La preclusione processuale nel “sistema di prevenzione”

Ferdinando Brizzi
27 Settembre 2018

Come noto la materia delle misure di prevenzione è stata ed è spesso oggetto d'interventi giurisprudenziali che tentano di colmare i vuoti normativi che il d.lgs. 159/2011 – ancorché recentemente riformato con la l. 161/2017 – non è stato in grado di colmare. E tanto più arretra il Legislatore tanto più la giurisprudenza è costretta a intervenire. Esemplare la situazione creatasi in esito alla nota pronuncia De Tommaso nel delicatissimo settore della pericolosità generica...
Abstract

Come noto la materia delle misure di prevenzione è stata ed è spesso oggetto d'interventi giurisprudenziali che tentano di colmare i vuoti normativi che il d.lgs. 159/2011 – ancorché recentemente riformato con la l. 161/2017 – non è stato in grado di colmare.

E tanto più arretra il Legislatore tanto più la giurisprudenza è costretta a intervenire.

Esemplare la situazione creatasi in esito alla nota pronuncia De Tommaso nel delicatissimo settore della pericolosità generica e sul quale abbiamo già scritto (v. Di cosa parliamo quando parliamo di De Tommaso).

Il nuovo “fronte” che si sta aprendo e consolidando è quello che attiene al principio generale del c.d. ne bis in idem.

Nulla quaestio circa l'esistenza, nell'ordinamento, del principio della preclusione processuale, che riverbera i suoi effetti in tutte le fattispecie concrete che si caratterizzano per la coesistenza in più procedimenti – definiti o meno con sentenza passata in giudicato – aventi il medesimo oggetto e a carico della stessa persona.

Il principio è stato autorevolmente affermato da Cass. pen., Sez. unite, n. 34655/2005.

In buona sostanza e sintetizzando al massimo si può affermare che una questione già decisa non può formare – per evidenti esigenze di certezza del diritto e di funzionalità del sistema – oggetto di una nuova cognizione, salvo che vengano dedotti fatti nuovi modificativi della situazione già in precedenza delibata.

Lo scopo di questo contributo è analizzare gli arresti giurisprudenziali che hanno delimitato l'ambito di operatività della preclusione processuale nella materia delle misure di prevenzione.

Non si può non rilevare, esaminando i più recenti repertori giurisprudenziali, come la violazione vera o presunta del ne bis in idem sia stata ripetutamente oggetto di eccezioni da parte delle difese in vari procedimenti .

In questo Focus, pertanto, anche alla luce dei mutamenti normativi, si tenterà di inquadrare l'istituto (anche in una prospettiva internazionale) soffermandosi dapprima sui profili sostanziali dell'istituto del ne bis in idem nella sua interazione con le misure di prevenzione, per poi esaminarne le ricadute più strettamente legate a profili processuali.

Il ne bis in idem in una prospettiva internazionale

Dopo la nota sentenza della Corte Edu 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia è dato concreto di come in ambito defensionale soggetti proposti abbiano spesso invocato l'applicabilità della pronuncia all'interno di procedimenti di prevenzione prospettando l'assimilabilità delle stesse misure di prevenzione alla sanzione penale in considerazione del loro elevato livello di afflittività nonché per l'oggettiva compressione dei diritti individuali di libertà e (avuto riguardo alle misure patrimoniali) di tutela dei diritti di proprietà.

Al riguardo non si può negare di come la giurisprudenza della Corte Edu (Corte Edu, 8 giugno 1976, Engel contro Olanda; 9 gennaio 1995, Weich contro Regno Unito; 28 novembre 1999, Escoubet contro Francia; 30 agosto 2007 Sud Fondi e altri contro Italia) abbia chiaramente delineato tre criteri alternativi per individuare la natura penale o meno dell'accusa e della relativa sanzione ai sensi dell'art. 6, p. 1 della Convenzione, rappresentati dalla qualificazione giuridica della misura assegnata dall'ordinamento nazionale, dalla sua natura e dal suo grado di severità e che, per riscontrare la violazione dell'art. 4, prot. n. 7, della Convenzione, abbia propugnato una nozione di identità delle fattispecie, più volte giudicate in distinte sedi, basata sulla corrispondenza sostanziale e naturalistica, più che nominale degli addebiti (Grande Camera, 10 febbraio 2009, Serguei Zolotoukhine contro Russia).

Tuttavia ai parametri desumibili dalle pronunce della Corte sovranazionale appena citate è chiaramente estraneo il profilo che attiene alla pericolosità della persona, intesa quale condizione attuale o passata significativa e propedeutica alla potenziale futura commissione di illeciti penali, pericolosità desumibile non tanto da indicatori necessariamente integranti un vero e proprio illecito penale o amministrativo, quanto piuttosto dalle abitudini di vita, dai rapporti interpersonali, dalle frequentazioni, dalle denunce, rispetto ai quali non è consentito ravvisare le condizioni per rendere operativo il divieto di bis in idem, come delineato dalla giurisprudenza nazionale e non.

Per le medesime ragioni il sistema delle misure di prevenzione, sotto tale specifico profilo, è sempre stato ritenuto compatibile con le norme convenzionali.

La predetta Corte ha, infatti, ritenuto – ad esempio – che la sorveglianza speciale non è assimilabile in alcun modo a una pena in senso tecnico in quanto è finalizzata ad impedire la commissione di un reato e non a reprimere e sanzionare la condotta di violazione della legge penale e quindi la commissione di un reato in senso tecnico (Corte Edu, 22 febbraio 1994, Raimondo c. Italia; 4 settembre 2001, Riela c. Italia; 5 luglio 2001, Arcuri c. Italia; 5 gennaio 2010, Bongiorno c. Italia; 6 luglio 2011, Pozzi ed altri c. Italia; 17 maggio 2011 Capitani e Campanella c. Italia).

Parimenti – con riferimento alla confisca – la Corte Edu con la sentenza Raimondo (i cui principi sono stati “ripresi” anche nelle successive pronunce 25 marzo 2003 Madonia c. Italia; 5 luglio 2001 Arcuri e altri c. Italia; 4 settembre 2001 Riela c. Italia; 13 novembre 2007 Bocellari e Rizza c. Italia) ha riconosciuto che l'istituto ablativo specifico risponde alla finalità – di interesse generale – di contrastare il fenomeno della criminalità organizzata e quindi sotteso alla indefettibile necessità di impedire che l'uso dei beni accumulati illecitamente non procuri al soggetto o comunque all'associazione di cui è indiziato di fare parte, benefici economici a scapito della collettività e, quindi, assume che debba ritenersi proporzionato all'obiettivo perseguito e, per il suo carattere preventivo, ne è giustificata l'applicazione immediata nonostante ogni ricorso.

Si è peraltro affermato, attesa l'elevata capacità di incidere con l'ablazione sui diritti di proprietà della persona, di imporre ai giudici italiani della prevenzione di basare la loro decisione, non certamente su meri sospetti bensì su un serio e approfondito accertamento il più possibile oggettivo dei fatti e dei profili “esistenziali” del soggetto proposto.

Sul piano definitorio e del raffronto sistematico con altri istituti giuridici indicazioni conformi sono state espresse anche dalle Sezioni unite del Supremo Collegio (Cass. pen., Sez. unite, 26 giugno 2014, n. 4880, Spinelli ed altro) e dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 335/1996; Corte cost. n. 487/1995; Corte cost.n. 486/1995; Corte cost. 465/1993).

E infatti la Suprema Corte, in relazione a fattispecie concrete di soggetti nei confronti dei quali la misura di prevenzione applicata aveva riguardo a situazioni e fatti pregressi o comunque risalenti al periodo cronologico per il quale si era ritenuto che i proposti fossero dediti ad attività delinquenziale, è negato nel modo più assoluto che la confisca di prevenzione sia riconducibile alla categoria della pena in ragione del suo contenuto afflittivo ed a riconoscere invece che, in conseguenza delle modifiche introdotte dal d.l. 92/2008 (conv. dalla l. 125/2008) e dallal. 94 del 2009, alla l. 575/1965, art.2-bis, l'istituto sia piuttosto equiparato alle misure di sicurezza.

La conseguenza di questo importante principio è l'evidente sottoposizione dell'istituto alla disciplina dettata dall'art. 200 c.p. secondo cui «le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione» con la conseguenza strettamente tecnica che, in subiecta materia in caso di successione nel tempo di leggi diverse, non si applica il principio di irretroattività della legge penale dettato dall'art. 2 c.p. che vale per le fattispecie sostanziali.

Al riguardo si deve ulteriormente precisare che anche i successivi arresti delle singole Sezioni della Suprema Corte hanno ribadito questa linea interpretativa.

E infatti, affrontando lo specifico tema dell'applicabilità alla materia delle indicazioni fornite dalla Corte Edu nella sentenza Grande Stevens c. Italia in riferimento ai rapporti tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, i giudici di legittimità hanno stabilito che «se ne esaminiamo i parametri si può osservare che sul piano della classificazione legale (formale) dell'illecito, non ci troviamo a fronte della comparazione tra illecito penale e amministrativo, in quanto il presupposto della misura di prevenzione non è un illecito di qualsivoglia natura, quanto una condizione» (Cass. pen., Sez. VI, 16 luglio 2014, n. 32715, Muià e altro; Cass. pen., Sez. II, 4 giugno 2015, n. 26235, Friolo; Cass. pen., Sez. VI, 6 ottobre 2015, n. 44608, Cincinnato).

Seppure l'accertamento della condizione di pericolosità possa valorizzare condotte integranti ipotesi di reato non può in alcun modo assumersi l'identità della valutazione sottesa al giudizio prevenzionale rispetto alla cognizione del fatto di reato di natura sostanziale.

Tale considerazione rende evidente l'inapplicabilità del principio ne bis in idem come interpretato dalla Corte sovranazionale, per cui la sua violazione è ravvisabile soltanto quando un successivo procedimento venga avviato nei confronti dello stesso soggetto dopo che altro procedimento sia stato definito con decisione irrevocabile di assoluzione o di condanna.

Tali premesse tecniche e giurisprudenziali hanno consentito alla Cassazione,Sez. I, sentenza n. 9541/2017) di ritenere non pertinente il richiamo ai principi espressi dalla sentenza della Sez. II della Corte Edu 4 marzo 014, Grande Stevens c. Italia, in una fattispecie concreta nella quale vi era stata contestualità tra procedimento di prevenzione e procedimento penale con riferimento al delitto di cui alla l. 356 del 1991, art. 12-quinquies, peraltro non ancora definito con sentenza irrevocabile.

Tale circostanza è stata ritenuta idonea a rendere non operante nel caso concreto il principio invocato in ambito defensionale a garanzia della non sottoposizione ad una nuova procedura per i medesimi fatti e, come tale, ha esentato la Corte dal rimettere la questione interpretativa pregiudiziale in ordine all'operatività del principio ne bis in idem con riferimento alla confisca di prevenzione.

Il dedotto e il deducibile

In sede di prevenzione è stata affermata l'insussistenza di una preclusione processuale che “copra” non solo il dedotto, ma anche il deducibile: «in altri termini, non c'è un principio (ma piuttosto una mera esigenza di economia processuale) che imponga di chiedere la confisca per tutti i cespiti conosciuti o comunque conoscibili al momento della proposta della misura di prevenzione».

Al riguardo è opportuno richiamare le considerazioni svolte in una pronuncia dei giudici di legittimità, relative ad una fattispecie esaminata prima dell'introduzione del principio di autonomia della misura di prevenzione patrimoniale rispetto a quella personale (Cass. pen., Sez. II, 9 aprile 2008, n. 19582, Iamonte).

In tale sede si era osservato – proprio perché il principio del ne bis in idem spiega effetti preclusivi nel procedimento di prevenzione eventualmente instaurato dopo la definizione del precedente giudizio solo con riferimento alle questioni dedotte e non anche a quelle deducibili – che: «non si evince nel nostro ordinamento positivo da alcun argomento nè logico né letterale la previsione di una sorta di "giudicato implicito" sulla legittima acquisizione di un bene che non abbia formato oggetto di specifica indagine in sede di applicazione della misura di prevenzione reale: in tal caso si è in presenza invero di questione, in senso ampio, non dedotta in tale sede, e sulla quale non può verificarsi quindi alcuna preclusione processuale, di talché deve ritenersi legittima, in costanza di misura di prevenzione personale, l'istaurazione di una nuova procedura di sequestro e confisca di beni che siano nella disponibilità di soggetto sottoposto a tale misura personale, e che non abbiano formato oggetto della precedente determinazione patrimoniale».

Come si accennava, la pronuncia risale a periodo in cui non era ancora vigente il principio di autonomia tra applicazione della misura di prevenzione personale rispetto a quella patrimoniale. Non pare a chi scrive vi siano peraltro ostacoli di natura tecnica all'applicazione del principio appena riportato anche nell'attuale assetto normativo.

E infatti, a suffragare quanto appena affermato, è intervenuta la Cass. pen. Sez. II, sentenza n. 13503/2018, che ha escluso la violazione del principio del ne bis in idem in un caso in cui il giudice di merito in un primo procedimento di prevenzione era addivenuto alla confisca dei terreni, senza peraltro adottare alcuna decisione sui manufatti, la cui esistenza era stata comunicata al Tribunale solo dopo l'emissione del decreto di confisca di primo grado.

Il giudice d'appello aveva avuto contezza dell'esistenza dei manufatti solo in esito a perizia espletata in quella sede ed aveva proceduto alla confisca anche di questi.

La S.C. ha fatto proprio il principio di diritto secondo il quale non sussiste una preclusione che copra non soltanto il dedotto ma anche il deducibile e ha precisato come: «non si evince nel nostro ordinamento positivo da alcun argomento né logico né letterale la previsione di una sorta di giudicato implicito sulla legittima acquisizione di un bene che non abbia formato oggetto di specifica indagine in sede di applicazione della misura di prevenzione reale: in tal caso si è in presenza invero di questione, in senso ampio, non dedotta in tale sede, e sulla quale non può verificarsi quindi alcuna preclusione processuale».

Secondo la Corte: «Il decreto in questa sede impugnato si muove all'interno della indicata prospettiva ermeneutica, avendo evidenziato (pag. 24-25), in relazione al primo procedimento culminato nella confisca dei terreni, che il Tribunale di Foggia non aveva adottato alcuna decisione sui manufatti, la cui esistenza - pur risalente all'agosto 2002 quanto ai box e al dicembre 2002 quanto alla villa (come dichiarato dalla stessa S. all'autorità amministrativa nel procedimento per la definizione degli illeciti edilizi) - era stata comunicata al Tribunale dopo l'emissione del decreto di confisca. Per altro verso, la Corte d'Appello ha ritenuto irrilevante il fatto che, in quel procedimento, il giudice di secondo grado avesse avuto conoscenza dei manufatti attraverso la perizia in quella sede espletata, dal momento che la sua cognizione era limitata al decreto impugnato e ai motivi di appello, senza alcuna possibilità di adottare determinazioni in ordine a beni rimasti estranei all'oggetto del procedimento di primo grado».

In esito all'affermazione di questi principi di diritto – che la Corte ha desunto da specifico precedente arresto della stessa Cassazione (in particolare Cass. pen., Sez II n. 19582/2008, Iamonte) – il Supremo Collegio ha ritenuto pertanto legittima l'instaurazione di una nuova procedura ablativa dei beni (in questo caso i manufatti) che erano nella disponibilità del soggetto sottoposto a misura personale che però non avevano formato oggetto della precedente determinazione patrimoniale.

Rapporti tra confisca allargata e sistema di prevenzione

In giurisprudenza è stato riconosciuto che anche nei rapporti tra confisca "allargata" – di cui all'art. 12-sexiesd.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 1992, n. 356 (ora art. 240-bis c.p.) – e confisca di prevenzione il principio in questione riverbera i suoi effetti preclusivi ove gli stessi beni, nella disponibilità della medesima persona, siano fatti oggetto di differenti richieste di ablazione: una ex art. 12-sexiesd. d.l. 306/1992 e l'altra quale confisca antimafia ai sensi del d.lgs. 159/2011 (Cass. pen., Sez. VI, n. 18267/2014; Cass. pen., Sez. I, n. 48173/2013; Cass. pen., Sez. VI, n. 47983/2012).

Va chiarito che i presupposti dell'operatività della preclusione sono però l'identità delle parti e dei beni e l'omogeneità dei contenuti della cognizione.

Una sentenza del Supremo Collegio (Cass. pen. Sez. V, 18 dicembre 2017, n. 15284) ha recentemente affrontato proprio questo specifico aspetto e cioè l'omogeneità dei contenuti della cognizione.

I supremi giudici affermano che la confisca di prevenzione e la confisca cosiddetta allargata di cui all'art. 12-sexies d.l. 306/1992 hanno presupposti applicativi solo in parte coincidenti, atteso che in entrambe le ipotesi è previsto che i beni oggetto di ablazione devono essere nella disponibilità diretta o indiretta dell'interessato e devono avere un valore sproporzionato rispetto al reddito da quest'ultimo dichiarato ovvero all'attività economica dal medesimo esercitata.

Tuttavia (ed è questo l'aspetto che più preme sottolineare), soltanto per la confisca di prevenzione di cui al d.lgs. 159/2011 è prevista la possibilità di sottrarre al proposto i beni che siano frutto di attività illecita ovvero ne costituiscano il reimpiego (Cass. pen., Sez. unite, 29 maggio 2014, n. 33451).

Ciò comporta che il tema decisorio che concerne la confiscabilità dei beni ha un contenuto ben più ampio nel processo di prevenzione rispetto a quello che assume nel giudizio ex art. 12-sexies d.l. 306/1992, in quanto nel giudizio di natura preventiva assumono rilevanza diretta – a differenza che nel giudizio del secondo tipo – sia l'origine sia le modalità di formazione del patrimonio e i beni divengono confiscabili anche quando vengano accertate o la loro provenienza illecita (o comunque da attività illecita), ovvero si accerti che il suo incremento sia stato determinato dal reimpiego di proventi acquisiti illegittimamente.

Tale differente strutturazione delle due fattispecie ha significative ricadute nella valutazione della sussistenza o meno della preclusione data dal divieto del ne bis in idem che, in esito alla definizione del primo giudizio (sia esso di confisca allargata o di confisca di prevenzione) può essere dedotta nel grado successivo.

E infatti solo ed esclusivamente una preesistente cognizione ad “ampio raggio” – che abbia avuto per oggetto proprio la provenienza dei beni – può ritenersi idonea a paralizzare, in applicazione del principio di ne bis in idem, il secondo grado di giudizio.

A ben diverse conclusioni si deve giungere allorquando il primo grado di giudizio abbia avuto a oggetto altri (e meno ampi) presupposti della confisca ovvero sia stato vulnerato da eccezioni sempre paralizzanti ma di altra natura (e ovviamente non concernenti il ne bis in idem), in quanto in ragione del minor ambito cognitivo del giudice di prime cure non sussiste alcun ostacolo processuale di natura preclusiva allo svolgimento di un secondo grado di giudizio che abbia di mira l'ablazione di beni astrattamente confiscabili e i cui presupposti non erano stati oggetto di valutazione.

E ciò in quanto, operando la preclusione rebus sic stantibus, il provvedimento definitorio di primo grado preclude una nuova pronuncia sul medesimo petitum non in termini assoluti e omnicomprensivi ma solo nei limiti della eventuale nuova prospettazione di questioni giuridiche o di nuovi elementi di fatto i quali, siano essi sopravvenuti ovvero preesistenti, non sono stati comunque valutati e considerati ai fini della decisione del giudice di prime cure.

In applicazione di tali principi i giudici di legittimità hanno escluso l'applicabilità del principio del ne bis in idem in un caso in cui in sede penale era stata esclusa la confiscabilità dei beni per l'assenza di sproporzione tra il patrimonio di colui che sarebbe stato poi proposto in sede di prevenzione e di cui era certamente il titolare o aveva comunque la disponibilità e i redditi e i proventi della sua attività economica.

La cognizione dei giudici penali in primo grado – nel procedimento che si era concluso con un provvedimento di restituzione dei beni – si era infatti incentrata e sviluppata in un ambito valutativo e di presupposti di fattispecie ben diverso rispetto a quello che attiene alla confisca di prevenzione in senso tecnico (e che abbiamo visto essere molto più ampio) .

E infatti aveva avuto come base cognitiva regole e principi sostanzialmente differenti da quelli vigenti in materia di confisca di prevenzione e certamente più ristretti concernendo esclusivamente l'ammontare del patrimonio mobiliare ed immobiliare del proposto valutate in rapporto alla sua capacità economica ma senza estendere l'indagine alle fonti di formazione di quel patrimonio e dell'accertamento delle modalità di acquisizione.

È proprio questa, invece, l'indagine che viene sviluppata nel giudizio di prevenzione e che è tecnicamente legittima dall'ampiezza già descritta e considerata dell'istituto della confisca di prevenzione e dalla rilevanza che assume – per valutare l'origine e la liceità del patrimonio – anche la condotta di vita del proposto e dei suoi familiari nel periodo in cui è avvenuta l'accumulazione che consente di perimetrare le vicende patrimoniali e ancorarle ai presupposti di pericolosità manifesti .

Nel caso di cui abbiamo trattato nel giudizio di prevenzione sono stati valutati i numerosi provvedimenti giudiziari che emergevano a carico del proposto e del suo coniuge sin dagli anni '80 del secolo scorso, dai quali emergevano indizi chiari di uno stabile, organico e qualificato inserimento di entrambi in un'associazione mafiosa .

Sulla base di questi differenti presupposti cognitivi e di valutazione il giudice della prevenzione è giunto alla conclusione che tutto il patrimonio della coppia era il frutto di attività illecita o comunque del reimpiego di attività illecite, in quanto procurato o comunque favorito dalla loro “militanza mafiosa”, ovvero direttamente derivante dall'esercizio di impresa che costituiva «essa stessa il grimaldello dell'infiltrazione mafiosa della cosca» nel contesto territoriale di riferimento.

Rapporti tra misure cautelari reali e misure di prevenzione reali

Su questo tema specifico l'orientamento del giudice di legittimità (Cass. pen., Sez. I, n. 20476/2013, Capriotti ed altri; Cass. pen.,Sez. I, n. 25846/2012, Franco e altri; Cass. pen., Sez. VI, n. 47983/2012, D'Alessandro) è approdato recentemente al superamento della tradizionale opinione che riteneva pienamente autonomi e reciprocamente indifferenti il procedimento cautelare e quello prevenzionale.

Per cui, ferma restando la non riferibilità alle misure di prevenzione (stante la natura della decisione che le applica) della nozione di “giudicato” in senso proprio, ha riconosciuto l'applicabilità anche al settore preventivo della categoria concettuale della "preclusione processuale", già considerata per disciplinare le possibili interazioni fra procedimenti distinti nel campo degli incidenti cautelari e di esecuzione.

In estrema sintesi qualora una questione sia stata già decisa – per evidenti esigenze di certezza del diritto e di “efficienza” processuale – la stessa non può formare oggetto di ulteriore delibazione in diverso procedimento fatta salva l'ipotesi di deduzione di elementi nuovi in senso tecnico e non previamente considerati.

Come affermato dalle Sezioni unite della Suprema Corte nella pronuncia n. 36 del 13 dicembre 2000, Madonia, infatti, la preclusione processuale, derivante da una precedente decisione in materia cautelare esecutiva o in materia di prevenzione, opera con effetti più limitati rispetto alla sentenza passata in giudicato perché deve ritenersi circoscritta alle sole questioni dedotte senza estendersi a quelle deducibili e resta condizionata dalla specifica situazione di fatto presa in considerazione.

Si è quindi affermato che la declaratoria di revoca di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca relativa ai beni di un indagato – ove abbia avuto fondamento da un accertamento in concreto circa la legittima provenienza dei cespiti e non sia stata determinata da motivi ostativi di natura strettamente processuale – paralizza l'eventuale ablazione con confisca di prevenzione (che presuppone proprio la mancata giustificazione nell'ingresso del patrimonio o nella disponibilità per effetto dell'impiego di risorse lecite) gli stessi beni ove si accerti “identità” di decisione nei riguardi della stessa parte e con riferimento alla medesima questione di diritto o di fatto.

Se, invece i dati di valutazione o comunque di natura probatoria disponibili e oggetto di cognizione ai fini dell'adozione delle due distinte misure ablative ovvero i profili di natura giuridica siano differenti, l'effetto preclusivo della precedente decisione non opera e non paralizza l'eventuale adozione di misura di tenore opposto.

Occorre quindi una sostanziale sovrapposizione in fatto e in diritto per ottenere un effetto preclusivo sul solco giurisprudenziale già trattato(v. supra § Il dedotto e il deducibile; § Rapporti tra confisca allargata e sistema di prevenzione )e che l'eventuale reiezione non sia la conseguenza di eccezioni di natura formale comunque non attinenti a dati sostanziali quali ad esempio il fumus di un provvedimento cautelare.

L'annullamento per motivi formali

In relazione a questo specifico tema non si può non sottolineare come sia stata proprio la giurisprudenza formatasi nel tempo in tema di misure cautelari personali e reali che a “guidare” i supremi giudici nella specifica materia delle misure di prevenzione consentendo la “riproponibilità” di una proposta in casi di pregressi annullamenti dettati da motivazioni tecniche di natura meramente formale.

E infatti si è affermato che l'annullamento di una ordinanza cautelare per motivi formali, quali la mancanza di un'autonoma valutazione da parte del giudice per le indagini preliminari dei requisiti normativi previsti per l'adozione della misura coercitiva, non impedisce la rinnovazione della misura poiché che il divieto di rinnovazione, di cui all'art. 309, comma 10, c.p.p., non si riferisce ai casi di annullamento ex art. 309, comma 9, c.p.p.

In motivazione la Corte ha precisato che l'applicazione di detto principio non determina la violazione del principio del ne bis in idem, né una disparità di trattamento rispetto alle ipotesi disciplinate dall'art. 309, comma 10, c.p.p., trattandosi di una norma di carattere derogatorio rispetto al principio generale secondo cui, in tema di misure cautelari personali, il vincolo del "giudicato cautelare interno" opera solamente nel caso in cui vi sia stata una valutazione sul merito della domanda cautelare del pubblico ministero (Cass. pen., Sez. VI, n. 8695/2018).

Come si vede la sostanza prevale sulla forma.

Parimenti si è affermato che l'annullamento per mancata convalida del sequestro operato di iniziativa dalla polizia giudiziaria per decorso del termine di legge non preclude la possibilità per il P.M. di disporre autonomamente il sequestro probatorio dei medesimi beni, atteso che il principio del ne bis in idem comporta l'impossibilità di reiterare un provvedimento solo quando sia intervenuta pronuncia giurisdizionale, non più soggetta ad impugnazione, che abbia escluso la sussistenza delle condizioni per disporlo, e non anche nell'ipotesi di caducazione di un originario provvedimento ablativo per motivi puramente formali (Cass. pen., Sez. II, n. 2276/2015).

Ancora, è stata ritenuta legittima l'emissione di un provvedimento di sequestro, preventivo o probatorio, dopo che un primo analogo provvedimento era stato revocato, poiché ci si trova di fronte ai ipotesi di provvedimenti reiterabili ed autonomi l'uno dall'altro e purché la revoca intervenuta in sede di riesame o di appello si sia basata su profili formali e/o processuali e non sulla insussistenza del fumus delicti (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il decreto di sequestro probatorio emesso dal P.M. nonostante un precedente provvedimento avente analogo contenuto fosse stato annullato per carenza di motivazione) (Cass. pen., Sez. III, n. 29975/2014).

Tali principi sono stati trasfusi al sistema di prevenzione a partire da Cass. pen., Sez. unite, 13 dicembre 2000, n. 36, Madonia, sulle cui motivazioni occorre brevemente soffermarsi.

Da un punto di vista generale, i supremi giudici hanno osservato che la preclusione processuale impedisce a qualsiasi giudice di prendere cognizione della questione già decisa, in mancanza di deduzione di fatti nuovi modificativi della situazione già definita allo stato degli atti.

La predetta preclusione ha un'efficacia più limitata rispetto a quella del giudicato strictu sensu, in quanto include solo le questioni dedotte, non anche quelle deducibili e resta comunque condizionata alla situazione di fatto (Cass. pen., Sez. unite, 31 marzo 1999, Liddi) che, ove resti immutata, rende applicabile de plano il principio del ne bis in idem (v. supra).

Con particolare riferimento alle misure alle misure di prevenzione, la Corte di cassazione ha precisato che solo entro tali limiti i provvedimenti relativi alle misure di prevenzione hanno natura sostanziale di sentenza e acquistano un'intangibilità che si potrebbe definire relativa con conseguente impossibilità di trattazione di ulteriore analogo procedimento.

Si è quindi affermato che la preclusione non trae origine da un precedente rigetto della richiesta di sequestro dei beni dell'indiziato di appartenere a un'associazione di tipo mafioso, poiché nessuno sbarramento può derivare all'esercizio dei poteri cautelari del tribunale, vertendosi in tema di provvedimenti non suscettibili di passare in giudicato (Cass. pen., Sez. II, 21 marzo 1997, Nobile).

Il principio affermato da questa sentenza in materia di prevenzione è stato fatto proprio dal secondo comma dell'art. 7 della l. 27 dicembre 1956, n. 1423 (ora art. 11 d.lgs. 159/2011), il quale stabilisce che il provvedimento applicativo delle misure di prevenzione, su istanza dell'interessato e sentita l'autorità di pubblica sicurezza che l'ha proposto, può essere revocato o modificato dall'organo che lo ha emanato, quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato.

Ciò costituisce conferma dei limiti oggettivi di preclusione tecnica dell'impropriamente definito giudicato di prevenzione, essendo quanto mai “relativa” in questa specifica materia l'immutabilità del provvedimento che per sua natura può essere definito rebus sic stantibus.

E infatti è ontologicamente lontano da qualsiasi ambizione di definitività uno status quale quello della pericolosità sociale di una soggetto in quanto, nel tempo, possono comunque sopravvenire elementi ab origine non presi in considerazione che , come tali , sfuggono a qualsivoglia effetto di preclusione.

Non si può che ribadire un principio fondamentale che è quello che lega e permea tutta la materia delle misure di prevenzione e cioè che il provvedimento definitorio di prevenzione per sua natura non va ad accertare la sussistenza di un fatto-reato e, a maggior ragione, la responsabilità di un soggetto.

La conseguenza logica è che eventuali elementi non presi in considerazione nei passaggi argomentativi e nei presupposti di fatto della decisione non possono che sfuggire alla preclusione, ponendosi con essa in una relazione di novità (Cass. pen., Sez. unite, 30 marzo 1998, Pisco e Cass. pen., Sez. I, 6 marzo 1992, Santapaola).

La misura di prevenzione ha infatti carattere strumentale, ha insita una natura provvisoria, è rebus sic stantibus essendo finalizzata al contenimento della pericolosità sociale e quindi alla prevenzione .

È evidente, pertanto, l'affinità strutturale e sistematica con la materia delle misure cautelari avendo entrambe caratteristiche comuni di strumentalità e di provvisorietà in quanto decisioni – appunto – allo stato degli atti e come tali certamente non immutabili.

Ad esempio del tutto simmetrico al citato art. 7 l. 1423/1956 è, in materia cautelare, l'art. 299 c.p.p. che prevede la revoca o la sostituzione di dette misure anche per fatti sopravvenuti.

Si è pertanto ritenuta legittima la rivalutazione della posizione del soggetto interessato e altresì la reiterazione di una misura cautelare per gli stessi fatti che si renda necessaria in esito alla caducazione di una misura precedente qualora non ricorra alcuna preclusione che sia di ostacolo ad una riproposizione ove non intervenga una modificazione dei fatti di riferimento (Cass. pen., Sez. unite, 3 ottobre 1997, Gibilras e Cass. pen., Sez. unite, 10 settembre 1992, Grazioso).

La corretta conclusione che si trae in materia di prevenzione è quindi l'inapplicabilità del principio dell'intangibilità della decisione in quanto non può verificarsi, ontologicamente, una situazione ascrivibile alla cosa giudicata in senso tecnico.

Valutando nuovi elementi di pericolosità ben può instaurarsi un nuovo, diverso procedimento di prevenzione con conseguenti sequestro e confisca dei beni dell'indiziato (Cass. pen., Sez. I, 25 ottobre 1993, abate) e questo perché ci si trova di fronte a una nuova considerazione della situazione fattuale sotto entrambi i profili e cioè sia personale che patrimoniale.

Se, dunque, è legittima l'applicazione di una misura di prevenzione dopo l'avvenuta applicazione di altra misura i cui effetti si siano comunque esauriti, a maggior ragione si può affermare che nessuna preclusione può verificarsi ove la decisione sia stata oggetto di annullamento solo per vizi di natura formale e che non attengano al merito.

Pertanto, è stato affermato il principio che in tema di misure di prevenzione di natura patrimoniale nessuna preclusione può derivare dall'avvenuto annullamento per vizi formali del decreto di confisca: è, quindi, legittima in costanza di misura di prevenzione personale l'apertura di una nuova procedura di sequestro e confisca degli stessi beni.

Questi principi sono stati ribaditi da Cass. pen., Sez. VI, 31 maggio 2017, n. 38715, secondo cui la preclusione processuale, mutuato il principio affermato in tema di misure cautelari personali, opera soltanto quando il provvedimento sia stato annullato in conseguenza di un riesame nel merito e non quando l'inefficacia della misura sia conseguenza di vizi puramente formali.

Si tratta dello stesso principio espresso a suo tempo da Cass. pen., Sez. unite, n. 36/2000, Madonia; Cass. pen., Sez. V, n. 35931/2010, Toni e a.; Cass. pen., Sez. unite, n. 11/1992, Grazioso e a.

Il novum normativo

La giurisprudenza torinese recentemente (nel 2018) ha “stimolato” con alcune pronunce di merito – poi oggetto di gravame in sede di legittimità –la S.C. che è quindi tornata ad occuparsi di tornare a occuparsi di questa delicata materia con due sentenze che meritano di essere segnalate.

Si tratta Cass. pen., Sez. VI, 23 luglio 2018, n. 34973 e diCass.pen., Sez. I, 20 settembre 2017, n. 13375, Brussolo e altri.

Nel primo caso, era avvenuto che, nel precedente procedimento di prevenzione, fosse stato revocato il sequestro anticipato dei beni in quanto, alla luce della normativa all'epoca vigente e conformemente all'interpretazione giurisprudenziale in quel periodo consolidata si era ritenuto che l'art. 14 l. 55/1990 limitasse la possibilità di applicazione delle misure patrimoniali del sequestro e della confisca (di cui alla l. 575/1965, come modificata dalla l.646/1982) ai soli soggetti ritenuti portatori della c.d. pericolosità generica.

Le misure patrimoniali, pertanto, potevano essere emesse soltanto ove l'attività delittuosa -da cui derivavano i proventi- fosse riconducibile a una di quelle previste dagli articoli 629,630, 644, 648-bis e 648-ter del codice penale ovvero al delitto di contrabbando.

Non rientrando i delitti di furto, ricettazione e rapina – che erano quelli ascritti in concreto ai proposti – tra quelli tassativamente previsti dalla legge quali reati presupposto della confisca, si era deciso di revocare il sequestro anticipato, ritenendo la confisca non applicabile nella fattispecie concreta in ragione delle limitazioni normative appena indicate.

A fronte di nuova proposta patrimoniale i giudici di merito torinesi hanno osservato in primo luogo che la revoca del sequestro era stata – a suo tempo – disposta per ragioni tecnico-giuridiche e non per motivi di merito.

Non vi era stata una valutazione negativa, una cognizione preclusiva di un nuovo giudizio poiché nel pregresso procedimento – che si era concluso con la reiezione della misura ablativa – non vi era stata alcuna valutazione con riguardo agli elementi di fatto posti a fondamento della domanda di applicazione della misura patrimoniale, né nel precedente giudizio di prevenzione era stata svolta alcuna verifica circa la sussistenza dei presupposti per una eventuale confisca.

I giudici di merito hanno quindi ritenuto insussistente qualunque preclusione ascrivibile a un giudicato relativamente alla confisca, confisca che – come si è già detto – non era stata disposta nel precedente giudizio di prevenzione solo per motivi di natura formale e tecnico giuridica ritenuti ostativi, nella specie la carenza dei delitti presupposto.

Questa pronuncia di merito è stata condivisa in toto dal Supremo Collegio che ha affermato come la mancata valutazione di profili di merito rendeva possibile una nuova valutazione dei fatti posti a fondamento della successiva richiesta di confisca alla luce dello ius supeveniens che ha fatto venir meno i limiti a suo tempo ritenuti vigenti (per carenza dei delitti presupposto) con ciò richiamandosi ai principi già affermati (e di cui si è già detto) dalla Cass. pen., Sez. unite, n. 36/2000, Madonia.

E infatti, con riguardo a quest'ultimo profilo, i giudici di merito hanno ritenuto superabile la preclusione potenzialmente indotta del giudicato – questione che era stata sollevata dalla difesa- proprio alla luce del mutato quadro normativo e delle modifiche introdotte dal d.l. 92/2008, conv. l. 125/2008.

E infatti, con l'abrogazione dell'art. 14 I. 55/1990 (che limitava l'applicabilità della confisca ai proventi dei reati di cui agli artt. 629, 630, 648-bis e 648-ter c.p.), veniva estesa l'applicabilità della confisca antimafia anche ai soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi o che vivono anche in parte con i proventi di attività delittuose, con nuova espansione dell'area di operatività dell'art. 19 I. 152/1975, una volta venute meno le restrittive e tassative previsioni dell'art. 14l.55/1990 (cfr. sul punto Cass. pen.,Sez.unite,25 marzo 2010, n. 13426, Cagnazzo).

In conclusione il mutato quadro normativo è stato ritenuto l'elemento davvero nuovo che ha reso possibile una decisione di accoglimento della misura della confisca (che era stata ritenuta preclusa nel precedente procedimento di prevenzione), rendendo ammissibile e non preclusa la nuova domanda, formulata in base al novum di cui al d.lgs. 159/2011, anche in assenza di elementi di fatto nuovi, e ciò per la natura esclusivamente processuale che avevano condotto a suo tempo i giudici a rigettare la richiesta.

Abbiamo già detto che la peculiare natura giuridica della confisca di prevenzione, considerata pacificamente come atipica misura di sicurezza, consente, ai sensi dell'art. 200 c.p., l'applicazione retroattiva anche a fattispecie concrete antecedenti al momento dell'applicazione, e ciò alla luce dei principi espressi dalle Sezioni unite (n. 4880 del 2015, Spinelli) che hanno affermato: «le modifiche introdotte nell'art. 2-bis della l. 575/1965,dalle l. 125/2008 e l. 94/2009, non hanno modificato la natura preventiva della confisca emessa nell'ambito del procedimento di prevenzione, sicché rimane tuttora valida l'assimilazione dell'istituto alle misure di sicurezza e, dunque, l'applicabilità, in caso di successioni di leggi nel tempo, della previsione di cui all'art. 200 c.p.».

Da questi principi consegue l'applicazione della legge vigente al momento della decisione, anche se in pejus rispetto al tempo di commissione da parte del proposto delle condotte che costituiscono il presupposto per l'applicazione del provvedimento ablatorio.

È stata quindi ritenuta infondata l'eccepita violazione del divieto di bis in idem.

Nel corpus motivazionale la citata Cass., Sez. VI, n. 34973 del 23 luglio 2018 ha espressamente richiamato un'ulteriore pronuncia di legittimità e cioè la Cass.Sez. 1, n. 13375 del 20/09/2017, dep. 2018, Brussolo e altri.

In questa sentenza era stato enunciato il conforme principio di diritto secondo cui, in sede di prevenzione patrimoniale, l' esistenza di decisioni reiettive della proposta di confisca emesse con riferimento alle previsioni di cui all'art. 14 della legge n.55 del 1990, allora vigente (nella parte in cui detta disposizione limitava la confiscabilità a talune ipotesi di pericolosità generica) non osta alla trattazione, in epoca successiva all'emanazione del d.l. 92/2008, di un nuovo procedimento preventivo nel cui ambito possono certamente essere oggetto di confisca – ferma restando la sussistenza dei relativi presupposti- í beni riferibili al soggetto ritenuto portatore di pericolosità relativamente a condotte di reato - come la rapina – che in precedenza non erano ricomprese nell'ambito della potenziale confiscabilità nei casi di pericolosità generica.

Sempre nel contesto della sentenza Brussolo appena richiamata emergono ulteriori principi di diritto che meritano di essere segnalati .

È stato, infatti , affermato che la nuova proposta di confisca deve ritenersi introduttiva di un nuovo ed autonomo procedimento, procedimento che deve ritenersi disciplinato dalle disposizioni vigenti alla data del suo deposito (d.lgs. 159/2011).

Non si è ritenuto, infatti, condivisibile – come era stato eccepito dalla difesa – una “qualificazione” della “nuova” proposta ablativa in termini di mera “prosecuzione” dei giudizi già a suo tempo definiti.

La S.C. ha precisato al riguardo che una sua assimilazione ad una richiesta di revoca delle statuizioni reiettive definitive parte certamente da un presupposto erroneo poiché l'istituto della revoca ex tunc (secondo i principi a suo tempo espressi con la pronuncia delle Sez. Un.1998 Piscoe da ulteriori sentenze conformi) va a “coprire” l'area della possibile rivalutazione, su istanza del proposto e per fatti sopravvenuti, dei contenuti di merito della prima decisione applicativa della misura, lì dove l'intervento dell'autorità proponente può essere peggiorativo, ma solo in termini di aggravamento della misura già applicata (ai sensi del previgente art. 7 l. 1423/1956, attuale art. 11 d.lgs. 159/2011).

Da ciò se ne deduce che, nell'ipotesi di provvedimento reiettivodella proposta applicativa della misura di prevenzione, una nuova «azione» dell'autorità proponente non è mai qualificabile in termini di revoca (o di revocazione) della statuizione definitiva ma segna l'apertura di una «nuova» procedura, la cui disciplina deve essere ancorata alle disposizioni vigenti al momento della sua promozione.

Ovviamente resta impregiudicata la possibilità di utilizzare, a fini della decisione, tutto il materiale cognitivo già emerso nei procedimenti già definiti, se ed in quanto venga pienamente garantito il contraddittorio nell'ambito del «nuovo» procedimento.

In conclusione

Il quadro giurisprudenziale come sopra delineato può definirsi consolidato.

Come si è visto non vi sono oscillazioni significative avuto riguardo ai principi tracciati dalla più volte richiamata sentenza Madonia del 2001.

Non possono che apprezzarsi e condividersi gli sforzi compiuti dalla giurisprudenza di merito e di legittimità per giungere a tale approdo ermeneutico.

Resta tuttavia aperta una questione di fondo già posta, sotto altri profili, in altri contributi proposti in questa stessa Rivista nel settore delle misure di prevenzione e in particolare: il Legislatore può omettere di disciplinare una tematica così delicata e lasciare che sia la giurisprudenza a colmare vuoti normativi tanto rilevanti?

Va dato atto, al riguardo, di come i più recenti interventi normativi non abbiano in alcun modo affrontato il profilo oggetto specifico di questo contributo nonché altri profili non meno rilevanti quali quello, ad esempio, della pericolosità generica.

E infatti la nota decisione della Corte Edu De Tommaso contro Italia ha, tra l'altro, censurato proprio l'eccessiva discrezionalità del giudice di prevenzione italiano.

A fronte di ciò non sarebbe “peregrino” invitare il legislatore a recepire sic et simpliciter i principi espressi dalla Corte di cassazione, come già accaduto in altre occasioni, da ultimo in tema di evasione fiscale (art. 24 comma primo d.lgs. 159/2011 come novellato dalla l. 161/2017)

La “posta in gioco” è quella della certezza del diritto.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario