Il protocollo per l'esame preliminare delle impugnazioni. La strada maestra delle intese tra avvocatura e magistratura
31 Agosto 2018
1. Il protocollo d'intesa stipulato il 19 luglio 2018 tra il Consiglio nazionale forense (C.N.F.) e il Consiglio superiore della magistratura (C.S.M.) è l'ultima (in ordine cronologico) iniziativa che affronta i temi dell'esame preliminare degli atti di impugnazione, nonché dei contenuti e delle tecniche di redazione delle sentenze e degli atti di parte, come strumenti indispensabili per una razionale organizzazione del lavoro giudiziario. Segue ad analoghe iniziative di matrice pubblica (decreti dell'aprile - settembre 2016 del Presidente della Corte di cassazione sulla motivazione semplificata delle sentenze; decreto del 22 dicembre 2016 del Presidente del Consiglio di Stato di disciplina dei criteri di redazione e dei limiti dimensionali dei ricorsi e degli altri atti difensivi nel processo amministrativo; delibera 5 luglio 2017 del C.S.M. recante linee guida in materia di esame preliminare delle impugnazioni e modalità stilistiche di redazione dei provvedimenti; relazioni in data 1° dicembre 2016 e 16 febbraio 2018 del Gruppo di lavoro sulla chiarezza e sinteticità degli atti processuali istituito dal Ministro della giustizia; seminari e incontri organizzati dalla Scuola Superiore della Magistratura – S.S.M.) e privata (particolarmente importanti i convegni organizzati, a far tempo dal 9 marzo 2013, sulla “inutile” complessità della lingua giudiziaria, nonché sulla sentenza penale e le patologie della motivazione dal laboratorio – Lapec – fondato da Ettore Randazzo).
Limitando queste parole di commento al solo versante penalistico del protocollo, non si può che condividerne lettera e spirito. Solo un paio di brevi notazioni a margine. La prima: in esso non vi è cenno all'attività del pubblico ministero, in particolare alle tecniche di redazione delle imputazioni. Solo nella parte dedicata alla struttura e al contenuto della sentenza si parla di «utilizzo di singola imputazione per ogni fatto-reato» ma è evidente che il problema non è certo del giudice che redige la sentenza (sul tema e sulle sue implicazioni può vedersi BRICCHETTI, Sentenza e atto di impugnazione (contenuto e motivi), in DPC 2018, n. 6, p. 195 s.). La seconda: mutuando analoga considerazione contenuta nella citata delibera del C.S.M. del 5 luglio 2017, nel protocollo si ribadisce che il sistema giudiziario accumula i maggiori ritardi nel giudizio di appello. Tale drastico e generalizzato giudizio non può essere condiviso. Se si pensa, ad esempio, ai reati che si prescrivono, dalle statistiche nazionali dell'ultimo triennio (2015 - 2017) è agevole ricavare che, nei distretti in cui le Corti d'appello non presentano patologiche pendenze, almeno il 70% delle estinzioni dei reati per prescrizione è dichiarata con decreto di archiviazione. Il tempo necessario a prescrivere matura, dunque, già nella fase delle indagini preliminari, mentre il restante 30% circa è, più o meno, equamente ripartito tra primo grado e secondo grado. In appello, tuttavia, a differenza che in primo grado, i processi per reati prescritti in cui vi sia costituzione di parte civile vanno comunque fissati e celebrati per la decisione in ordine alle statuizioni civili. Ad esempio, nel distretto di Milano, dove le pendenze della Corte erano 10571 al 31 dicembre 2015, 8734 al 31 dicembre 2016 e 8.273 al 31 dicembre 2017, il dato delle prescrizioni era nel 2015 di 7.397 (dichiarate dal Gip), 811 (dichiarate dal tribunale) e 1.055 (dichiarate dalla Corte d'appello); nel 2016 la ripartizione è stata di 9.067 - 870 - 736 e nel 2017 di 7.805 - 767 - 809. Nel distretto di Roma, invece, in cui le pendenze della Corte erano 38.574 al 31 dicembre 2015, 50.266 al 31 dicembre 2016 e 56.037 al 31 dicembre 2017, il dato delle prescrizioni ha una diversa entità ed anche una diversa distribuzione, fermo restando l'alto numero delle prescrizioni maturate nella fase delle indagini preliminari: 4.588 (Gip) - 3.789 (tribunale) - 2.744 (Corte d'appello) nel 2015; 6.058 - 3.949 - 4.019 nel 2016; 8.500 - 3.550 - 4.228 nel 2017. Si tratta di dati, tra l'altro, che sembrano dimostrare la scarsa utilità dell'intervento, da più parti auspicato, di congelare il termine di prescrizione dopo la pronuncia della sentenza di primo grado.
2. Un problema di funzionalità del giudizio di appello, comunque, esiste: accanto a Corti che presentano dati soddisfacenti, ve ne sono che presentano dati meno rassicuranti nel senso che, nell'arco di un quinquennio, con l'adozione delle misure organizzative che il protocollo enuncia, la situazione potrebbe diventare soddisfacente, ma vi sono anche Corti i cui dati parlano di dissesto irreversibile a meno di interventi straordinari. La divulgazione e l'osservanza diffusa (v. artt. 1 - 4) delle prassi e dei suggerimenti di cui il protocollo si fa carico (soprattutto – come si diceva – in punto di esame preliminare degli atti di appello, di tecniche di redazione delle sentenze di primo grado e d'appello e degli atti di parte, di formazione delle nuove leve) potranno comunque contribuire al miglioramento della situazione. Si deve, però, avere la consapevolezza che esiste da tempo una grave carenza di risorse, personali e reali. L'adozione di nuovi modelli organizzativi potrà, dunque, soltanto evitare ulteriori peggioramenti della situazione ma non determinare la definitiva e stabile soluzione dei problemi.
3. È l'art. 6 del protocollo ad enunciare i modelli organizzativi penali. L'esame preliminare dei processi che sopravvengono, in particolare l'esame degli atti di appello e della sentenza di primo grado (cui si aggiungono, nel giudizio di rinvio, la sentenza d'appello, il ricorso per cassazione e la sentenza di annullamento della Corte di cassazione) è fondamentale. È un lavoro pesante, non sempre facile, comunque complesso, che va bene organizzato, sezione per sezione (là dove ve ne sia più d'una). Alla Corte di Milano, ad es., le sopravvenienze annuali per sezione sono costituite da circa 1.600 processi. Arrivano, dunque, 140 processi al mese e vanno esaminati senza frapporre indugi perché il c.d. spoglio è l'architrave della struttura. I metodi di distribuzione del lavoro possono, naturalmente, variare a seconda delle risorse personali e del tempo a disposizione. i) L'esame preliminare serve, anzitutto, per attribuire un “peso” al nuovo arrivato. E l'individuazione del peso è fondamentale per una serie di operazioni organizzative: in particolare, per la distribuzione e perequazione dei carichi nelle udienze; per individuare i processi la cui trattazione richiederà più udienze; per progettare una calendarizzazione virtuale a lungo termine che consenta di monitorare i tempi di fissazione dell'udienza di trattazione dell'appello; per individuare i processi da trattare in udienza pubblica e quelli da trattare in udienza camerale; per la creazione di udienze a tema. A tale ultimo proposito si pensi, ad esempio, che con un'udienza settimanale (quindi 4 mensili, 40 annuali, calcolate su soli 10 mesi, esclusi cioè il mese feriale, il periodo a cavallo tra il 20 dicembre e il 7 gennaio e gli ultimi 10 giorni di luglio) in cui siano trattati 25 - 30 processi di peso minimo (processi in cui si trattano solo questioni sanzionatorie o questioni seriali), è possibile smaltire 1.000 - 1.200 processi (il dato delle sopravvenienze annuali è – come si è detto – pari a circa 1.600) e così consentire nelle altre udienze (circa 120) la trattazione delle restanti sopravvenienze e di parte delle pendenze finali (se ve ne sono) del precedente anno (in modo da assicurare costantemente un indice di ricambio superiore a 100, fondamentale per abbattere gradualmente l'arretrato eventualmente esistente). ii) L'esame preliminare serve, poi, per individuare gli appelli inammissibili perché intempestivi o generici (e definirli con ordinanza predibattimentale). iii) Ancora: serve per rilevare, reato per reato, il termine di prescrizione, altra operazione fondamentale per la calendarizzazione ma anche per individuare i reati ormai prescritti (e, se del caso, definirli con sentenza predibattimentale; si veda sul punto Cass. pen., Sez. unite, 27 aprile 2017, n. 28954) o di imminente prescrizione. Qui – se ne accennava prima – affiora un problema tipico del grado di appello: sono molti i processi che sopravvengono con reati prescritti ma che, per la presenza della parte civile, devono essere trattati per le sole statuizioni civili. Questo è un tema che il protocollo non affronta ma che forse avrebbe meritato qualche riflessione. È abbastanza frequente, infatti, che per la parte civile, per le più disparate ragioni, sia venuto meno l'interesse a coltivare la pretesa. Lo si scopre, però, soltanto a udienza fissata. L'antieconomicità di un siffatto modo di procedere è di palmare evidenza. Ecco perché il tema avrebbe meritato una valutazione congiunta, alla ricerca di soluzioni in linea con lo spirito dell'accordo. Una qualche analogia si intravede con il tema, anch'esso non oggetto del protocollo, della migliore fruibilità del reintrodotto istituto del concordato con rinuncia ai motivi d'appello, oggi non assicurata dalla previsione che consente l'accordo anche nell'udienza (art. 602, comma 1-bis, c.p.p.) mentre, per ragioni agevolmente intuibili, sarebbe opportuno trovare linee operative condivise che potenzino l'utilizzo dell'istituto nella fase che precede l'emissione del decreto di citazione. iv) L'esame preliminare è di basilare importanza, poi, nei processi con imputati sottoposti a misura cautelare personale. Hanno priorità assoluta (se detenuti, anche per reato diverso da quello per cui si procede) e l'esame serve ad individuare in particolare la scadenza del termine di fase. Quella delle priorità “assolute” è materia da maneggiare con acume. Ne tratta l'art. 132-bis disp. att. c.p.p. che ha ormai raggiunto, in virtù di continui, spesso “emozionali”, interventi legislativi (che ci hanno gratificato anche di una “doppia” lettera f-bis) che, dopo circa un anno, non si è ancora riusciti a correggere e che, tra l'altro, contiene un riferimento all'art. 12-sexiesdel d.l. 8 giugno 1992, n. 306, abrogato e al contempo in gran parte (commi 1 e 2-ter) confluito nel nuovo art. 240-bis c.p. a seguito dell'art. 6, comma 1, del d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21, Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penalea norma dell'articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103), dimensioni tali da far pensare che tutto abbia priorità “assoluta” nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi. Tanto più che diventa inevitabile, quando si continuano a individuare e inserire priorità, rimarcare l'assurdità di certe mancate inclusioni (penso, ad es., ai reati, in particolare alle truffe ed alle appropriazioni indebite seriali, compiute dalle stesse persone che, nel nostro Paese, varcano, di regola, le porte delle case di reclusione soltanto quando il cumulo delle pene raccolte nel tempo lo renderà inevitabile) oltre che l'incomprensibilità di certe inclusioni (come l'indifferenziata inclusione dei delitti di cui al testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e dei delitti puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni). v) Si legge nel protocollo che l'esame preliminare può servire per individuare nuove questioni giuridiche da discutere coinvolgendo tutti i giudici della sezione o dell'intera Corte. In teoria potrebbe essere; in pratica non accade (o non sempre accade) perché è diversa la genesi della necessità di una valutazione condivisa di questioni giuridiche che interessano l'intera Corte o la sezione.
4. Quanto alla struttura delle sentenze, il testo dell'accordo si sforza di trovare parole chiare che non urtino la suscettibilità dei destinatari delle indicazioni e dei suggerimenti. E il risultato è soddisfacente, anche con riguardo ai modelli proposti. In uno schema polifunzionale di sentenza non possono mancare concisione, comprensibilità, criteri uniformi di redazione ed impostazione, considerazione delle esigenze imposte dalla successiva (eventuale) fase del procedimento o grado del giudizio. i) Concisione, in un'accezione funzionale, non è solo sinteticità o essenzialità, in particolare messa al bando di inutili divagazioni, di sfoggi di erudizione, di argomentazioni estranee ai fini dell'esposizione delle ragioni della decisione, giudizi morali, riferimenti a terzi non posti in grado di contraddire, selezione dei soli dati probatori rilevanti e decisivi uniti ed equilibrio nella trattazione-distribuzione dei punti della decisione. Concisione è anche completezza nel valutare ed argomentare su capi, punti e questioni, fedeltà nell'esporre le informazioni raccolte, logicità del ragionamento, per il raggiungimento di una decisione di “qualità”, valore che non può ignorare, in una visione moderna e funzionale, la sua stabilità. Dunque, una sintesi completa, fedele, logica. Con riferimento al trattamento sanzionatorio, l'esperienza insegna che spesso (errore uguale ma contrario) una malintesa concisione rasenta il nulla. Una motivazione concisa e individualizzata, invece, serve quando si riconosce o si nega la sussistenza delle circostanze attenuanti generiche o di altre circostanze, quando si effettua il giudizio di comparazione tra opposte circostanze, quando si commisura la pena, quando si riconosce la continuazione di reati e si determinano gli aumenti per ognuno dei reati-satellite (non un unico incomprensibile globale, aumento per tutti i reati), quando si concedono o si negano la sospensione condizionale dell'esecuzione della pena e la non menzione della condanna nel certificato penale rilasciato a richiesta di privati. Concisione, chiarezza, sinteticità, essenzialità, proporzionalità, adeguatezza non sono attributi appiccicati dall'esterno al sostantivo motivazione, voluti dal Legislatore o pretesi dai capi di Corte per mera opportunità efficientista o ragionieristica, bensì costituiscono l'essenza della motivazione (del ragionamento probatorio soprattutto) dei provvedimenti del giudice. ii) Comprensibilità, in una prospettiva funzionale, è scrivere in una lingua chiara perché i fruitori dell'atto ne comprendano agevolmente il significato; è quindi rifuggire la complessità della lingua giudiziaria perché il “giusto” processo è fatto di atti comprensibili. La funzione informativa della lingua giudiziaria, che tutta la comunità deve riconoscere, ne impone semplicità, chiarezza ed univocità. Accade, invece, che frequentemente gli atti siano scritti in una lingua (lessico e sintassi) difficile, per iniziati, che può mettere in difficoltà chiunque, e non tanto per l'uso (inevitabile) di tecnicismi specifici (talora rappresentati da parole comuni che hanno, nel mondo del diritto, un significato diverso), quanto piuttosto perché la terminologia tecnica è calata in contesti linguistici caratterizzati dall'uso di un registro elevato, distinto dal linguaggio comune, da periodi di incommensurabile lunghezza, intricati da un numero smodato di “subordinate” e da cumuli non necessari di negazioni, infarciti di inutili avverbi, di sigle ai più incomprensibili, di parole antiquate, latinismi. iii) Anche l'uniformità dei criteri grafici di redazione contribuisce alla comprensione del contenuto degli atti. La necessità, in uno schema funzionale di sentenza, di criteri uniformi di redazione ed impostazione è strettamente collegata alla comprensione del contenuto della stessa, perché facilita l'individuazione dei punti che interessano ed evita dispersioni di tempo, ed è postulata dall'informatizzazione del processo e dei registri. L'esperienza quotidiana presenta, infatti, casi non infrequenti di testi privi di un minimo decoro nella presentazione, redatti senza l'osservanza delle regole di videoscrittura, senza la numerazione delle pagine, la chiara individuazione e distinzione, nei processi cumulativi, dei capi e delle posizioni degli imputati, la suddivisione in paragrafi (dove ospitare i vari punti della decisione) e sotto-paragrafi (per collocarvi le questioni da trattare per deliberare sul punto). iv) Infine la considerazione delle esigenze imposte dalla successiva (eventuale) fase del procedimento o grado del giudizio risponde a logiche di funzionalità.La sentenza di primo grado deve contenere tutti i dati utili per il giudice d'appello e per le parti; la sentenza di appello deve contenere le informazioni utili per il giudizio di cassazione. Ogni approccio che si fermi al singolo atto, alla singola fase, al singolo grado è erroneo. Ogni dato che aiuti giudice e parti del grado successivo ad avere informazioni immediate e a non sciupare tempo prezioso deve entrare nella sentenza, secondo lo spirito del nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p. Tale lettura è quella del singolo processo penale visto dal punto di vista dell'amministrazione che impegna risorse per consentire l'esercizio della giurisdizione, nell'autonomia delle sue prerogative costituzionali. È il tema, in altre parole, del ‘tempo' e del ‘costo' del singolo processo. Da questo punto di vista, può e deve dirsi che il lavoro del singolo magistrato rileva come concorso necessario alla determinazione della qualità della decisione conclusiva (quella irrevocabile) e del costo sostenuto per raggiungerla. Dal punto di vista dell'Amministrazione che fornisce le risorse, ogni esito di impegno per lo studio degli atti di una determinata procedura non deve essere disperso nelle fasi successive: lo studio degli atti nella fase successiva (o nella stessa fase) da parte di un magistrato diverso dovrebbe consistere in un'integrazione ed una rivalutazione autonoma, mai in una ripartenza che ignori le conoscenze acquisite con lo studio già svolto in precedenza. Si pensi, ad es., alla conoscenza che il giudice abbia acquisito della collocazione dei singoli atti/fonti di prova nell'ambito di vari faldoni processuali, eventualmente privi di indicizzazione (tra norma e prassi sul punto la distanza pare incolmabile). Se nel redigere la motivazione della propria sentenza, il giudice richiamasse le fonti di prova che pone a base della propria deliberazione senza accompagnare il richiamo con l'indicazione specifica della sua collocazione negli atti, il giudice del successivo grado di giudizio dovrebbe impiegare parte spesso non esigua del proprio tempo di studio del processo, alla luce dei motivi di impugnazione, cercando un'informazione materiale (la collocazione dell'atto sperso nei faldoni non indicizzati) che era già acquisita a quel processo. Il tempo di ricerca che impegna il secondo magistrato è tempo inutilmente perso. Si può allora dire che, in questi casi (ma il rilievo vale anche per il caso del verbale stenotipico chilometrico nel rito dibattimentale, quando una specifica e determinata affermazione, sparsa tra le innumerevoli pagine, viene posta dal giudice a fondamento di proprie valutazioni essenziali), una disposizione che indichi come corretta modalità di redazione di sentenza, cui il giudice deve attenersi, l'indicazione della collocazione nel fascicolo della fonte di prova/prova valorizzata in termini determinanti sarebbe importante. |