Il ‘familismo amorale' che legittima la risoluzione del contratto e l'irrinunciabilità del sistema di tutela contro le infiltrazioni mafiose

Sabrina Tranquilli
01 Ottobre 2018

La valutazione per il rilascio dell'informativa antimafia si fonda su elementi gravi, precisi e concordanti che, alla stregua della «logica del più probabile che non», lasciano emergere il pericolo di infiltrazione mafiosa in base ad un complessivo, oggettivo apprezzamento dei fatti nel loro valore sintomatico, sempre sindacabile in sede giurisdizionale. Il quadro normativo è espressione di un'equilibrata ponderazione tra i valori costituzionali in gioco, (la libertà di impresa, da un lato, e la tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale) ed è teso ad assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e il principio di legalità sostanziale (art. 3, comma II, Cost.), garantendo «valori costituzionali ed europei di preminente interesse e di irrinunciabile tutela».

Il caso. La sentenza in epigrafe esamina la legittimità della risoluzione del contratto disposta dalla stazione appaltante a seguito dell'emanazione di un'informativa antimafia nei confronti della società esecutrice del servizio di raccolta, trasporto e smaltimento di indumenti usati. L'informativa delineava uno stretto collegamento, anche familiare, tra la suddetta società, la criminalità organizzata locale e esponenti dei clan camorristici operanti nel contesto ambientale di riferimento. La risoluzione veniva impugnata, unitamente all'informativa, dinanzi al TAR Campania respingeva il ricorso. La ricorrente proponeva appello contestando la sussistenza dei presupposti per l'emissione del provvedimento interdittivo, la mancata trasmissione dei motivi ostativi ex art. 10 bis l. n. 241 del 1990 alla richiesta di iscrizione nella cd. “white list”. Veniva inoltre riproposta la questione di legittimità costituzionale dell'art. 84 comma 4, d.lgs. 159 del 2011.

La soluzione del Consiglio di stato.

Gli atti presupposti all'adozione dell'interdittiva. Il Collegio evidenzia, preliminarmente, che l'informativa antimafia, secondo le previsioni degli artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011, è un istituto mediante il quale l'autorità prefettizia, fondandosi su elementi oggettivi rilevanti in materia, esprime un motivato giudizio, in chiave preventiva, circa il pericolo di infiltrazione mafiosa all'interno dell'impresa, interdicendole l'inizio o la prosecuzione di qualsivoglia rapporto con l'Amministrazione o l'ottenimento di qualsiasi sussidio, beneficio economico o sovvenzione. Tali elementi sono desunti da provvedimenti giudiziari, atti di indagine, accertamenti svolti dalle Forze di Polizia che non hanno la natura di mero ‘parere' come affermato dall'appellante.

La legittimità della valutazione della Prefettura. La sentenza afferma che, contrariamente a quanto asserito dall'appellante, «la valutazione espressa dalla Prefettura e dal G.I.A. si fonda non sui singoli e frammentati controlli, né su episodi isolati e risalenti, bensì proprio su un complesso di reati sintomatici di collegamento alla criminalità organizzata di congiunti della famiglia e dei legami con esponenti dei clan camorristici operanti nel contesto ambientale di riferimento, reiterati negli anni, ed anche sulla base dei collegamenti economici ed alla rete di affari sintomatici del pericolo di infiltrazione della criminalità organizzata». Il quadro indiziario dell'infiltrazione mafiosa, posto a base dell'informativa dà, dunque, «concretamente conto in modo organico e coerente, di quei fatti aventi le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, dai quali, sulla base della regola causale del “più probabile che non” (Cons. St., sez. III, 7 ottobre 2015, n. 4657; Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2011, n. 15709), si perviene in via presuntiva alla conclusione ragionevole che tale rischio sussista, valutatene e contestualizzatene tutte le circostanze di tempo, di luogo e di persona».

Il Collegio respinge l'argomentazione dell'appellante secondo cui tale valutazione non avrebbe considerato il mancato coinvolgimento diretto dei soci nelle vicende giudiziarie dei propri parenti, evidenziando che, per quanto riguarda i rapporti familiari, nei contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso, si può verificare all'interno della famiglia una «influenza reciproca» di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; - una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch'egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia', sicché in una ‘famiglia' mafiosa anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio mafioso può subire, nolente, l'influenza del ‘capofamiglia' e dell'associazione; - hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l'Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l'esistenza – su un'area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia' e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non risultino avere proprie fonti legittime di reddito).

Il Collegio precisa comunque che, nel caso di specie, dalle risultanze istruttorie, emerge una realtà caratterizzata da «così tanti rapporti parentali con soggetti in qualche modo interessati da richieste di prevenzione (o condanne) per fatti di criminalità organizzata e reati ‘spia' da dare corpo e sostanza ad una prognosi di infiltrazione, proprio nell'ambito di ciò che è stato definito un ‘familismo amorale' proprio degli ambienti interessati da tali specifici fenomeni malavitosi».

Diniego di iscrizione nella “White list”. La sentenza, richiamando l'indirizzo giurisprudenziale consolidato afferma che il diniego di iscrizione nella “White list” basato sull'informazione interdittiva antimafia a carico della società, assume carattere del tutto vincolato, sicché, ai sensi dell'art. 21-octies della l. n. 241 del 1990, il giudice può non procedere all'annullamento del provvedimento negativo, seppur adottato in violazione di norme sul procedimento.

La manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 84, comma 4, d.lgs. 159 del 2011. Il Collegio afferma che «La prevenzione contro l'inquinamento dell'economia legale ad opera della mafia ha costituito e costituisce, tuttora, una priorità per la legislazione del settore». Tale strumento (che ha «natura preventiva e non sanzionatoria ed è, dunque, avulsa da qualsivoglia logica penale o lato sensu punitiva») costituisce un «severo limite all'iniziativa economica privata», ma che è «giustificato dalla considerazione che il metodo mafioso, per sua stessa ragion di essere, costituisce un danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41, comma secondo, Cost.), già sul piano dei rapporti tra privati (prima ancora che in quello con le pubbliche amministrazioni), oltre a porsi in contrasto, ovviamente, con l'utilità sociale, limite, quest'ultimo, allo stesso esercizio della proprietà privata. E ciò proprio in quanto è proprio il metodo mafioso che costituisce un'alterazione del principio di eguaglianza sostanziale prima ancora che della concorrenza, nello svolgimento della libera iniziativa economica.

Dopo aver richiamato la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'UE (sez. X, 22 ottobre 2015, in C-425/14) che, con riferimento alla prassi dei cc.dd. protocolli di legalità, ha ribadito che «va riconosciuto agli Stati membri un certo potere discrezionale nell'adozione delle misure destinate a garantire il rispetto del principio della parità di trattamento e dell'obbligo di trasparenza, i quali si impongono alle amministrazioni aggiudicatrici in tutte le procedure di aggiudicazione di un appalto pubblico» ha evidenziato che «Il sistema così delineato, … risponde a valori costituzionali ed europei di preminente interesse e di irrinunciabile tutela».

La valutazione prefettizia si fonda infatti «su elementi gravi, precisi e concordanti che, alla stregua della “logica del più probabile che non”, lasciano emergere il pericolo di infiltrazione mafiosa in base ad un complessivo, oggettivo, e sempre sindacabile in sede giurisdizionale, apprezzamento dei fatti nel loro valore sintomatico». Tale metodo, conclude il Collegio, «costituisce espressione di un'equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di impresa, da un lato, e la tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale, teso peraltro ad assicurare – il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e il principio di legalità sostanziale (art. 3, comma secondo, Cost.), anziché contraddirlo come vorrebbe la parte appellante (v., ex plurimis, anche 5 ottobre 2016, n. 4121)».