Il reato di offesa alla bandiera. Condizione di reciprocità e configurabilità del reato con riferimento alla bandiera Ue

Cristina Ingrao
13 Agosto 2018

Il tribunale monocratico di Agrigento, con la sentenza in commento, ha ritenuto non sussistente il reato di cui all'art. 299 c.p. nei confronti di un cittadino italiano che aveva esposto la bandiera dell'Unione europea, sulla ringhiera di un molo di Lampedusa, con disegnata al centro una svastica nazista. Nella specie, la pronuncia chiarisce, in modo completo ed organico, i presupposti in presenza dei quali si configura e opera il reato di Offesa alla bandiera o ad altro emblema di uno Stato estero.
Abstract

Il tribunale monocratico di Agrigento, con la sentenza in commento, ha ritenuto non sussistente il reato di cui all'art. 299 c.p. nei confronti di un cittadino italiano che aveva esposto la bandiera dell'Unione europea, sulla ringhiera di un molo di Lampedusa, con disegnata al centro una svastica nazista. Nella specie, la pronuncia chiarisce, in modo completo ed organico, i presupposti in presenza dei quali si configura e opera il reato di Offesa alla bandiera o ad altro emblema di uno Stato estero.

La vicenda in esame trae origine da un episodio che vede coinvolto un cittadino italiano S. G., il quale esponeva la bandiera dell'Unione europea, su una ringhiera del “molo Madonnina” di Lampedusa, con al centro disegnata una svastica nazista.

A seguito di ciò partiva un'indagine, che culminava con il rinvio a giudizio dell'imputato per il reato di cui all'art. 299 c.p., rubricato Offesa alla bandiera o ad altro emblema di uno Stato estero, che punisce, con ammenda, chiunque, nel territorio dello Stato, vilipende, con espressioni ingiuriose, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, la bandiera ufficiale o un altro emblema di uno Stato estero, usati in conformità del diritto interno dello Stato italiano.

I presupposti applicativi

La questione affrontata nella pronuncia in esame attiene ai presupposti applicativi del reato di cui all'art. 299 c.p., previsto, da un punto di vista sistematico, nell'ambito dei delitti contro gli Stati esteri, i loro capi e i loro rappresentanti, al Capo IV, Titolo I, Libro II del codice penale; ebbene: quando un soggetto può essere condannato per il reato di Offesa alla bandiera o ad altro emblema di uno Stato estero ex art. 299 c.p.?

Il tribunale di Agrigento, in composizione monocratica, nel risolvere la questione sottoposta alla sua attenzione, si determina nel senso del proscioglimento dell'imputato. Per motivare tale decisione, in primo luogo, richiama l'art. 129 c.p.p., in forza del quale, in ogni stato e grado del processo, il giudice, laddove riconosca che il fatto non sussiste, che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come tale ovvero che il reato è estinto o manca una condizione di procedibilità, lo dichiara d'ufficio con sentenza. Di conseguenza anche in fase dibattimentale il giudice è tenuto a pronunciare sentenza di proscioglimento, con la formula ritenuta più idonea, se ravvisa uno dei suddetti casi, essendo la norma funzionale a rendere effettivo il principio di semplificazione massima nello svolgimento del processo e a tutelare l'innocenza dell'imputato.

Successivamente in sentenza vengono enunciati quattro ordini di ragioni che giustificano l'assoluzione dell'imputato.

Innanzitutto, secondo il giudice di merito, manca la condizione di procedibilità richiesta dall'art. 313, ultimo comma, c.p., che specifica che il delitto previsto dall'art. 299 c.p., in esame, è punibile a richiesta del Ministro della Giustizia. Tale disposizione, subordina, dunque, la punibilità della fattispecie di cui all'art. 299 c.p. a tale condizione di procedibilità, escludendo che per la stessa si possa procedere d'ufficio.

Nel caso di specie, in particolare, non risulta essere stata formulata una tale richiesta da parte del Ministro della Giustizia, con la conseguenza che il tribunale non può che rilevare il difetto della condizione di procedibilità che osta alla prosecuzione del processo, posto che l'azione penale non doveva neppure essere esercitata.

In secondo luogo, il giudice di merito fa riferimento alla modifica della fattispecie oggetto di contestazione, ad opera della l.24 febbraio 2006, n. 85, che ha modificato il testo previgente indicando, quale modalità tipica del vilipendio, la locuzione con espressioni ingiuriose, e ha sostituito la non lieve pena detentiva originariamente prevista con la modesta pena pecuniaria che può variare da euro 100,00 a euro 1.000,00.

Sin dall'entrata in vigore della novella la dottrina ha espresso incertezze sulla esatta interpretazione di tale locuzione. A ben vedere, l'interpretazione più accredita è quella in forza della quale il Legislatore, con la stessa, abbia inteso limitare la rilevanza delle condotte punite alle sole comunicazioni linguistiche, alla luce anche della espressa e più grave punizione prevista dall'art. 292 c.p., rubricato Vilipendio o danneggiamento alla bandiera o ad altro emblema dello Stato, che disciplina e punisce il vilipendio materiale (c.d. reale diretto) alla bandiera dello Stato italiano.

Tale lettura, invero, secondo il tribunale monocratico interessato, appare condivisibile, in quanto conferisce razionalità alla disposizione, anche in una dimensione sistematica. In particolare, la mancata inserzione di una disposizione espressamente dedicata al vilipendio materiale, come, invece, è avvenuto nel citato art. 292 c.p. per mezzo della stessa novella, non può che deporre nel senso della irrilevanza penale di tale condotta, stante la doverosità, in materia penale, di una interpretazione più aderente e rispettosa possibile del testo normativo.

L'alternativa interpretativa, rappresentata dall'intendere la locuzione espressioni ingiuriose in senso ampio, comprensiva tanto delle manifestazioni lessicali, quanto di comportamenti dal significato vilipendioso, reca con sé non poche criticità, in quanto finirebbe, innanzitutto, con l'attribuire alla stessa espressione, inserita in due diverse disposizioni di un contesto normativo omogeneo (art. 292 e 299 c.p.), un significato una volta più ampio e l'altra volta più ristretto; in secondo luogo, poi, renderebbe completamente vana la precisazione sulle modalità di realizzazione del vilipendio introdotta dal legislatore proprio con la menzionata riforma del 2006.

Alla luce di ciò, per il tribunale, non resta che aderire alla prima interpretazione, quella restrittiva, che circoscrive la portata incriminatrice della disposizione alle sole condotte di vilipendio linguistico. Tale interpretazione restrittiva, oltretutto, è da preferire, non solo in una prospettiva ermeneutica testuale, sistematica e teleologica (ex art. 12 preleggi) ma anche perché appare maggiormente conforme al principio di legalità, riconosciuto a livello costituzionale (art. 25 Cost.), sovranazionale (art. 49 C.D.F.Ue) e convenzionale (art. 7 Cedu), dal quale discendono, quali corollari, i principi di tipicità, tassatività e determinatezza della norma penale incriminatrice, come declinati nel vigente sistema multilivello di tutela dei diritti, in forza dell'operatività delle Carte dei diritti fondamentali (Costituzione, C.D.F.Ue e Cedu) nelle interpretazioni fornitene delle rispettive Corti.

Di conseguenza, non risultando sussumibile la condotta cristallizzata nel capo di imputazione (avere esposto la bandiera dell'Unione europea su una ringhiera del “molo Madonnina” di Lampedusa con disegnata al centro una svastica nazista) nelle modalità di realizzazione del reato di cui all'art. 299 c.p., potendo al più ritenersi un vilipendio materiale ma non anche un vilipendio linguistico (cioè realizzato con espressioni ingiuriose), l'imputato deve essere assolto perché il fatto non sussiste.

A ciò si aggiunga, secondo il tribunale, che, in ogni caso, l'art. 299 c.p. circoscrive l'incriminazione al vilipendio della bandiera ufficiale o un altro emblema di uno Stato estero, con lo scopo di tutelare l'interesse nazionale dello Stato italiano a non vedere compromesse le sue buone relazioni internazionali in conseguenza della realizzazione sul proprio territorio di offese dirette contro lo Stato estero.

Ebbene, nel caso di specie, la condotta dell'imputato ha ad oggetto non già la bandiera di uno Stato estero, bensì quella dell'Unione europea, organizzazione sovranazionale al cui emblema, in ossequio ai già citati principi di tipicità, tassatività e determinatezza, non può estendersi la tutela prestata dall'art. 299 c.p., a pena di violazione del divieto di analogia in malam partem, vigente in materia penale. Diversamente opinando, infatti, non ricorrerebbe un caso di legittima interpretazione estensiva dell'incriminazione, consentita in quanto non trascendente il significato linguistico della formula legislativa e limitantesi ad attribuire alla disposizione il più ampio significato tra quelli possibili; bensì, si sussumerebbe nell'incriminazione un caso simile, esorbitante dai confini della fattispecie, in virtù della somiglianza e della riconducibilità ad una stessa ratio legis, procedimento che, in ambito penale, non è ammissibile, in virtù, oltre che delle coordinate costituzionali e convenzionali già citate, anche del principio di frammentarietà del diritto penale. Ne discende, ancora una volta, la necessità, secondo l'organo giudicante, di emettere nei confronti dell'imputato pronuncia assolutoria perché il fatto non sussiste.

A tale profilo, in ultimo luogo, si collega la constatazione avente a oggetto la condizione di reciprocità cui l'art. 300 c.p. subordina l'applicazione, tra gli altri, dell'art. 299 c.p.

Infatti, a norma del primo comma della citata disposizione, la fattispecie incriminatrice contestata all'odierno imputato si applica solo in quanto la legge straniera garantisca, reciprocamente, alla bandiera italiana «parità di tutela penale». Com'è noto, tuttavia, l'ordinamento dell'Unione europea non possiede una propria autonoma normativa penale che possa permettere di soddisfare la richiamata condizione di reciprocità, intervenendo al più, nell'ambito delle competenze individuate dal trattato sul funzionamento dell'Unione europea, con specifico riguardo alla cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale (artt. 82-86), nel ravvicinamento delle legislazioni nazionali e nell'introduzione di norme minime da parte dei propri Stati membri.

Da ciò deriva, una volta di più, secondo il tribunale, la doverosità della pronuncia assolutoria dell'imputato perché il fatto non sussiste.

In conclusione

Alla luce di quanto esposto, emerge che il tribunale di Agrigento, una volta richiamate le condizioni di procedibilità del reato in questione e chiarita la portata applicativa della locuzione “espressioni ingiuriose”, contenuta all'art. 299 c.p. contestato all'imputato, centrale al fine di definire l'ambito di applicazione del delitto citato, correttamente aderisce all'interpretazione più restrittiva della suddetta locuzione, che la ritiene circoscritta alle sole comunicazioni linguistiche, e decide nel senso dell'assoluzione dell'imputato perché il fatto non sussiste, non ravvisando, nel caso di specie, i presupposti operativi del reato contestato.

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