questione, ad esempio, il ricorrente era incorso nella decadenza per motivi a lui non imputabili. In un caso precedente, la Corte aveva rilevato che «una volta scaduto il termine di prescrizione per la propria pretesa di contestare la paternità, veniva attribuito un maggiore peso agli interessi del minore rispetto all'interesse del ricorrente di confutare la sua paternità» (Corte EDU 18 marzo 2013). Tuttavia, questa constatazione era stata fatta in un contesto in cui il richiedente aveva saputo di non essere il padre dal primo giorno della vita del bambino, ma non aveva preso provvedimenti per contestare la paternità entro il termine legale. In precedenti casi, analoghi a quello in commento, la Corte aveva invece ritenuto problematico il procedimento in cui le autorità nazionali non avevano esaminato le circostanze personali dei ricorrenti. La Corte ha poi valorizzato la circostanza che il ricorrente avesse effettuato il test del DNA: «L'assoluta severità del termine applicabile ha significato che la forza probatoria di tale prova non è mai stata testata, né il richiedente ha avuto l'opportunità di far ascoltare il suo caso in una procedura interna in grado di valutare i diversi interessi coinvolti e di bilanciarli con riferimento alla considerazione primaria dell'interesse superiore del bambino». L'elemento che distingue la vicenda del ricorrente rispetto ad altre in cui la Corte ha ritenuto non sussistesse violazione dell'art. 8 CEDU in tema di contestazione della filiazione, è che in questo caso, a differenza degli altri, al ricorrente, incorso senza colpa nella decadenza, è stato negato un esame nel merito della sua posizione. In altre parole il diritto alla vita privata del ricorrente e quello alla certezza del diritto ed all'interesse (pur preminente) del minore non sono stati posti in bilanciamento in un completo esame di tutte le posizioni nelle circostanze concrete, ma è stato risolto dallo scattare di un meccanismo normativo che ha sacrificato a priori la posizione del ricorrente. Osservazioni
La pronuncia è interessante perché il nostro ordinamento presenta caratteristiche del tutto simili a quello bulgaro, rispetto ai limiti posti all'azione di disconoscimento di paternità. La materia è stata investita dalla riforma operata con il d.lgs. n. 154/2013, emesso in esecuzione della delega di cui alla legge n. 219/2012. L'art. 244 c.c., che disciplina i termini per l'azione, imprescrittibile solo per il figlio, prevede per la madre il termine di sei mesi e per il padre quello di un anno; termini che decorrono dalla nascita, ovvero dal giorno in cui ciascuno dei coniugi ha avuto conoscenza del presupposto per l'azione: per la moglie la sterilità del marito, per quest'ultimo la propria sterilità o l'adulterio della moglie. Per il marito è previsto il termine di un anno anche dalla conoscenza della nascita o dal rientro nella residenza familiare in caso di assenza al momento della nascita stessa. La riforma ha recepito gli interventi della Corte Costituzionale in materia di filiazione (Corte cost. n. 134/1985; Corte cost. n. 170/1999; Corte cost. n. 322/2011), che avevano dichiarato l'irragionevolezza di preclusioni all'esercizio dell'azione per i soggetti che fossero incorsi nella decadenza ignorando incolpevolmente l'esistenza di un presupposto o di un elemento costitutivo dell'azione stessa (la nascita, l'impotenza a generare del marito, l'adulterio della moglie). Il legislatore delegato, però, dopo aver correttamente recepito questi insegnamenti ha posto, al quarto comma dell'art. 244 c.c., un ulteriore termine di decadenza: l'azione non può comunque essere proposta oltre cinque anni dal giorno della nascita. Appare evidente che tale soluzione non è in linea col principio espresso dalla Corte Costituzionale, secondo il quale il termine di decadenza deve decorrere dal momento della conoscenza del fatto costitutivo o del presupposto dell'azione. Vi è anche da dire che questo termine “tombale” pare essere frutto di un eccesso di delega, il che rappresenterebbe un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale. Dopo la pronuncia in commento, ci si può anche chiedere come si pronuncerebbe la CEDU se un marito italiano dovesse lamentare di non poter disconoscere la propria paternità per averne scoperto la non veridicità cinque anni dopo la nascita del bambino: la situazione pare del tutto identica a quella esaminata nel caso Doktorov (Corte EDU 5 aprile 2018). Si può ipotizzare che le Corte valorizzi la più ampia durata del termine? In altre parole, i cinque anni indicati dall'ordinamento italiano potrebbero essere considerati un termine sufficientemente ampio, rispetto a quello bulgaro, per realizzare l' equo bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco? Probabilmente no. Il vulnus al diritto alla vita privata, di cui l'aspettativa a vedere disconosciuta la paternità è espressione, è stato individuato dalla Corte proprio nella rigidità della preclusione all'esame nel merito della posizione del genitore, in bilanciamento concreto con l'interesse della collettività e del minore. Che la mannaia si abbatta sul diritto dopo un anno o dopo cinque non modifica l'assetto che l'ordinamento ha dato al bilanciamento, negando l'esame della situazione concreta e sacrificando a priori una delle posizioni. Con questa scelta l'autorità realizza un'ingerenza sproporzionata nel diritto alla vita privata di chi è incorso senza colpa nella decadenza, non potendo sospettare che la condizione giuridica di padre non corrispondeva alla realtà biologica. Alla luce della sentenza in commento possiamo ritenere che se anche il termine di decadenza di cinque anni di cui all'art. 244 c.c. non dovesse essere portato davanti alla Corte Costituzionale, o se la Consulta lo salvasse, appare assai probabile che la CEDU condanni il nostro paese per violazione dell'art. 8 CEDU in un caso decadenza dall'azione che abbia le stesse caratteristiche del caso Doktorov. |