La valutazione del danno cagionato alla P.A. in caso di assenza ingiustificata dal luogo di lavoro

Maria Hilda Schettino
17 Agosto 2018

A fronte dell'atavica inefficienza delle pubbliche amministrazioni, nei pubblici uffici sono stati progressivamente introdotti congegni sempre più avanzati per attestare la presenza dei dipendenti sul luogo di lavoro.
Abstract

Accade ormai di frequente, nel leggere la cronaca quotidiana, di imbattersi in titoli roboanti che rimandano a operazioni di polizia giudiziaria contro quelli che nel gergo sono ormai identificati come “i furbetti del cartellino”.

Il fenomeno dell'assenteismo è stato per lungo tempo percepito come una forma di malcostume del dipendente pubblico che, apparentemente in servizio, di fatto se ne allontanava per le ragioni più varie. A fronte, però, dell'atavica inefficienza delle pubbliche amministrazioni, la cui causa è stata anche individuata nel fenomeno precedentemente descritto, nei pubblici uffici sono stati progressivamente introdotti congegni sempre più avanzati per attestare la presenza dei dipendenti sul luogo di lavoro.

Quello che originariamente era un cartellino da timbrare è diventato oggi un badge magnetico che registra i passaggi in entrata e uscita dei dipendenti pubblici e, in un futuro non troppo lontano, potrà essere sostituito persino da rilevazioni biometriche.

Nonostante il progresso scientifico abbia dunque consentito l'introduzione di sistemi certamente più immediati ed efficienti di rilevazione delle presenze in ufficio, si è compreso ben presto come non fosse difficile porre in essere meccanismi elusivi.

In effetti, analizzando la cronaca giudiziaria cui in precedenza si è fatto riferimento, le condotte contestate ai soggetti indagati sono sempre sostanzialmente le stesse. Se lo schema tipico è quello del soggetto che entra regolarmente in servizio passando il tesserino e poi si allontana per una parte del turno di lavoro, la variante altrettanto diffusa è quella di chi si fa marcare la presenza in entrata in uscita da un collega arrivando al contrario sul posto di lavoro in ritardo o abbandonandolo prima della fine del tempo.

Ricostruite le condotte tipiche nei termini che precedono occorre chiedersi entro quali limiti le stesse presentino profili di danno per le pubbliche amministrazioni tali da farle assumere rilevanza penale. È appena il caso di avvertire che non si tratta di una questione meramente teorica. Se infatti l'ipotesi di reato contestata è essenzialmente quella della truffa, escludere per la parte pubblica la presenza di un danno, che della truffa costituisce evento, equivale nei fatti ad escludere il reato stesso per mancanza di un elemento costitutivo.

Il fenomeno dell'assenteismo dei dipendenti pubblici

Molto di frequente ci si imbatte in notizie di stampa che riferiscono di indagini imponenti, spesso anche con esiti cautelari rilevanti, che hanno consentito di porre in luce episodi ripetuti di assenteismo dal luogo di lavoro.

Analizzando nel dettaglio la casistica giurisprudenziale, il dato che più balza agli occhi è quanto tale fenomeno sia diffuso. Non solo, infatti, le indagini e i successivi processi vanno da Milano a Palermo, abbracciando idealmente l'intera penisola, ma occorre anche osservare che nessun ufficio pubblico è stato risparmiato. Interi uffici comunali, provinciali o regionali, scuole o addirittura ospedali sono stati almeno una volta interessati da vicende di questo genere.

È evidente che l'arresto in massa di dipendenti pubblici soddisfi la sete di giustizia dei cittadini e dunque abbia un risalto mediatico molto maggiore delle successive vicende. D'altronde un arresto, si sa, fa più notizia di una assoluzione e dunque molto spesso, se non si è operatori del diritto, neppure ci si pone il problema di sapere quale sia l'esito dei processi poi celebratisi.

Non è così raro che vicende iniziate con decine di soggetti coinvolti, magari anche sottoposti a misura cautelare, si concludano con l'assoluzione di molti e la condanna di pochi. Qualsiasi ulteriore riflessione sul tema esulerebbe dalle finalità del presente contributo. Tuttavia, a nostro avviso, non può negarsi come un ripensamento su questo tema e più in generale sul rapporto tra media e procedimenti penali appaia oltremodo indifferibile perché troppo spesso, per l'appunto, si viene colpiti irrimediabilmente dalla più grave ed efficace delle sanzioni, quella mediatica, irrogata però senza processo, senza garanzie e senza poi ricevere, in caso di esito positivo, il dovuto risarcimento.

Tanto premesso, mette conto di osservare che le modalità attraverso cui si realizza l'assenteismo sono sostanzialmente ricorrenti. Invero nel corso degli anni, proprio per fronteggiare tale fenomeno, gli uffici pubblici si sono dotati di sistemi di rilevazione delle presenze sempre più evoluti.

Si è così passati dal cartellino cartaceo da “timbrare” in entrata e in uscita, al badge magnetico da strisciare su un apposito lettore il quale, pertanto, costituisce oggi una dotazione irrinunciabile del dipendente pubblico.

È forse superfluo ribadire che nel corso di un turno di lavoro il dipendente non si dovrebbe assentare dall'ufficio ma, ove ciò accada, tale “pausa” dovrebbe essere registrata attraverso ulteriori passaggi del badge predetto.

In altri termini, se il dipendente deve garantire un certo numero di ore lavorative, il tempo in cui lo stesso si allontani dall'ufficio dovrebbe essere certificato e recuperato onde far sì che la retribuzione corrisposta resti parametrata ad un'attività lavorativa effettivamente prestata.

Da quanto detto è però agevole comprendere anche come il sistema sia facilmente eludibile e, come dunque testimoniato dai numerosi procedimenti insorti, alla prova pratica qualsiasi strumento si sia rivelato inidoneo a prevenire il fenomeno.

Se dunque, nonostante gli interventi e le nuove tecnologie, il fenomeno resta ancora tanto diffuso, certamente cambiato è l'approccio allo stesso. Oggi non è solo l'opinione pubblica a porsi in termini più duri nei confronti del dipendente assenteista ma anche l'approccio normativo – si pensi alla c.d. riforma Brunetta di cui al decreto legislativo 150/2009 e alla successiva riforma Madia di cui al decreto legislativo 75/2017 – e giurisprudenziale è cambiato in senso maggiormente repressivo.

Le condotte contestate e la sussumibilità in fattispecie penalmente rilevanti

Per quanto, come ricordato, si tratti di un fenomeno uniformemente diffuso e che di fatto non ha risparmiato alcuna delle amministrazioni pubbliche, la lettura e l'analisi dei capi di imputazione pone l'interprete di fronte a condotte sostanzialmente ricorrenti.

La prima ipotesi, certamente più frequente, è quella in cui il dipendente pubblico giunge sul luogo di lavoro in tempo e regolarmente passa il proprio badge facendo risultare la propria presenza. Immediatamente dopo, o comunque nel corso del medesimo turno lavorativo, il soggetto si allontana dal luogo di lavoro, questa volta senza attestare l'uscita.

Così, mediante tale comportamento egli risulta formalmente al lavoro in quanto non viene in alcun modo certificata né la sua assenza né la sua durata. E naturalmente, allo stesso modo, non viene registrato il successivo ritorno al lavoro.

Il risultato finale della condotta è dunque che a una parte del turno di lavoro completamente retribuito non corrisponda la prestazione lavorativa del dipendente.

Accanto a questa ipotesi è altresì frequente quella in cui il soggetto consegni il proprio dispositivo di rilevazione a un collega che si occupi di passare il badge facendo risultare l'arrivo sul posto di lavoro prima di quanto ciò in realtà accada, ovvero di far risultare la permanenza sul luogo di lavoro oltre l'orario effettivo.

Anche in questo caso il risultato è analogo al quello precedente: il lavoratore risulta formalmente al lavoro prima del suo effettivo arrivo ovvero risulta ancora al lavoro pur essendosi allontanato, percependo lo stipendio per ore di lavoro non effettuate.

Le condotte così descritte sono prima facie riconducibili sia al reato di false attestazioni o certificazioni ex art. 55-quinquiesdeld.lgs. 165/2001– consistente nella condotta del dipendente pubblico che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente – sia allo schema della truffa aggravata ai danno dello Stato o di altro ente pubblico previsto dall'art. 640, comma 2, n. 1, c.p. che, strutturata come fattispecie a forma vincolata, consiste in artifici o i raggiri tali da cagionare una effettiva induzione in errore del soggetto passivo, così determinandolo a un atto di disposizione patrimoniale che rappresenti tanto un profitto per il soggetto attivo o per terzi quanto un danno per il soggetto passivo o per un terzo.

Infatti, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, è configurabile il concorso materiale tra il reato di truffa aggravata e quello di false attestazioni o certificazioni previsto dall'art. 55-quinquies, d.lgs. 165/2001, in caso di indebito utilizzo dei badge attestanti la presenza in ufficio da parte di dipendenti comunali (Cass. pen., Sez. III, n. 47043/2015), nonché di alterazione dei cartellini marcatempo (Cass. pen., Sez. III, n. 45698/2015), quando la condotta determina un danno patrimoniale per l'amministrazione, in conformità alla clausola di riserva di cui al comma 1 del predetto art. 55-quinquies, che mantiene fermo quanto previsto dal codice penale (Cass.pen., Sez. III, n. 45696/2015).

Così, se per la giurisprudenza e la dottrina dominanti l'artificio è la simulazione di circostanze inesistenti o la dissimulazione di circostanze esistenti che determina un camuffamento della realtà esterna e il raggiro è quell'avvolgimento di parole o quella rappresentazione della realtà capace di orientare le rappresentazioni e decisioni altrui, non vi sono difficoltà a ricomprendervi le condotte testé descritte.

L'evento della truffa, come accennato, è dunque quadruplice, richiedendosi sempre che dagli artifici consegua l'induzione in errore del soggetto per effetto della quale questo si determini a un atto di disposizione patrimoniale che costituisca profitto per il soggetto attivo e danno per il soggetto passivo.

In astratto, pochi dubbi sembrano sussistere in ordine al fatto che in tal guisa sussista l'induzione in errore e la disposizione patrimoniale. Invero, facendo risultare una presenza fittizia in ufficio, il soggetto, rappresentando al datore di lavoro una realtà diversa da quella effettiva, induce quest'ultimo in errore determinandolo a un atto di disposizione per ore di lavoro non prestato che rappresentano profitto per il soggetto attivo e danno per l'ente.

In concreto, però, proprio il profilo del danno appare problematico in quanto occorre innanzitutto comprendere quali siano le voci di danno realmente rilevanti e oltre quale limite lo stesso sia idoneo a configurare un elemento della truffa.

Gli approdi giurisprudenziali in tema di danno economicamente apprezzabile

Il danno nella truffa aggravata. La dottrina è sostanzialmente concorde nel ritenere che nel delitto di truffa il danno cui fa esplicito riferimento l'art. 640 c.p. debba essere di natura patrimoniale costituendo un elemento che conferisce alla fattispecie in esame una opportuna dimensione oggettiva.

Si è peraltro correttamente osservato come, nel caso in cui il dato patrimoniale perda rilievo escludendosi la necessarietà di una deminutio patrimonii, si finisca con il dematerializzare l'offesa, confondendola con il mezzo. La comunanza di vedute è però limitata alla patrimonialità del danno atteso che molto discussa appare la nozione di patrimonio.

Sul punto, pur tra tante sfaccettature, si segnala una concezione giuridica secondo cui il patrimonio abbraccia l'interezza dei diritti e degli obblighi facenti capo a ciascuno, e una concezione economica che, invece, intende il patrimonio come insieme dei "beni economici" di un soggetto e dunque per tale via ravvisa il danno patrimoniale solo in presenza di una effettiva diminuzione del patrimonio.

Anche a seguito di un intervento delle Sezioni unite la concezione economica del danno patrimoniale sembra essere quella dominante nella giurisprudenza di legittimità. A tale proposito le Sezioni Unite hanno infatti affermato che l'elemento del danno deve avere «necessariamente contenuto patrimoniale ed economico, consistendo in una lesione concreta e non soltanto potenziale che abbia l'effetto di produrre - mediante la cooperazione artificiosa della vittima che, indotta in errore dall'inganno ordito dall'autore del reato, compie l'atto di disposizione - la perdita definitiva del bene da parte della stessa» (Cass. pen., Sez. unite, n. 1/1998 e poi, in senso conforme a tale orientamento: Cass. pen., Sez. II, n. 18762/2013; Cass. pen., Sez. II, 17 giugno 2011; Cass. Pen., Sez. II, 17 giugno 2003).

Recentemente la Cassazione ha ribadito un indirizzo da tempo consolidato in tema di apprezzabilità del danno quale evento punibile del delitto di truffa aggravata posto in essere in seguito ad assenza ingiustificata dal posto di lavoro. In particolare, in linea con un precedente orientamento (Cass. pen., Sez. II, n. 5837/2013; Cass. pen., Sez II, n. 52007/2016), si è avuto occasione di affermare che la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o sui fogli di presenza costituisce una condotta fraudolenta idonea oggettivamente ad indurre in errore l'amministrazione di appartenenza circa la presenza sul luogo di lavoro ed è quindi suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata, ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante la timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili (Cass. pen., Sez. II, sent. n. 14975/2018).

Tuttavia, se in una precedente pronuncia la V sezione della Cassazione affermava il principio per cui anche una indebita percezione di poche centinaia di euro, corrispondente alla porzione di retribuzione percepita in mancanza della relativa prestazione lavorativa, costituisse un danno economicamente apprezzabile per la pubblica amministrazione (perché apprezzabile non era sinonimo di rilevante, cfr.: Cass. pen., Sez. V, n. 8426/2013), la II sezione sembra mutare il suo approccio in punto di apprezzabilità del danno. Infatti la Suprema Corte evidenzia come la valutazione del giudice di merito debba essere più ampia ed investire anche le somme eventualmente già recuperate dall'ente o a seguito di risarcimento del danno o a seguito di decurtazioni effettuate sullo stipendio del suo dipendente a titolo di prestazioni non effettuate, per poter valutare la sussistenza di un danno realmente economicamente apprezzabile.

Cenni sul danno nella falsa attestazione. Accanto al danno patrimoniale per lo stipendio indebitamente percepito, l'ingiustificata assenza dal luogo di lavoro fa sorgere in capo al dipendente pubblico anche una responsabilità per il danno all'immaginearrecato alla pubblica amministrazione di appartenenza – correlato alla mancata presenza dello stesso nel presidio lavorativo, rimasto così deserto (Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 34210/2006) – e un danno per il disservizio procurato alla collettività che, in base al disposto dell'art. 55-quinquies, comma 2, d.lgs. 165/2001, il dipendente pubblico è tenuto a risarcire.

Il danno all'immagine della P.A. consiste nella perdita di prestigio e nel grave detrimento dell'immagine e della personalità dell'apparato pubblico che, pur se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di una valutazione economica sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso.

È un danno soggetto al giudizio della Corte dei Conti ai sensi dell'art. 1, comma 1-sexies, l. 20/1994, che lo quantifica, nel caso di reato contro la P.A. accertato con sentenza passata in giudicato, in una somma pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente, salvo prova contraria. Tale tipologia di danno comprende anche le ipotesi di lesione del diritto dell'ente alla propria identità ed onorabilità.

La prova del pregiudizio subito avviene tramite la dimostrazione del cd. strepitus fori, vale a dire l'eco giornalistica lesiva del rapporto di fiducia cittadino/amministrazione. Tale clamor fori deve essere idoneo a dimostrare, nel concreto e al di là di qualsiasi valutazione di carattere emotivo o paragiuridico, l'effettivo discredito dell'amministrazione pubblica, in quanto non è possibile considerare lesivo dell'immagine dell'amministrazione ogni comportamento del dipendente o dell'amministratore fonte di danno erariale con dolo o colpa grave.

Viceversa, il danno da disservizio si caratterizza per l'inosservanza dei doveri del pubblico dipendente, come la mancata resa della prestazione dovuta per assenza ingiustificata, tale da comportare una alterazione della normale efficienza ed efficacia del servizio pubblico.

Si tratta quindi di un pregiudizio effettivo, concreto e attuale che coincide con il maggior costo del servizio, nella misura in cui questo si riveli inutile per l'utenza.

Tuttavia, ai fini della sua configurazione, non è sufficiente la mera sottrazione di energie lavorative dal servizio, ma è necessario provare in concreto quali disagi, disservizi, ritardi o malfunzionamenti siano dipesi dall'assenza del dipendente pubblico.

In conclusione

Alla luce di quanto sin qui osservato, è possibile svolgere delle considerazioni di sintesi. Allorquando un dipendente pubblico si allontani dal posto di lavoro ponendo in essere accorgimenti per far sì che della propria assenza non resti traccia, la condotta, di sicuro rilievo disciplinare, presenta innegabilmente dei profili di attinenza con il diritto penale.

Una volta posta questa premessa, non può però negarsi che non tutte le assenze hanno eguale valore o meglio arrechino lo stesso danno alla pubblica amministrazione. In quest'ottica, dunque, non si può omettere di calare l'approdo giurisprudenziale più volte richiamato secondo cui anche una indebita percezione di poche centinaia di euro, corrispondente alla porzione di retribuzione percepita in mancanza della relativa prestazione lavorativa, costituisce un danno economicamente apprezzabile per la pubblica amministrazione (Cass. pen., Sez. V, sent. n. 8426/2013), all'interno dei principi generali del diritto penale. Al netto cioè della questione semantica se il termine apprezzabile abbia o meno una valenza anche quantitativa come sembra negare la Suprema Corte, non appare sostenibile alla luce del canone di offensività la conclusione che ogni danno sia idoneo a ritenere integrate le fattispecie analizzate.

In termini generali, è ormai assodato come tale principio, sintetizzato nel brocardo nullum crimen (nulla poena) sine iniuria, costituisca uno dei principi immanenti del sistema penale italiano. In particolare, perché possa attribuirsi rilevanza penale ad una condotta, è necessario che effettivamente sia leso o posto in pericolo il bene giuridico protetto (Cass. pen., Sez. IV n. 8142/2006).

Il principio di offensività, secondo la migliore dottrina, presuppone ed integra il principio di materialità del reato. Mentre quest'ultimo previene dalle incriminazioni di meri atteggiamenti interiori, il principio di necessaria offensività garantisce dalla incriminazione i fatti materiali non offensivi.

È evidente, dunque, come tale principio operi in una duplice direzione: verso il legislatore e verso l'interprete. De iure condendo è imposto al Legislatore l'individuazione di adeguate tecniche di attuazione dello stesso nella costruzione delle fattispecie; de iure condito incombe sul giudice il dovere di interpretare in chiave di offesa le fattispecie vigenti, così da renderle applicabili solo ai fatti concretamente offensivi in maniera apprezzabile del bene protetto.

Mutatis mutandis, in materia di truffa (e di false attestazioni e certificazioni), atteso che le norme non presentano deficit strutturali sul piano dell'offensività, è necessario selezionare in sede applicativa i comportamenti rilevanti sul piano dell'offesa anche in ragione dell'entità del danno.

Compete cioè all'interprete dar conto dell'effettiva offesa al patrimonio e al buon funzionamento della pubblica amministrazione tutelati dalla norme incriminatrici più volte richiamate.

Da questo punto di vista, è da salutare con favore il recente approdo dei Supremi Giudici che allargano la base di valutazione del giudice di merito, imponendo di considerare anche le somme eventualmente già recuperate dall'ente a qualsiasi titolo (Cass. pen., Sez. II, n. 14975/2018). Approdo che può essere agevolmente esteso all'ipotesi in cui, pur a fronte dell'assenza, il soggetto recuperi il tempo di lavoro garantendo un orario pari a quello retribuito.

Desta invece qualche perplessità la tendenza tuttora dominante di ritenere penalmente rilevante anche il danno di valore risibile per la pubblica amministrazione.

Guida all'approfondimento

S. IACOBUCCI, “I furbetti del cartellino” sotto osservazione – Il commento, Lavoro nella Giur., 2016, 10, 904; P. Portuese, Illegalità e danno erariale da disservizio pubblico, Azienditalia, 2016, 12, 1106;

R. CARRELLI PALOMBI DI MONTRONE, Codice Penale Commentato, Milano;

F. MANTOVANI, Diritto Penale – Parte generale, Padova, 179 ss.

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