Ordinamento penitenziario. La riforma incompiuta

Fabio Fiorentin
01 Ottobre 2018

Alla base della decisione politica di promuovere e sostenere una riforma che, nelle intenzioni dell'originario proponente, doveva assurgere a “riforma di sistema” per l'ampiezza della prospettiva e l'organicità dell'intervento, stava l'idea di superare la politica emergenziale, di piccolo cabotaggio e di ancor più ridotte aspirazioni, che aveva caratterizzato gli interventi in materia penitenziaria...
Abstract

Alla base della decisione politica di promuovere e sostenere una riforma che, nelle intenzioni dell'originario proponente, doveva assurgere a “riforma di sistema” per l'ampiezza della prospettiva e l'organicità dell'intervento, stava l'idea di superare la politica emergenziale, di piccolo cabotaggio e di ancor più ridotte aspirazioni, che aveva caratterizzato gli interventi in materia penitenziaria successivi alla stagione riformatrice che aveva visto nascere l'ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n.354, c.d. ordinamento penitenziario e legge 10 ottobre 1986, n. 663, c.d. legge Gozzini).

Chiusasi quella parentesi, la politica penitenziaria italiana ha seguito un andamento ondivago, alternando modifiche del sistema penitenziario mirate all'obiettivo della decompressione del sovraffollamento penitenziario, favorendo soluzioni alternative all'ingresso dei condannati (e degli imputati) nel circuito carcerario (a es., il d.l. 22 dicembre 2011, n.211, c.d. decreto Severino, il d.l. 1° luglio 2013, n.78, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n.94),) e – in un una prospettiva più generale – alla “decarcerizzazione” dell'esecuzione penale (quale a es. la riforma introdotta con la legge 23 maggio 1998, n.165, c.d. legge Simeone, la l. 19 dicembre 2002, n. 277 in materia di liberazione anticipata, la l. 26 novembre 2010, n.199, c.d. legge Alfano, il d.l. 23 dicembre 2013, n.146 conv. con modif. dalla l. 21 febbraio 2014, n.10) a politiche di segno opposto, ispirate alle esigenze di difesa sociale (a es. la legge 5 dicembre 2005, 251, c.d. legge ex Cirielli).

Tale esiziale “politica del pendolo”, ispirata a inseguire il consenso dell'opinione pubblica piuttosto che a perseguire una visione globale e lungimirante delle riforme che sarebbe stato indispensabile varare per la messa a punto dell'esecuzione della pena alla luce delle coordinate costituzionali (della cui evidente necessità sono palese testimonianza le numerose pronunce della Corte costituzionale che – con una impressionante continuità – colpiscono le disposizioni della legge 354/1975), ha contribuito in modo determinante alla crisi sistemica del sistema penitenziario, esplosa nel gennaio del 2013 con l'umiliante condanna della Corte di Strasburgo (sentenza Torreggiani), sigillo drammatico del fallimento del nostro modello di esecuzione penale.

La crisi del sistema penitenziario italiano

Con il pilot judgement dell'8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia(Cedu, Sez. II, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c./ Italia,nn.43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10, 37818/10), i giudici di Strasburgo hanno, infatti, accertato la situazione di patologico sovraffollamento degli istituti di pena italiani e la lesione sistemica dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo da parte dell'Italia, dopo avere constatato che il nostro Paese non riusciva a garantire condizioni di detenzione accettabili e dignitose, in particolare sotto il profilo della garanzia della disponibilità di uno spazio minimo personale per ciascun detenuto di almeno 3 mq.

La Corte europea ha, altresì, imposto di introdurre, nel termine stringente di un anno, le riforme legislative e gli interventi strutturali idonei ad assicurare condizioni materiali di detenzione conformi agli standard europei e una efficace tutela per quanti subissero una detenzione inumana e degradante, tale da violare l'art. 3 Cedu.

La “questione penitenziaria” apertasi in seguito alla sentenza di Strasburgoha determinato numerose personalità della politica, tra cui il Guardasigilli di allora, nella consapevolezza della non rinviabilità delle necessarie scelte, a intraprendere un percorso di riforma del nostro sistema penitenziario, con l'obiettivo di una riforma dell'esecuzione penale e penitenziaria che fosse coerente con la priorità di “mettere in sicurezza” il sistema italiano rispetto ai rilievi europei e, al tempo stesso, potesse sviluppare e portare a compimento l'originario disegno – già ben presente in nuce nella riforma penitenziaria introdotta con la legge del 1975 – volto a costruire un modello di pena effettivamente informato al principio rieducativo scolpito nell'art. 27, comma 3, della Carta costituzionale.

L'avvio di un percorso riformatore

È stata proprio la “questione penitenziaria” apertasi in seguito alla sentenza Torreggiani, infatti, a determinare il Guardasigilli dell'epoca a presentare un d.d.l. delega per la riforma dell'ordinamento penitenziario (originariamente: d.d.l. n. 2798, che all'articolo 29 prevedeva la Delega al Governo per la riforma del processo penale e dell'ordinamento penitenziario), nell'intento di rendere più efficaci le procedure e assicurare il rispetto dei diritti fondamentali delle persone sottoposte a esecuzione di pena, così da scongiurare il rischio che possano in futuro riprodursi le condizioni che hanno provocato la condanna dell'Italia in sede europea.

In questa prospettiva “costituente”, il percorso parlamentare del progetto di legge delega di riforma in materia penitenziaria è stato affiancato e corroborato dall'attività degli Stati Generali dell'esecuzione penale, laboratorio culturale composto da professori, magistrati, avvocati, operatori penitenziari, rappresentanti di associazioni, professionisti, ministri di culto, istituito tra il 2015 e il 2016 presso il Ministero della giustizia con l'obiettivo di contribuire, sul versante culturale e scientifico, alla formulazione di proposte di intervento e di modifica dellanormativa afferente alla materia penitenziaria e di sensibilizzare l'opinione pubblica sull'oggetto della riforma, nella consapevolezza dello scarso appeal che le tematiche dell'umanizzazione dell'esecuzione penale e del carcere tradizionalmente ispirano all'opinione pubblica, ben più propensa a prestare ascolto – soprattutto nell'attuale contesto di percepita insicurezza - ai richiami “vestiti di ferro” di politiche ispirate alle esigenze di difesa sociale.

Il tormentato iter legislativo è stato coronato dall'approvazione della leggedelega 23 giugno 2017, n. 103 che, per quanto concerne la riforma penitenziaria, contiene princìpi e criteri direttivi inseriti nel comma 85 dell'articolo unico di cui consiste.

La legge delega 23 giugno 2017, n. 103

La legge delega 23 giugno 2017, n. 103, recante Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario, rappresenta dunque, nella sua definitiva versione (un articolo unico, frutto del maxiemendamento AS-2067-A approvato al Senato), un passaggio riformatore tra i più significativi degli ultimi anni, sia per la sua ampiezza sistematica (oltre alla materia penitenziaria, sono toccati il codice penale, il codice processuale penale, il diritto minorile, la giustizia riparativa, le misure di sicurezza) sia, anche e soprattutto, per la sua aspirazione a “volare alto”.

Nelle direttive enunciate per la materia penitenziaria, in particolare, è ben evidente la duplice aspirazione a imprimere rinnovata efficienza a un sistema di esecuzione penale in profonda crisi e a porsi quale “riforma di princìpi” per la messa a punto costituzionale dell'esecuzione penitenziaria, implementando le possibilità di accesso alle forme di espiazione della pena alternative al carcere e assicurando alle persone detenute quella effettiva fruibilità di dei diritti fondamentali che il rispetto dell'art. 3 Cedu (e dell'art. 27 della nostra Costituzione) esige.

Le coordinate di principio della legge delega. La sensibilità del Legislatore delegante all'esigenza di un allineamento dell'ordinamento penitenziario alle coordinate della umanizzazione e dell'attitudine rieducativa della pena iscritte nella evocata disposizione costituzionale è, infatti, un'evidenza che emerge con insistita frequenza nei princìpi e criteri direttivi dettati in relazione alla riforma delle misure di sicurezza, della legge di ordinamento penitenziario (l. 26 luglio 1975, n.354) e dell'ordinamento penitenziario minorile: si pensi alle direttive sulle condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione – anche con riferimento alla eliminazione delle preclusioni che impediscono o rendono più difficile per gli autori di determinate specie di reati, l'accesso ai benefici penitenziari – all'introduzione di strumenti di giustizia riparativa, al lavoro penitenziario, al volontariato, alla tutela della salute e delle esigenze affettive dei soggetti ristretti, senza dimenticare quella vera e propria “riforma nella riforma” che punta alla nascita di un ordinamento penitenziario per i condannati minorenni.

L'eco, ancora ben presente e attuale, dell'umiliazione subìta dall'Italia in sede europea in seguito alla procedura di infrazione solo recentemente chiusa, risuona nell'altro elemento caratterizzante la riforma penitenziaria: la ricerca di soluzioni normative per l'implementazione dell'efficienza del sistema penitenziario attraverso la ricalibratura di procedure e meccanismi di accesso alle misure ed ai benefici penitenziari, ponendo le condizioni per il sempre maggiore sviluppo delle forme di esecuzione alternative al carcere e, in altri termini, di un modello di esecuzione penale non solo più “giusto” nella prospettiva costituzionale, ma anche più “utile” ad evitare il riproporsi di condizioni di sovraffollamento carcerario che porterebbero inevitabilmente a nuove crisi in ambito internazionale: è evidente, infatti, che il rapporto di reciproca fiducia tra gli Stati membri dell'Unione Europea che sta alla base del c.d. principio del mutuo riconoscimento, a sua volta perno fondamentale della cooperazione giudiziaria transnazionale in materia penale, è suscettibile di grave compromissione nei confronti dello Stato il cui sistema penitenziario risulti non garantire condizioni detentive conformi all'art. 3 Cedu, così da integrare quelle “serie ragioni” per ritenere che l'esecuzione di una richiesta di collaborazione sia incompatibile con gli obblighi dello Stato destinatario della richiesta stessa (cioè, con il dovere di osservare i diritti fondamentali degli individui garantiti dalla Carta di Nizza, dalla Cedu e dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati), inducendo al rifiuto di esecuzione di richieste formulate dall'Italia in materia di Mae o di Eio. In altri termini, la violazione del diritto eurounitario sotto il profilo delle condizioni carcerarie praticate e, in particolare, il concreto pericolo che il soggetto detenuto un istituto penitenziario del nostro Paese possa essere esposto a trattamenti inumani e degradanti, vincerebbe la “presunzione di conformità” degli ordinamenti di tutti gli Stati membri al diritto comune europeo, minando il rapporto di fiducia reciproca e portando all'interruzione della collaborazione giudiziaria transanazionale. Tale problematica si è già posta con riguardo all'esecuzione del MAE e, in tale ambito, la Corte digiustizia Ue, Grande Sezione, 5 aprile 2016, Aranyosi e Căldăraru, C-404/15 e C-659/15, § 86 ss., ha stabilito, in rapporto all'esecuzione del mandato che l'autorità di esecuzione deve valutare, “in modo concreto e preciso”, se sussistono “motivi gravi e comprovati” di ritenere che l'interessato corra il rischio di trattamento inumano o degradante dovuto alle condizioni generali di detenzione nello Stato di emissione del Mae e, in tali ipotesi, deve rifiutare di darvi esecuzione.

Da un punto di vista generale, il contributo degli Stati Generali emergein molte delle scelte politiche poi tradottesi nei criteri di delega, i cui tratti fondamentali sottendono i princìpi di “stretta necessità” del ricorso alla pena detentiva, la finalizzazione rieducativa della medesima, la rinuncia all'opzione carceraria come perno fondamentale dell'esecuzione penale e la concezione del carcere stesso – nella misura in cui esso è comunque necessario anche in una società democratica ispirata ai valori costituzionali – come istituzione destinata ad offrire concrete opportunità per i condannati mediante un percorso connotato dal rispetto dei diritti fondamentali della persona limitata nella libertà personale e del suo coinvolgimento e responsabilizzazione nel percorso di ricollocamento nella società civile.

Nel corso dell'iter parlamentare di approvazione, tuttavia, questa originaria forza propulsiva si è in molti tratti inaridita, lasciando il campo a rinunce ad esercitare la delega su molti punti se non a vere e proprie “retromarce” (spiccano soprattutto alcuni “paletti” inseriti in tema di superamento del “doppio binario” penitenziario). La timida soluzione compromissoria in molti casi adottata per condurre a sintesi istanze dialetticamente contrapposte ha, inoltre, prodotto un effetto di perniciosa genericità nella formulazione delle direttive di delega.

I principi e criteri direttivi introdotti dalla legge delega in materia di riforma dell'ordinamento penitenziario (art. 1, l. 23 giugno 2017, n. 103)

Art. 1.

(Omissis)

16. Il Governo è delegato ad adottare, nel termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, decreti legislativi per la modifica della disciplina del regime di procedibilità per taluni reati e delle misure di sicurezza personali e per il riordino di alcuni settori del codice penale, secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:

(Omissis)

c) revisione della disciplina delle misure di sicurezza personali ai fini della espressa indicazione del divieto di sottoporre a misure di sicurezza personali per fatti non preveduti come reato dalla legge del tempo in cui furono commessi; rivisitazione, con riferimento ai soggetti imputabili, del regime del cosiddetto «doppio binario», prevedendo l'applicazione congiunta di pena e misure di sicurezza personali, nella prospettiva del minor sacrificio possibile della libertà personale, soltanto per i delitti di cui all'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale e prevedendo comunque la durata massima delle misure di sicurezza personali, l'accertamento periodico della persistenza della pericolosità sociale e la revoca delle misure di sicurezza personali quando la pericolosità sia venuta meno; revisione del modello definitorio dell'infermità, mediante la previsione di clausole in grado di attribuire rilevanza, in conformità a consolidate posizioni scientifiche, ai disturbi della personalità; previsione, nei casi di non imputabilità al momento del fatto, di misure terapeutiche e di controllo, determinate nel massimo e da applicare tenendo conto della necessità della cura, e prevedendo l'accertamento periodico della persistenza della pericolosità sociale e della necessità della cura e la revoca delle misure quando la necessità della cura o la pericolosità sociale siano venute meno; previsione, in caso di capacità diminuita, dell'abolizione del sistema del doppio binario e previsione di un trattamento sanzionatorio finalizzato al superamento delle condizioni che hanno diminuito la capacità dell'agente, anche mediante il ricorso a trattamenti terapeutici o riabilitativi e l'accesso a misure alternative, fatte salve le esigenze di prevenzione a tutela della collettività;

d) tenuto conto dell'effettivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e dell'assetto delle nuove residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), previsione della destinazione alle REMS prioritariamente dei soggetti per i quali sia stato accertato in via definitiva lo stato di infermità al momento della commissione del fatto, da cui derivi il giudizio di pericolosità sociale, nonché dei soggetti per i quali l'infermità di mente sia sopravvenuta durante l'esecuzione della pena, degli imputati sottoposti a misure di sicurezza provvisorie e di tutti coloro per i quali occorra accertare le relative condizioni psichiche, qualora le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati non siano idonee, di fatto, a garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi, con riferimento alle peculiari esigenze di trattamento dei soggetti e nel pieno rispetto dell'articolo 32 della Costituzione.

(Omissis)

85. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, nell'esercizio della delega di cui al comma 82, i decreti legislativi recanti modifiche all'ordinamento penitenziario, per i profili di seguito indicati, sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

a) semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione;

b) revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale;

c) revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative, prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell'ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni e che il procedimento di sorveglianza garantisca il diritto alla presenza dell'interessato e la pubblicità dell'udienza;

d) previsione di una necessaria osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà, stabilendone tempi, modalità e soggetti chiamati a intervenire; integrazione delle previsioni sugli interventi degli uffici dell'esecuzione penale esterna; previsione di misure per rendere più efficace il sistema dei controlli, anche mediante il coinvolgimento della polizia penitenziaria;

e) eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono ovvero ritardano, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l'individualizzazione del trattamento rieducativo e la differenziazione dei percorsi penitenziari in relazione alla tipologia dei reati commessi e alle caratteristiche personali del condannato, nonché revisione della disciplina di preclusione dei benefìci penitenziari per i condannati alla pena dell'ergastolo, salvo che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità specificatamente individuati e comunque per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale;

f) previsione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell'esecuzione delle misure alternative;

g) incremento delle opportunità di lavoro retribuito, sia intramurario sia esterno, nonché di attività di volontariato individuale e di reinserimento sociale dei condannati, anche attraverso il potenziamento del ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterna, aggiornando quanto il detenuto deve a titolo di mantenimento;

h) previsione di una maggiore valorizzazione del volontariato sia all'interno del carcere, sia in collaborazione con gli uffici dell'esecuzione penale esterna;

i) disciplina dell'utilizzo dei collegamenti audiovisivi sia a fini processuali, con modalità che garantiscano il rispetto del diritto di difesa, sia per favorire le relazioni familiari;

l) revisione delle disposizioni dell'ordinamento penitenziario alla luce del riordino della medicina penitenziaria disposto dal decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230, tenendo conto della necessità di potenziare l'assistenza psichiatrica negli istituti di pena;

m) previsione della esclusione del sanitario dal consiglio di disciplina istituito presso l'istituto penitenziario;

n) riconoscimento del diritto all'affettività delle persone detenute e internate e disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio;

o) previsione di norme che favoriscano l'integrazione delle persone detenute straniere;

p) adeguamento delle norme dell'ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minori di età secondo i seguenti criteri:

  1. giurisdizione specializzata e affidata al tribunale per i minorenni, fatte salve le disposizioni riguardanti l'incompatibilità del giudice di sorveglianza che abbia svolto funzioni giudicanti nella fase di cognizione;
  2. previsione di disposizioni riguardanti l'organizzazione penitenziaria degli istituti penali per minorenni nell'ottica della socializzazione, della responsabilizzazione e della promozione della persona;
  3. previsione dell'applicabilità della disciplina prevista per i minorenni quantomeno ai detenuti giovani adulti, nel rispetto dei processi educativi in atto;
  4. previsione di misure alternative alla detenzione conformi alle istanze educative del condannato minorenne;
  5. ampliamento dei criteri per l'accesso alle misure alternative alla detenzione, con particolare riferimento ai requisiti per l'ammissione dei minori all'affidamento in prova ai servizi sociali e alla semilibertà, di cui rispettivamente agli articoli 47 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni;
  6. eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefìci penitenziari, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell'individuazione del trattamento;
  7. rafforzamento dell'istruzione e della formazione professionale quali elementi centrali del trattamento dei detenuti minorenni;
  8. rafforzamento dei contatti con il mondo esterno quale criterio guida nell'attività trattamentale in funzione del reinserimento sociale;

q) attuazione, sia pure tendenziale, del principio della riserva di codice nella materia penale, al fine di una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell'effettività della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l'intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai princìpi costituzionali, attraverso l'inserimento nel codice penale di tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore che abbiano a diretto oggetto di tutela beni di rilevanza costituzionale, in particolare i valori della persona umana, e tra questi il principio di uguaglianza, di non discriminazione e di divieto assoluto di ogni forma di sfruttamento a fini di profitto della persona medesima, e i beni della salute, individuale e collettiva, della sicurezza pubblica e dell'ordine pubblico, della salubrità e integrità ambientale, dell'integrità del territorio, della correttezza e trasparenza del sistema economico di mercato;

r) previsione di norme volte al rispetto della dignità umana attraverso la responsabilizzazione dei detenuti, la massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna, la sorveglianza dinamica;

s) revisione delle norme vigenti in materia di misure alternative alla detenzione al fine di assicurare la tutela del rapporto tra detenute e figli minori e di garantire anche all'imputata sottoposta a misura cautelare la possibilità che la detenzione sia sospesa fino al momento in cui la prole abbia compiuto il primo anno di età;

t) previsione di norme che considerino gli specifici bisogni e diritti delle donne detenute;

u) revisione del sistema delle pene accessorie improntata al principio della rimozione degli ostacoli al reinserimento sociale del condannato ed esclusione di una loro durata superiore alla durata della pena principale;

v) revisione delle attuali previsioni in materia di libertà di culto e dei diritti ad essa connessi.

86. Il Governo è delegato ad adottare, nei termini e con la procedura di cui al comma 83, decreti legislativi recanti le norme di attuazione delle disposizioni previste dai commi 84 e 85 e le norme di coordinamento delle stesse con tutte le altre leggi dello Stato, nonché le norme di carattere transitorio.

(Omissis)

Il 41-bis escluso dalla riforma

Un indirizzo politico tranchant è stato adottato con riguardo a quello che appare il vero “convitato di pietra” della riforma: il regime detentivo speciale del 41-bis, alla cui disciplina il delegante si riferisce ma solo per porre il veto a ogni intervento che potesse, anche indirettamente, modificarne l'assetto vigente. Tale radicale esclusione trova espressione nell'incipit della delega penitenziaria (comma 85, art. 1), che contiene un'espressa clausola eccettuativa, tale da rendere insensibile, rispetto alle modifiche normative che verranno attuate dal Governo, la disciplina del “carcere duro”.

Non è troppo importante – a questo punto – se siano state determinanti le pressioni di quanti temevano che un eventuale intervento di “umanizzazione” della disciplina speciale si sarebbe tradotto in un allentamento della efficacia preventiva del 41-bis o, peggio, in un “abbassamento della guardia” di fronte alla virulenza del fenomeno mafioso ovvero se abbiano, invece, prevalso considerazioni di opportunità, legate alla valutazione che un eventuale intervento sul 41-bis avrebbe provocato inevitabilmente un allungamento delle tempistiche di approvazione del d.d.l., proprio per le prevedibili “barricate” che sarebbero state erette lungo il percorso e per le facili strumentalizzazioni a livello politico di una riforma che colpisce forse troppi nervi scoperti. La speciale disciplina in questione è, peraltro, da tempo sottoposta a serrate critiche da parte della dottrina e della giurisprudenza (che ravvisa in alcune limitazioni apposte all'esercizio di diritti fondamentali, quali il diritto all'affettività, ai contatti familiari e alla libertà di corrispondenza, incisioni non giustificate dalle esigenze preventive alla cui soddisfazione lo speciale regime è preordinato) anche per i dubbi sulla compatibilità convenzionale e costituzionale di alcuni suoi profili.

La Consulta ha, del resto, già riconosciuto - con la sentenza n. 143/2013 - l'illegittimità costituzionale della disciplina speciale in materia di colloqui con il difensore e non è affatto scontato che la stessa Corte europea dei diritti dell'Uomo possa ritornare ad occuparsi del 41-bis sotto il profilo della sua compatibilità con la Convenzione Edu, soprattutto dopo che le pesanti limitazioni ai diritti fondamentali non si configurano più – in seguito alla “stabilizzazione” dello speciale regime realizzata con la legge 94/2009 – come misure eccezionali di orizzonte temporale limitato e dopo che i giudici di Strasburgo hanno già censurato la disciplina italiana con riguardo alla carenza di un controllo giurisdizionale effettivo ed assicurato in tempi ragionevolmente celeri (cfr. tra le molte Cedu, 28 febbraio 2000, Messina /c. Italia e Cedu, 30.10.2003, Ganci /c. Italia: criticità, queste ultime, che le modifiche introdotte con la l. 94/2009 nell'intento di limitare l'incidenza del sindacato giurisdizionale sulle determinazioni dell'Amministrazione, hanno probabilmente reso ancor più gravi ed evidenti).

Ancor più recentemente, tra i rilievi che il Rapporto sull'Italia del comitato delle Nazioni unite contro la tortura (Cat) ha formulato nei confronti dell'Italia, durante la sessantaduesima sessione del Comitato stesso, tenutasi il 14 novembre 2017, vi sono quelli relativi al 41-bis (i dubbi hanno riguardato, in particolare, la circostanza che un detenuto possa essere sottoposto al regime detentivo speciale anche per molti anni e l'eccessivo isolamento in cui vengono posti i detenuti).

A ben considerare, dunque, l'opportunità di ricalibrare alcuni profili del regime detentivo speciale avrebbe potuto essere colta anche nella pragmatica prospettiva di una “messa in sicurezza” della disciplina del 41-bis rispetto all'eventualità di nuovi interventi delle Corti di garanzia, i cui dicta potrebbero avere effetti ben più dirompenti sulla tenuta complessiva dell'istituto di quanto non ne avrebbe un intervento mirato ad una ponderata attenuazione di alcuni profili dell'attuale “carcere duro” che appaiono ispirati a logiche di mera afflittività che poco o nulla hanno da offrire in termini di efficacia preventiva dei contatti dei “boss” con i propri affiliati all'eterno del carcere, ulteriormente sviluppando le pur timide aperture che l'Amministrazione penitenziaria ha adottato con la recente circolare GDAP-0309830 dd.2.10.2017 in materia di Organizzazione del circuito detentivo speciale previsto dall'art. 41-bis o.p.

Le vicende dell'approvazione nel passaggio tra “vecchio” e “nuovo” decreto legislativo e l'approvazione dei decreti in materia di lavoro penitenziario e di esecuzione nei confronti dei minorenni

La bozza che il precedente esecutivo aveva approvato nell'ultimo consiglio dei ministri utile del 2017 prima dello spirare della Legislatura conteneva un'ampia riforma dell'Ordinamento penitenziario. Lo schema di decreto legislativo recante Riforma dell'ordinamento penitenziario in attuazione della delega di cui all'articolo 1, commi 82, 83, 85, lettere a), b), c), d), e), f), h), i), l), m), o), r), s), t) e u), della legge 23 giugno 2017, n. 103 attuava, infatti, numerose direttive di delega contenute nella legge 23 giugno 2017, n.103, intervenendo principalmente sulla legge di ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n.354 e succ. modd.), ma incidendo anche – sia pure in minor misura – sul codice penale e processuale penale e su alcune leggi speciali.

Dal punto di vista strutturale, la bozza di decreto legislativo si componeva di ventisei articoli, suddivisi in sei Capi, dedicati rispettivamente alla riforma dell'assistenza sanitaria in ambito penitenziario (artt. 1-3), alla semplificazione delle procedure (artt. 4-5), all'eliminazione di alcuni automatismi e preclusioni che ostacolano il trattamento penitenziario (artt. 6-13), alla riforma delle misure alternative (artt. 15-22), alla modifica della disciplina del volontariato e di altre disposizioni di legge (artt. 23-24) e alle disposizioni in tema di vita detentiva (art. 25) mentre l'art. 26 conteneva la ormai “tradizionale” clausola di invarianza finanziaria.

Le modifiche introdotte dal (primo) Legislatore delegato si riportavano alle disposizioni dell'art.1, commi 82, 83 e 85 della legge delega e, in particolare, riguardavano i seguenti profili: semplificazione delle procedure; revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse sia, infine, prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell'ordine di esecuzione fosse fissato in ogni caso a quattro anni e che il procedimento di sorveglianza garantisca il diritto alla presenza dell'interessato e la pubblicità dell'udienza; previsione di una necessaria osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà, stabilendone tempi, modalità e soggetti chiamati a intervenire; integrazione delle previsioni sugli interventi degli uffici dell'esecuzione penale esterna; previsione di misure per rendere più efficace il sistema dei controlli, anche mediante il coinvolgimento della polizia penitenziaria; eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono ovvero ritardano, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l'individualizzazione del trattamento rieducativo e la differenziazione dei percorsi penitenziari in relazione alla tipologia dei reati commessi e alle caratteristiche personali del condannato, nonché alla revisione della disciplina sulla preclusione dei benefici penitenziari per i condannati alla pena dell'ergastolo, salvo che per i casi di eccezionale gravità e pericolosità specificatamente individuati e comunque per le condanne per i delitti di mafia e di terrorismo anche internazionale; previsione di attività di giustizia riparativae delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell'esecuzione delle misure alternative; previsione di una maggiore valorizzazione del volontariato sia all'interno del carcere, sia in collaborazione con gli uffici dell'esecuzione penale esterna; disciplina dell'utilizzo dei collegamenti audiovisivi sia a fini processuali, con modalità che garantiscano il rispetto del diritto di difesa, sia per favorire le relazioni familiari; revisione delle disposizioni dell'ordinamento penitenziario alla luce del riordino della medicina penitenziaria disposto dal decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230, tenendo conto della necessità di potenziare l'assistenza psichiatrica negli istituti di pena; previsione della esclusione del sanitario dal consiglio di disciplina istituito presso l'istituto penitenziario; previsione di norme che favoriscano l'integrazione delle persone detenute straniere; previsione di norme volte al rispetto della dignità umana attraverso la responsabilizzazione dei detenuti, la massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna, la sorveglianza dinamica; revisione delle norme vigenti in materia di misure alternative alla detenzione al fine di assicurare la tutela del rapporto tra detenute e figli minori e di garantire anche all'imputata sottoposta a misura cautelare la possibilità che la detenzione sia sospesa fino al momento in cui la prole abbia compiuto il primo anno di età; previsione di norme che considerino gli specifici bisogni e diritti delle donne detenute; revisione del sistema delle pene accessorie improntata al principio della rimozione degli ostacoli al reinserimento sociale del condannato ed esclusione di una loro durata superiore alla durata della pena principale.

La riforma dell'ordinamento penitenziario nel sua primo abbozzo era, quindi, profondamente caratterizzata, da una parte, per la sua visione “a tutto campo”, frutto dell'essenziale contributo di idee e proposte venuto dalle tante espressioni e sensibilità che negli “Stati Generali” avevano trovato un punto di sintesi e, dall'altro lato, si distingueva per un duplice livello di intervento: sul piano dei principi, attraverso l'inserzione nel contesto normativo di “norme-bandiera”, con l'obiettivo di radicare all'interno della legge penitenziaria l'affermazione e la tutela dei diritti fondamentali della persona, il cui esercizio non può essere annullato dalla restrizione carceraria; e sul versante più immediatamente operativo, diretto alla semplificazione delle procedure e al rapido miglioramento delle condizioni detentive ed a quelle di accesso alle misure di comunità esterne al carcere.

La prima riforma è rimasta, tuttavia, al palo. Il precedente Governo aveva presentato alla Camere lo schema di decreto legislativo attuativo – nei termini sopra compendiati – della delega. Nei quarantacinque giorni di tempo previsti, le competenti Commissioni parlamentari hanno espresso i loro pareri, formulando alcune osservazioni. Il Governo Gentiloni, il 16 marzo, non avendo integralmente recepito le osservazioni di matrice parlamentare, ha nuovamente trasmesso alle Camere - come previsto dalla l. 103/2017 – la nuova versione dello schema di decreto legislativo (denominato A.G.17), unitamente agli schemi di decreto legislativo, attuativi della medesima delega, denominati rispettivamente A.G. 16 (riforma dell'ordinamento penitenziario in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario), A.G. 20 (disciplina dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni), A.G. 29 (disposizioni in materia di giustizia riparativa e mediazione reo-vittima), per consentire loro di emettere il secondo (e ultimo) parere. Ciò avveniva, tuttavia, il 20 marzo 2018, alla vigilia, cioè, dell'insediamento delle nuove Assemblee legislative. La legge di delega (art. 1, comma 83) stabilisce che i pareri definitivi delle Commissioni competenti siano «espressi entro il termine di dieci giorni dalla data della nuova trasmissione» e che, «decorso tale termine, i decreti possono essere comunque emanati».

Il Governo Gentiloni avrebbe, quindi, potuto – in linea teorica - emanare il decreto legislativo nella sua seconda formulazione già a partire dal 30 marzo. Una tale iniziativa avrebbe, tuttavia, rappresentato un atto di scorrettezza sul piano dei rapporti istituzionali, considerata l'oggettiva difficoltà per il nuovo Parlamento, insediatosi il 23 marzo, ad esprimere i previsti pareri.

Tutti questi schemi sono stati, pertanto, esaminati, con l'inizio della XVIII legislatura, dalle Commissioni Giustizia di Camera e Senato. In particolare, sullo schema A.G. 17 (ordinamento penitenziario), le Commissioni hanno espresso parere contrario (la II Commissione del Senato l'11 luglio 2018; la II Commissione della Camera il 12 luglio 2018). L'ultimo giorno utile per l'esercizio della delega (3 agosto 2018), il Governo Conte ha trasmesso alle Camere un nuovo schema di decreto legislativo (A.G. 39), con il quale il nuovo esecutivo ha ritenuto di avviare un nuovo procedimento di esercizio della delega per la riforma dell'ordinamento penitenziario. Su questo nuovo schema di decreto nonché sugli schemi di decreto A.G. 16 (lavoro penitenziario) e A.G. 20 (esecuzione penale minorile), le Commissioni Giustizia della Camera e del Senato hanno espresso pareri favorevoli accompagnati da condizioni o osservazioni. Parere contrario è stato, invece, espresso sullo schema A.G. 29 (giustizia riparativa).

Il nuovo esecutivo, espressione di un sentire politico non in linea con alcune parti della riforma quale risultante dal “vecchio” schema di decreto legislativo, a fronte anche dei pareri negativi espressi in seconda lettura dalle Camere, ha preferito, dunque, optare per una rielaborazione del testo, presentando alle Camere un secondo schema di decreto legislativo formalmente nuovo e distinto dal precedente, il quale pertanto – pur decorso, il 3 agosto, il termine di un anno stabilito dalla l.103/2017 per l'esercizio della delega - ha completato l'iter, sfruttando – formalmente per la prima volta – il termine di proroga di 60 giorni previsto dal comma 83 dell'articolo unico della legge delega, ed è stato quindi approvato in via definitiva il 27 settembre 2018decreto legislativo recante Riforma dell'ordinamento penitenziario in attuazione della delega di cui all'articolo 1, commi 82, 83, 85, lettere a), d), i), l), m), o), r), t) e u), della legge 23 giugno 2017, n. 103.

Si tratta, in altri termini, di un testo normativo che, pur riprendendo in molte parti il testo della precedente bozza, è espressione di un'idea dell'esecuzione penale e penitenziaria profondamente diversa da quella che aveva avviato e sostenuto il percorso del precedente schema di decreto legislativo.

Acquisiti i pareri delle nuove Camere, il Governo Conte, nella seduta del Consiglio dei ministri del 27 settembre, ha dato il via libera definitivo al decreto attuativo della riforma penitenziaria, cui ha affiancato altri due decreti legislativi dedicati, rispettivamente, alla materia del lavoro penitenziario e dell'esecuzione penale nei confronti dei condannati minorenni.

La riforma, così a lungo elaborata, nasce dunque monca, stante la rinuncia del governo subentrato al precedente esecutivo di esercitare la delega su importanti settori della riforma e – segnatamente – in materia di misure alternative alla detenzione, di automatismi preclusivi ai fini dell'accesso alle stesse e di giustizia riparativa, oltre al settore delle misure di sicurezza, rimasto allo stadio di proposta elaborata dalla competente commissione ministeriale, senza avere neppure iniziato l'iter di approvazione.

Una così grave amputazione dell'originario disegno riformatore rende le pur non trascurabili novità introdotte dall'intervento articolato sui tre decreti legislativi in commento una riforma incompiuta che, per le sue caratteristiche di settorialità e per alcuni non secondari disallineamenti con la filosofia che aveva ispirato la prima stesura del decreto attuativo, non può propriamente ritenersi – al di là della sua intitolazione formale – quale esercizio della delega contenuta nella l. 103/2017, segnando, piuttosto, un passaggio che sancisce una netta soluzione di continuità con essa e che, se da un lato ne sterilizza i più importanti capisaldi, pone le basi per una complessiva rivisitazione dell'esecuzione penale e penitenziaria per come essa è venuta sviluppandosi nell'ultimo decennio.

l “pendolo” sembra dunque essersi messo nuovamente in moto.

La procedura per l'attuazione della delega

L'art. 1, comma 82, della l. 23 giugno 2017 n. 103 ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per la riforma della disciplina in materia di intercettazione di conversazioni o comunicazioni e di giudizi di impugnazione nel processo penale nonché per la riforma dell'ordinamento penitenziario.

Il comma 83 del succitato articolo precisa i tempi e il procedimento per l'attuazione della delega. Quanto ai primi, la disposizione prevede che la delega deve essere esercitata entro un anno dall'entrata in vigore della legge e dunque entro il 3 agosto 2018. Con riguardo al procedimento per l'attuazione della delega, gli schemi di decreto legislativo, una volta elaborati dall'Ufficio Legislativo del Ministero della giustizia sulla base delle proposte elaborate dalla Commissione legislativa istituita presso il medesimo, sono trasmessi alle competenti Commissioni parlamentari per il parere, da rendere entro 45 giorni, decorsi i quali i decreti possono essere comunque adottati. Qualora detto termine venga a scadere nei trenta giorni antecedenti lo spirare del termine di delega, o successivamente, quest'ultimo termine è prorogato di sessanta giorni. Il termine finale per l'esercizio della delega è, pertanto, procrastinato al 2 ottobre 2018. Se il Governo non intende conformarsi ai pareri parlamentari, recependo integralmente è tenuto a trasmettere nuovamente gli schemi alle Camere con i necessari elementi informativi e le motivazioni delle scelte effettuate. La Commissioni dovranno esprimersi nei successivi 10 giorni. Decorso anche tale termine, i decreti possono comunque essere adottati. I decreti legislativi non dovranno comportare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e dovranno essere adottati su proposta del Ministro della giustizia.

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