Esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione. La ricerca dei confini nella giurisprudenza di legittimità

06 Settembre 2018

Se la convinzione di esercitare un diritto costituisce l'elemento individuato dalla S.C. per distinguere la condotta riferibile al delitto di esercizio arbitrario della proprie ragioni rispetto a quello di estorsione in che termini deve essere individuato, sul piano oggettivo e su quello soggettivo, tale diritto?
Abstract

Se la convinzione di esercitare un diritto costituisce l'elemento individuato dalla S.C. per distinguere la condotta riferibile al delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni rispetto a quello di estorsione (non potendosi accedere alla tesi della gravità e intensità della minaccia quale criterio distintivo tra le fattispecie) in che termini deve essere individuato, sul piano sia oggettivo che soggettivo, tale diritto? Quando, in questo senso, ci troviamo di fronte a un “vantaggio ulteriore e diverso da quello spettante”?

Il dibattito sul rapporto tra estorsione e esercizio arbitrario delle proprie ragioni

Un tema che recentemente e reiteratamente è stato affrontato dalla giurisprudenza, così come dalla dottrina, riguarda il delicato e complesso rapporto tra il delitto di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone il cui punto di partenza può essere individuato nell'affermazione della S.C. per la quale i delitti di cui agli articoli 393 e 629 c.p. si distinguono in relazione all'elemento psicologico: nel primo, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nell'estorsione, invece, l'agente persegue il conseguimento di un profitto, pur nella consapevolezza di non averne diritto (ex multiis Cass. pen., Sez. II, 12 giugno 2012, n. 22935).

Un dibattito che ha visto fronteggiarsi due prospettazioni non facilmente conciliabili, nel momento in cui, alla tesi sopra indicata, se n'è contrapposta un'altra, in base alla quale «quando la minaccia si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria e di tale sistematica pervicacia che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, allora la coartazione dell'altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell'ingiustizia. In determinate circostanze e situazioni, pertanto, anche la minaccia dell'esercizio di un diritto, in sé non ingiusta, può diventare tale, se le modalità denotano soltanto una prava volontà ricattatoria, che fanno sfociare l'azione in mera condotta estorsiva» (Cass. pen., Sez. V, 6 marzo 2013, n. 19230). Ancora, secondo la S.C., in particolare «non è certo la semplice intenzione di far valere un proprio diritto a far trasmigrare il fatto dalla figura dell'estorsione a quella dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Poiché elemento essenziale di entrambi i reati è dato dalla violenza o dalla minaccia, il problema, nel caso di soggetto che vanti un proprio diritto che sia possibile far valere davanti all'autorità giudiziaria, è quello di verificare, ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione il grado di gravità della condotta violenta o minacciosa. Si rimane indubbiamente nell'ambito dell'estorsione ove venga esercitata una violenza gratuita e sproporzionata rispetto al fine ovvero se si eserciti una minaccia che non lasci possibilità di scelta alla vittima». (Cass. pen., Sez. VI, 21 giugno 2010, n. 32721).

A tale indirizzo, continua a contrapporsi una prospettiva ermeneutica “tradizionale” per la quale l'intensità della violenza non sarebbe decisiva, dovendo l'interprete porre a fondamento della valutazione la sussistenza dell'elemento psicologico in relazione all'intenzione di esercitare un diritto (Cass. pen., Sez. II, 19 dicembre 2013, n. 51433); una decisione fondata essenzialmente su una duplice argomentazione; da un lato, il fatto che «per il legislatore […] ciò che rileva è il diverso disvalore che sta alla base del comportamento dell'agente, perché una cosa è che la violenza o minaccia – qualunque sia la forma e l'intensità – venga esercitata per un preteso diritto, altra e ben diversa cosa è che quella stessa violenza o minaccia sia esercitata per procurarsi un ingiusto profitto»; d'altro canto, il riferimento esplicito nella fattispecie dell'art. 393 c.p. all'uso delle armi: per la S.C. «nonostante sia del tutto evidente che la minaccia o la violenza commessa con armi costituisca, sicuramente, una delle più gravi e invasive forme di coartazione della volontà altrui, il legislatore ha previsto, in continuità con la tradizione storica, solo un aggravamento di pena e non il diverso reato di estorsione». Quest'ultimo argomento, in particolare, pare difficilmente superabile, sul piano logico come su quello sistematico.

Punti fermi e temi aperti: il diritto azionabile quale chiave di lettura dell'elemento soggettivo

La sostanziale condivisibilità della tesi che privilegia l'utilizzo del criterio dell'elemento soggettivo rispetto a quello della valutazione della “gravità” della violenza o minaccia integra una significativa “apertura di credito” nei confronti di soggetti ai quali le condotte in oggetto possono essere contestate. Ciò specie considerando che, secondo un'interpretazione sostanzialmente unanime fornita dalla S.C., in tema di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, l'effettiva azionabilità della pretesa in sede giurisdizionale e la possibilità di realizzarla in virtù di una pronuncia giudiziale non costituiscono presupposto indefettibile per la configurabilità del reato, essendo a tal fine sufficiente la convinzione soggettiva – purché non arbitraria e pretestuosa, cioè tale da palesare che l'opinato diritto mascheri altre finalità, determinanti esse l'esplicazione della violenza o il ricorso alla minaccia – dell'esistenza del diritto tutelabile, posto che la possibilità di ricorso al giudice deve intendersi come possibilità di fatto, indipendentemente dalla fondatezza dell'azione e quindi dall'esito eventuale della stessa (ex multiis, Cass. pen., Sez. II, 12 agosto 1997, n. 7911).

In concreto, ciò comporta la possibilità – poniamo, a es. – di “riscuotere” a mano armata crediti di varia natura “rischiando” una pena – sebbene in ipotesi “aggravata” – sino a un anno di reclusione; a fronte di un reato procedibile a querela e “definibile”, in base alle nuove indicazioni del Legislatore, anche ai sensi dell'art. 162-ter c.p..

Se è così, pare indispensabile – sul piano, prima di tutto, della politica giudiziaria – comprendere con la massima attenzione e precisione cosa debba intendersi per diritto – o meglio, per convinzione dell'esercizio di un diritto; un diritto, che – occorre ribadirlo – non necessariamente deve essere fondato ma che, evidentemente, deve essere quantomeno astrattamente configurabile come “oggetto” di azione in sede civile.

La necessità di sviluppare quest'aspetto deriva, tra l'altro, dalla stessa decisione della S.C. sopra menzionata, laddove la stessa precisa che «la sproporzione della violenza e/o minaccia costituisce, spesso, un grave indizio della volontà ricattatoria dell'agente e cioè del fatto che costui, in realtà, intende perseguire un fine ulteriore e diverso da quello del semplice soddisfacimento di una legittima pretesa» (Cass. pen., Sez. II, 19 dicembre 2013, n. 51433).

In questo senso, l'intensità e gravità della minaccia assumono non una valenza autonoma, quanto la natura di indici per inquadrare correttamente il rapporto tra la fondatezza della pretesa e il diritto posto a supporto della stessa.

Il concetto di “profitto ulteriore”

Di grande utilità, al fine di delineare una “linea di confine” del diritto sopra indicato risulta una decisione della S.C. che ha affrontato il delicato tema del rapporto tra estorsione e ragion fattasi; precisa la S.C.: «[...] la minaccia necessaria per integrare gli estremi dell'estorsione (o della tentata estorsione) consiste nella prospettazione di un male futuro e ingiusto, la cui verificazione dipende dalla volontà dell'agente. Secondo la previsione normativa, la condotta minacciosa deve causare un doppio evento, ossia la coartazione della volontà della vittima e la disposizione patrimoniale. L'esercizio di un diritto, o la minaccia di esercitarlo – quali indubbiamente sono il concreto esercizio di un'azione giudiziaria o esecutiva o anche la minaccia di tali iniziative – non presentano, di per sè, i caratteri della minaccia necessaria per l'astratta configurabilità del delitto di estorsione: infatti, pur ponendo il soggetto passivo nella condizione di subire un pregiudizio dei propri interessi, le suddette condotte sono esclusivamente dirette alla legittima realizzazione di un diritto proprio dell'agente. Tuttavia, se l'esercizio del diritto o la minaccia di esercitarlo sono volte a realizzare un vantaggio ulteriore e diverso da quello spettante, il pregiudizio che, attraverso l'iniziativa giudiziaria formalmente legittima, si prospetta al soggetto passivo non si pone in un rapporto di funzionalità rispetto al soddisfacimento del proprio legittimo interesse, ma mira a ottenere una pretesa ulteriore ed estranea al rapporto sottostante. Quest'ultima, poiché non trova alcuna giuridica giustificazione in quello specifico rapporto, deve considerarsi illegittimamente perseguita attraverso quel particolare strumento giudiziale utilizzato o che si minaccia di utilizzare» (Cass. pen., Sez. II, 29 novembre 2012, n. 48733; conf. Cass. pen., Sez. II, 8 aprile 2003, n. 16618).

La conseguenza logica delle decisioni menzionate è evidente: se anche un'azione in sede civile, laddove diretta a ottenere un “vantaggio ulteriore e diverso da quello spettante” integra la minaccia che costituisce elemento costitutivo del delitto di estorsione, a fortiori tale minaccia potrà essere integrate da manifestazioni intimidatorie tradizionali e certamente – anche – dall'uso di un'arma. Ne consegue che la valenza “scriminante ” sul piano dell'elemento soggettivo di un delitto astrattamente azionabile, anche se in concreto infondato, deve essere rapportata al “vantaggio” che l'agente dimostrare di volere trarre dalla propria condotta. Se vi è ragionevole sproporzione tra vantaggio posto in relazione alla minaccia e diritto vantaggio astrattamente tutelabile in sede giudiziaria, non vi è ragione di qualificate il fatto ai sensi dell'art. 393 c.p.

Il principio sopra proposto – in linea teorica chiaro – si scontra nella realtà dei fatti con la necessità di una valutazione che tenga conto dell'elemento soggettivo. La prassi può fornire numerosi esempi in tal senso: se Tizio ha prestato la propria vecchia bicicletta a Caio, risponderà di esercizio arbitrario aggravato dall'uso delle armi se ne otterrà la restituzione con la minaccia di una pistola; se, al contrario, si farà consegnare una bicicletta diversa e di valore, difficilmente potrà sfuggire da una contestazione di estorsione. Maggiormente complesso il problema a fronte di somme di denaro. Estorsione a fronte della richiesta di importi derivanti dall'applicazione di tassi usurari, esercizio arbitrario per richieste di interessi nei limiti di legge; ma cosa potrà accadere a fronte di pretese di natura risarcitoria, potenzialmente indeterminate? Se il mio veicolo ha riportato un danno dai 5.000 Euro in conseguenza di un incidente, fino a quale importo eventuali voci “integrative” di danno (ad es. fermo del mezzo) potranno “entrare” nella quota di vantaggio “esercitabile” ai sensi dell'art. 393 c.p.?

Il problema si pone laddove la condotta dalla quale scaturirebbe il “diritto” spettante risulti a sua volta illecita. È ipotizzabile che il sistema possa accedere a una soluzione “benevola” laddove un singolo dimostri di volersi sostituire all''autorità giudiziaria per ottenere non soltanto – poniamo – una somma predeterminata, quanto anche una serie di “voci” ulteriore astrattamente correlata a quest'ultima?

Se la condotta a fondamento del diritto è a sua volta illecita (ad es. una frode informatica o una truffa online) la persona offesa in che termini potrà minacciare l'autore del reato per ottenere non solo la somma indebitamente prelevata dal mio conto o versata, quanto anche eventuali ulteriori danni morali e materiali, confidando nella sola contestazione dell'art. 393 c.p.? In questo caso non è in discussione la sussistenza del diritto, astrattamente considerabile, quanto la sua quantificazione.

Non solo: potrà – o dovrà – avere rilevanza il destinatario della minaccia rispetto a tale diritto? Se avrà subito un danno – anche oggettivamente quantificabile- da un soggetto, persona fisica o giuridica- la minaccia costituente ragion fattasi potrà essere esercitata anche verso terzi, legati a vario titolo all'uno o all'altro? E, sul piano temporale, un diritto – anche fondato- azionabile in un futuro più o meno prossimo, potrà consentire una qualificazione della minaccia ai sensi dell'art. 393 c.p. anche ove la stessa sia funzionale a un soddisfacimento immediato?

Fornire una risposta univoca può non essere semplice e, indubbiamente, indicazioni di massima della S.C. devono essere considerate come oltremodo auspicabili. Nondimeno il quadro ermeneutico fornito dalla S.C. impone già oggi verosimilmente un'analisi in concreto del vantaggio “ulteriore e diverso” che si pone come effettivo elemento di distinzione tra le fattispecie; una valutazione necessaria, in quanto indispensabile per evitare che l'approccio “ragionevole” sul piano sanzionatorio anche a fronte di minaccia di particolare intensità – tali da destare anche allarme sociale – possa essere strumentalmente esteso al conseguimento di profitti – almeno sul piano quantitativo – infondati.

Un'analisi che potrebbe non doversi fermare a un dato meramente quantitativo, quanto anche a una ricognizione sul piano temporale e dei destinatari delle condotte di violenza o minaccia. Si tratta, pertanto, non solo di verificare se l'agente persegua il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, quanto anche se il profitto in questione sia – a sua volta – ragionevolmente e correttamente ipotizzato.

In conclusione
  • L'elemento distintivo tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione deve essere individuato, sul piano soggettivo, nella convinzione di esercitare un diritto, anche laddove in concreto infondato.
  • La distinzione tra i due reati non può essere individuata sulla base della gravità e intensità della minaccia finalizzate a esercitare il diritto.
  • È necessario che l'interprete, nel valutare la sussistenza dell'intenzione di esercitare un diritto, verifiche l'elemento soggettivo anche in termini di “oggetto” e d'individuazione del soggetto passivo della pretesa.
Guida all'approfondimento

M.C. UBIALI, Sui rapporti tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone: un revirement giurisprudenziale, nota a Cass. pen., Sez. II, 4 dicembre 2013, n. 51433, in Dir. pen. cont.;

S. BERNARDI, Sulla minaccia di un "male giusto" nel delitto di estorsione, tra abuso del diritto e approfittamento dell'altrui soggezione, nota a Cass. pen., Sez. II, 17 febbraio 2017, n. 11979 in Dir. pen. cont;

A. LAURINO, Estorsione, ragion fattasi ed intensità della violenza nella giurisprudenza della Suprema Corte, in Cass. pen., 2012, p. 3174 ss.

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