Danno da perdita del convivente risarcibile anche senza coabitazione
03 Settembre 2018
Massima
In tema di risarcimento del danno da perdita della vita del convivente, ai fini dell'accertamento dell'esistenza della convivenza more uxorio - intesa quale legame affettivo stabile e duraturo in virtù del quale siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale - i requisiti della gravità, precisione e concordanza degli elementi presuntivi devono essere ricavati dal complesso degli indizi (tra i quali la coabitazione) da valutarsi non atomisticamente ma nel loro insieme e l'uno per mezzo degli altri, nel senso che ognuno, quand'anche singolarmente sfornito di valenza indiziaria, potrebbe rafforzare e trarre vigore dall'altro in un rapporto di vicendevole completamento. Il caso
Tizia incardinava un giudizio innanzi al Tribunale di Como per conseguire il risarcimento del danno patito a seguito del decesso del suo convivente, Caio, avvenuto nell'anno 2007, allorquando lo stesso, mentre stava espletando attività lavorativa, precipitava nel vano ascensore dell'immobile di proprietà della società committente. Il Tribunale adito rigettava la domanda ritenendo non adeguatamente provata la convivenza more uxorio. Tale decisione veniva confermata dalla Corte d'appello che rilevava che gli elementi probatori raccolti in giudizio se da un lato testimoniavano serietà di impegno e regolarità di frequentazione nel tempo, dall'altro non erano sufficienti ad attestare un legame di convivenza che avesse le caratteristiche di continuità e di stabilità quali evidenziate dalla giurisprudenza di legittimità. Avverso tale pronuncia Tizia proponeva ricorso in Cassazione, che veniva accolto con rinvio alla Corte di appello di Milano affinchè rivalutasse la domanda risarcitoria. La questione
Quando una relazione sentimentale integra gli estremi di una convivenza more uxorio? È necessaria la coabitazione? Quale efficacia probatoria possono assumere gli indizi per pervenire alla conclusione della sussistenza di una convivenza more uxorio? Le soluzioni giuridiche
Nel pervenire a tale decisione i giudici di legittimità hanno censurato il modus operandi della Corte d'appello milanese nella valutazione del materiale probatorio raccolto:
La Suprema Corte evidenzia che da una pluralità di elementi che costituiscono indici rilevanti in ordine alla configurabilità di una determinata situazione produttiva di ricadute giuridicamente rilevanti, essi non possono essere poi presi in considerazione atomisticamente, ma devono essere considerati nella loro unitarietà e nella loro interazione l'uno con l'altro. La prova presuntiva (o indiziaria) esige che il giudice prenda in esame tutti i fatti noti emersi nel corso dell'istruzione, valutandoli nel loro insieme e gli uni per mezzo degli altri. È, pertanto, erroneo l'operato del giudice di merito il quale, al cospetto di plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga, autonomamente, a dignità di prova (v. Cass. n. 7303/2012; v. anche Cass. n. 26022/2011, recentemente richiamata da Cass. n. 12022/2017; v. anche Cass. n. 5374/2017). In secondo luogo, la Suprema Corte censura la erroneità della nozione di convivenza di fatto recepita dalla Corte d'appello milanese nel rigettare la domanda di Tizia. Dopo aver premesso che la convivenza more uxorio è meritevole di tutela giuridica di eguale misura di una famiglia fondata sul matrimonio, richiamando i propri precedenti in materia (segnatamente Cass. n. 23725/2008) i giudici di legittimità enunciano una nozione moderna di convivenza, che prescinde dalla coabitazione. A supporto si sottolinea che la coabitazione è stata finora indicata come un indice rilevante e ricorrente dell'esistenza di una famiglia di fatto, individuando l'esistenza di una casa comune all'interno della quale si svolge il programma di vita comune, ma non è stato peraltro ritenuto un elemento imprescindibile, la cui mancanza, di per sé, fosse determinante al fine di escludere la configurabilità della convivenza (Cass. n. 7128/2013); infatti, occorre prendere atto del mutato assetto della società, dal quale emerge che ai fini della configurabilità di una convivenza di fatto, il fattore coabitazione è destinato ad assumere ormai un rilievo recessivo rispetto al passato, considerando che:
A ciò occorre aggiungere la maggiore facilità ed economicità sia dei contatti telefonici e a video che dei trasporti. Si tratta di fattori di un cambiamento sociale che è ormai verificato nella società a cagione dei quali oramai si instaurano e mantengono rapporti affettivi stabili a distanza con frequenza molto maggiore che in passato (non solo nella famiglie di fatto ma, ugualmente, anche all'interno delle famiglie fondate sul matrimonio) e devono indurre a ripensare il concetto stesso di convivenza, la cui essenza non può appiattirsi sulla coabitazione. Esistono anche realtà in cui le famiglie, siano esse di fatto o fondate sul matrimonio, si formano senza avere neppure, per un periodo di tempo più o meno lungo, una casa comune, intesa come casa dove si svolge la vita della famiglia, in quanto ognuno dei due partner è tenuto per i propri impegni professionali o per particolari esigenze personali, a vivere o a trascorrere la gran parte della settimana o del mese in un luogo diverso dall'altro. La Suprema Corte conclude il ragionamento richiamando la nozione di convivenza di fatto individuata nella legge n. 76/2016. Osservazioni
Occorre premettere che il richiamo all'art. 1, comma 36, l. n. 76/2016, che offre la nozione giuridica di convivenza di fatto, è stato fatto dall'estensore dell'ordinanza in commento solo per dotare l'impianto motivazionale di maggiore efficacia persuasiva, in quanto i fatti storici da cui Tizia inferirebbe il suo diritto al risarcimento del danno per la perdita prematura e violenta del partner sono antecedenti al varo della predetta legge; quindi la controversia deve essere valutata secondo i principi giurisprudenziali antecedenti. Fatta questa premessa metodologica, si osserva che l'ordinanza in commento non presenta carattere di novità assoluta nel panorama giurisprudenziale, ma si colloca nell'alveo di orientamenti ermeneutici già enunciati in un prospettiva di rafforzamento e di consolidamento degli stessi. La nozione e i caratteri costitutivi tipici del fenomeno della convivenza more uxorio furono pensati e descritti dalla Suprema Corte in sentenza Cass. n. 2988/1994 ove si è affermato che il diritto al risarcimento da fatto illecito concretatosi in un evento mortalespettaanche al convivente more uxorio del defunto stesso, quando risulti concretamente dimostrata siffatta relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale. Quindi, laddove una relazione sentimentale acquisisca i requisiti di tendenziale stabilità, condivisione di vita quotidiana e mutua assistenza, si configura quale convivenza more uxorio, e acquisisce dignità e rilevanza giuridica divenendo un surrogato del modello di famiglia tradizionale, come tale suscettibile di attribuire al partner diritti omologhi a quelli riservati a un coniuge, tra cui il diritto al risarcimento del danno conseguente al decesso del compagno originato dal fatto di terzi. Il principio enunciato in tale sentenza è stato successivamente confermato in Cass. n. 23725/2008; Cass. n. 12278/2011 e soprattutto in Cass. n. 7128/2013, ove, per la prima volta, si afferma che ai fini della configurazione di una convivenza more uxorio si prescinde dalla coabitazione (in motivazione «Integra di per sé un danno risarcibile ex art. 2059 c.c. - giacché lede un interesse della persona costituzionalmente rilevante, ai sensi dell'art. 2 Cost. - il pregiudizio recato al rapporto di convivenza, da intendere quale stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti, anche quando non sia contraddistinto da coabitazione»). Quest'accezione moderna di convivenza che prescinde dalla coabitazione quotidiana nasce dalla considerazione che le esigenze lavorative dettate dalla flessibilità del mercato del lavoro e quelle famigliari (accudimento di genitori anziani e malati ad esempio) hanno comportato un mutamento sociale per il quale coppie affiatate e unite, a prescindere dalla veste formale o meno dell'unione, sono obbligate a trascorrere determinati periodi in luoghi differenti. Oramai questo mutamento sociale è divenuto un assioma: la giurisprudenza e la legislazione (cfr. art. 1, comma 36, l. n. 76/2016 che nel definire il rapporto tra conviventi di fatto non richiama espressamente il requisito della coabitazione) si sono adeguati, ponendo l'attenzione sui caratteri della stabilità del vincolo affettivo e della condivisione dei modelli, stili di vita e della mutua assistenza sia morale, affettiva che patrimoniale. In chiave critica occorre solo evidenziare che i richiami fatti dalla Cassazione alla nozione di convivenza stabile che prescinde dalla coabitazione sono ultronei ed irrilevanti nella fattispecie giudicata. Infatti, i giudici di merito hanno negato la stabilità della relazione basandosi sul dato formale della residenza del de cuius in un Comune diverso da quello dell'attrice, non tenendo conto dei plurimi indizi offerti dall'attrice, che, se valutati in modo globale e non atomistico, inducono a ritenere che Tizia e il defunto Caio coabitassero stabilmente e quotidianamente nella casa di lei, a prescindere dalla residenza formale. Tuttavia, l'ordinanza merita di essere segnalata perché costituisce un ulteriore passo in avanti in direzione del consolidamento in giurisprudenza di una rinnovata accezione di convivenza more uxorio. Certo è che, se alla fumosa definizione contenuta nell'art. 1, comma 34, l. n. 76/2016 («(…) “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile») si aggiunge la irrilevanza/non decisività del requisito della coabitazione, si perviene all'amara e necessitata conclusione che la configurabilità di una convivenza di fatto discende dalla sensibilità e dall'apprezzamento delle circostanze concrete di ogni singolo giudice, che di fronte a criteri direttivi normativi troppo generici, può esercitare un sindacato valutativo pressochè illimitato, con buona pace delle esigenze di certezza del diritto e di parità di trattamento. |