Indennizzo delle spese di resistenza e di chiamata in garanzia: ammissibilità e limiti

Massimiliano Stronati
03 Ottobre 2018

L'assicuratore, oltre a tenere indenne l'assicurato dalle somme dovute al danneggiato a titolo risarcitorio, è obbligato anche a ristorarlo delle spese sostenute per resistere in giudizio alla pretesa del terzo, nonché dei costi affrontati dallo stesso per la chiamata in garanzia?
Massima

In tema di assicurazione contro i rischi della responsabilità civile, l'assicuratore è obbligato a tenere indenne l'assicurato di quanto dovuto a titolo risarcitorio al terzo danneggiato anche con specifico riferimento alle spese processuali che quest'ultimo abbia sostenuto per far valere la propria pretesa, sebbene entro i limiti del massimale. L'assicuratore è tenuto, altresì, a rimborsare all'assicurato le spese sopportate per resistere in giudizio alla richiesta del danneggiato (anche oltre il massimale, seppur entro il limite stabilito dall'art. 1917, comma 3 c.c.), trattandosi di “spese di salvataggio” ex art. 1914 c.c. Seguono, invece, l'ordinaria regolamentazione delle spese di lite i costi relativi alla chiamata in garanzia dell'assicuratore.

Il caso

Tizio, al fine di ottenere ristoro dai danni patiti a seguito di un intervento chirurgico, ritenuto non correttamente eseguito, conviene in giudizio Caio, medico chirurgo, e la Società casa di cura Alfa. Quest'ultima, sostenendo di essere soltanto proprietaria della struttura presso la quale il trattamento è stato eseguito, chiama in causa la Società Beta, in quanto asseritamente ritenuta locataria dell'immobile e responsabile della gestione dell'attività di spedalità ivi svolta. L'anzidetta società Beta, medio tempore, instaura, nei confronti della società di assicurazioni Gamma, un autonomo procedimento. L'assicurata, infatti, richiede di essere tenuta indenne dall'assicuratore per tutte le lesioni patrimoniali che potrebbero derivare dall'eventuale accertamento della propria responsabilità nel giudizio già pendente.

Il Tribunale, riunite le cause, ritiene fondata tanto la domanda risarcitoria di Tizio, quanto quella di garanzia della società Beta. Avverso tale pronuncia insorgono in via principale Caio (medico) e in via incidentale Tizio e la società di assicurazioni Gamma.

La Corte d'Appello, in accoglimento dell'impugnazione di Tizio, condanna la società Beta ad un maggior risarcimento ed alla rifusione, in solido con Caio, delle spese di consulenza e dei due terzi delle spese del doppio grado di giudizio sostenute da Tizio. La Corte territoriale, inoltre, compensa le spese di lite fra le altre parti, nulla specificamente osservando rispetto a quelle sopportate dall'assicurata per la chiamata in garanzia, e condanna la società Gamma al pagamento nei confronti della società Beta di un'indennità pari alle somme da quest'ultima dovute a Tizio “per danni e spese” in esecuzione della sentenza.

La società Beta ricorre per cassazione formulando due motivi: l'uno affermando la violazione e falsa applicazione dell'art. 1917, comma 3 c.c.; l'altro lamentando la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.

La questione

La questione esaminata nella pronuncia è la seguente: l'assicuratore, oltre a tenere indenne l'assicurato dalle somme dovute al danneggiato a titolo risarcitorio, è obbligato anche a ristorarlo delle spese sostenute per resistere in giudizio alla pretesa del terzo, nonché dei costi affrontati dallo stesso per la chiamata in garanzia?

Le soluzioni giuridiche

I) L'ordinanza in esame, per quanto qui d'interesse, in parziale accoglimento del primo motivo di ricorso, premette una tassonomia delle varie tipologie di spese processuali che l'assicurato può essere tenuto a sostenere nel corso del giudizio contro il danneggiato.

In particolare, la Corte individua tre categorie: a) le spese di soccombenza, per tali intendendosi quelle da rifondere al danneggiato vittorioso; b) le spese di resistenza, ovvero quelle dovute al proprio difensore ed eventualmente ai propri consulenti; c) le spese di chiamata in causa, cioè quelle per convenire in giudizio il proprio assicuratore.

Ciò posto, la Suprema Corte pone in rilievo la divergente disciplina codicistica tra le spese di soccombenza e quelle di resistenza. Per quest'ultime solamente, infatti, viene prevista dall'art. 1917, comma 3 c.c. la possibilità per l'assicurato di richiedere una corresponsione anche superiore al massimale, seppur «nei limiti del quarto della somma assicurata».

A fondamento del dettato normativo, la pronuncia rileva la diversità ontologica fra tali tipologie di costi processuali. Difatti, nel solco dell'unanime giurisprudenza di legittimità, si conferma che quelli da risarcire al danneggiato, annoverabili nel dettato dell'art. 1917 comma 1 c.c., sono conseguenza della commissione del fatto illecito e risultano, perciò, nient'altro che una componente dell'oggetto della copertura assicurativa, ovvero della principale obbligazione dell'assicuratore a tutela del patrimonio dell'assicurato (cfr. Cass. civ., sez. III, 15 marzo 2004, n. 5242; Cass. civ., 22 dicembre 1995 n. 13088; Cass. civ., 14 ottobre 1993 n. 10170).

Va osservato, invero, che già in passato (già Cass. civ., sez. III, 25 luglio 1981, n. 4810) è stato statuito in Cassazione che l'obbligo di ripetizione delle spese di resistenza costituisce un'obbligazione accessoria dell'assicuratore, rispetto a quella indennitaria principale, che ne è il presupposto. Difatti, è stata pacificamente ravvisata la diversità di fonte di tale obbligazione, che non scaturisce dal fatto illecito in sé, ma dal rispetto di una disposizione legislativa, quale mero rimborso di una perdita pecuniaria. Sicché, è stata affermata l'autonomia delle due garanzie in parola, che, infatti, «non sono tra loro dipendenti, e la seconda può̀ sussistere anche se manchi la prima, come nel caso in cui la domanda proposta dal terzo danneggiato verso l'assicurato venga rigettata» (Cass. civ., sez. III, 29 febbraio 2016, n. 3899). Peraltro, tra le due obbligazioni dell'assicuratore è stata rintracciata una sostanziale difformità di ratio, in quanto la garanzia per le spese di resistenza è finalizzata al “perseguimento di un risultato utile ad entrambe le parti, assicuratore ed assicurato, mirando a tutelarne la sfera giuridico - patrimoniale dalla domanda risarcitoria del terzo ed esaurendo la sua funzione nei limiti in cui si tratta di tenere indenne l'assicurato delle spese sostenute per resistere all'azione civile del danneggiato. Cass. civ., sent. 15 gennaio 1985 n. 59; Cass. civ., sent. 11 ottobre 2012 n. 17315; Cass. civ., sent. 19 marzo 2015 n. 5479» (Cass. civ., sez. III, 18 gennaio 2016, n.667).

Di particolare interesse, nel caso in discussione, appare l'ulteriore elemento, utilizzato in motivazione, al fine di giustificare la rifusione delle spese di giudizio dell'assicurato e la liquidazione giudiziale delle stesse, al di là del capitale assicurato. Il costo economico affrontato dall'assicurato per la propria difesa è stato, infatti, riconosciuto quale specificazione delle spese di salvataggio, previste dall'art. 1914, comma 2 c.c., sul principale assunto della comunanza degli interessi tutelati.

Tale inquadramento non stravolge l'orientamento giurisprudenziale circa l'ammissibilità, anche nei contratti di assicurazione dalla responsabilità civile, dell'istituto dell'obbligo di salvataggio in capo all'assicurato, ma anzi ne rappresenta una mera continuazione.

Infatti, con riferimento all'assicurazione dai rischi della responsabilità civile, dapprima con sentenza n. 2793 del 11 luglio 1957 e successivamente con sentenza Cass. civ., sez. I, 7 novembre 1991, n.11877, la Suprema Corte ha avallato la possibilità di configurare tale tipologia di obblighi in capo all'assicurato, salvi i necessari adattamenti disciplinatori (ad es: il riferimento al “valore assicurato”).

In particolare, si è sostenuto che: l'art. 1914 c.c., stante l'inserimento nella sezione dedicata all'assicurazione contro i danni, trova applicazione anche nei diversi rami della stessa, in assenza di una deroga espressa; inoltre, la previsione risponde ad una ratio (tutela comune alle parti di evitare o non permettere l'aggravio del danno) non esclusiva, ma coerente con tutte le specificazioni di tale tipologia assicurativa. Non è stata, inoltre, ravvisata alcuna incompatibilità intrinseca tra l'obbligo di salvataggio e l'oggetto (poiché, attinente alla limitazione del danno e non anche ad evitare il sinistro, ragione stessa del contratto assicurativo) o la struttura (in quanto, obbligazione nascente da fonte autonoma e indipendente, ma il cui sorgere sarebbe coevo, ovvero sin dal verificarsi del fatto dannoso) dell'assicurazione della responsabilità civile.

L'ammissibilità è stata, infatti, ragionevolmente limitata quale comportamento dovuto nel fare il possibile per evitare, diminuire o non aumentare il danno già prodottosi, non potendosi configurare un obbligo di impedire l'evento causativo della lesione, incompatibile con la causa stessa del negozio assicurativo, perlomeno qualora il fatto generatore sia dovuto a colpa.

Nell'apparato motivazionale dell'anzidetta pronuncia dei primi anni novanta, in particolare, sono state riconosciute quali attività “di salvataggio soltanto quegli interventi che si inseriscano nel processo causale, già̀ introdotto dal sinistro e che si appalesino idonei e necessari, secondo le cognizioni tecniche, ad impedire che il processo medesimo pervenga al suo esito finale e produca il danno o, quanto meno, l'intero danno; ciò̀, peraltro, a prescindere dal conseguimento del risultato” (qualificazione non messa in discussione dalle successive decisioni sul punto e anzi confermata anche in Cass. civ., sez. III, 8 gennaio 2004, n. 83; Cass. civ., sez. III, 14 giugno 2007, n. 13958; Cass. civ., sez. III, 11 giugno 2008, n. 15458, con particolare riferimento allo strumento dell'accertamento tecnico preventivo). Peraltro, nella stessa occasione è stata supportata la tesi secondo cui, anche le spese affrontate dall'assicurato per resistere all'azione del danneggiato dovessero ricondursi nell'ambito applicativo dell'art. 1914 c.c., in quanto la difesa in giudizio è «attività̀ questa che, stante la sua natura, può̀ essere, quanto meno, assimilata a quella di salvataggio».

La conclusione cui è giunta l'ordinanza in discussione, assumendo le spese di resistenza quale declinazione delle spese di salvataggio, non trova peraltro conforto soltanto in tale risalente precedente. Infatti, anche la giurisprudenza di legittimità più recente ha confermato tale assunto.

In particolare, è stato rilevato – come si vedrà nel prosieguo – che, qualora dall'opposizione giudiziale alla pretesa risarcitoria del terzo l'assicurato non possa ricavare alcun beneficio, sarà l'astensione alla resistenza a costituire estrinsecazione dell'obbligo di salvataggio.

Proprio da tale considerazione si può desumere a contrario che ordinariamente è la difesa in giudizio alla pretesa del danneggiato ad essere riconducibile all'attività di salvataggio, in quanto sia idonea a svolgerne la medesima funzione di riduzione del rischio assicurato, possibilmente diminuendo o elidendo nella sua totalità la richiesta del danneggiato.

Più precisamente, vale osservare che le ultime statuizioni in materia asseriscono che l'assicurato è tenuto al rispetto del generale obbligo di salvataggio, anche rispetto alla lesione patrimoniale derivante dalla remunerazione dell'avvocato per la difesa in giudizio. Ciò, sull'assunto secondo cui l'obbligazione di garanzia dell'assicuratore rispetto alle spese di resistenza, seppur accessoria a quella principale, attende alla medesima funzione di tutela del patrimonio dell'assicurato, pertanto, anche le medesime rientrano nel “rischio garantito”, che il danneggiante è tenuto a limitare.

In particolare, Cass. civ., sez. III, 19 marzo 2015, n.5479 ha affermato che: «l'obbligo di salvataggio di cui all'art. 1914 c.c. si applica anche al contratto di assicurazione della responsabilità̀ civile, ed in tal caso impone all'assicurato di evitare di resistere al giudizio promosso contro di lui dal danneggiato, quando da tale resistenza non possa ricavare beneficio alcuno», non ravvisandosi quindi un particolare interesse concreto a resistere. Nello stesso senso, si è pronunciata Cass. civ., sez. III, 18 gennaio 2016, n.667, rilevando che se il rischio di spese di resistenza è un danno, allora anche rispetto a questo «sussiste, come per il danno derivante dal rischio garantito in via principale, il dovere dell'assicurato di "fare quanto gli è possibile" per evitarlo o diminuirlo, secondo la previsione di cui all'art. 1914 c.c., comma 1».

Pertanto, se il danneggiante deve omettere la resistenza in giudizio qualora questa non comporti plausibilmente vantaggi economici, ne risulta ovviamente che le relative spese vanno invece sostenute soltanto qualora ne possa derivare un beneficio o questo sia almeno ragionevolmente ipotizzabile.

Sicché, in tale secondo caso, l'attività di resistenza integra il contenuto di quella di salvataggio, anche qualora ex post nessun risultato sia stato in concreto realizzato, nei limiti in cui tale azione fosse comunque tesa ad assolvere la comune funzione di tutelare gli interessi di entrambe le parti: dell'assicurato a non incidere economicamente sul proprio patrimonio e dell'assicuratore a non dovere ripetere somme ulteriori rispetto al risarcimento del danneggiato.

L'ordinanza in esame, quindi, sebbene non sviluppando le argomentazioni sottese alla propria decisione, sembra far proprio il collegamento teleologico fra le due tipologie di spese sostenute dal danneggiato, ponendo quelle di resistenza in rapporto di specie a genere rispetto a quelle di salvataggio.

Ad ulteriore sostegno di tale tesi, vale la pena osservare che, in talune pronunce precedenti a quella in esame, la Suprema Corte ha avuto modo di giustificare la riconduzione delle spese di resistenza al genus di quelle di salvataggio anche sul rilievo che l'obbligo di cui all'art. 1914 c.c. costituirebbe un preciso richiamo ai principi di correttezza e buona fede. Tale disposizione enuclea, infatti, un obbligo comportamentale di salvaguardia della posizione debitoria dell'assicuratore, di cui la resistenza alla pretesa del terzo danneggiato costituirebbe una specifica applicazione.

L'assicurato/creditore sarebbe quindi tenuto nei limiti di un apprezzabile sacrificio a tutelare l'interesse dell'assicuratore/debitore, in ottemperanza al generale dovere comportamentale di solidarietà sociale, espresso dall'art. 2 Cost., pervasivo tanto dei rapporti obbligatori, ai sensi dell'art. 1175 c.c., quanto di ogni fase del rapporto contrattuale possibile fonte dei primi (artt. 1337, 1366, 1375 c.c.).

Sul punto, ad es. Cass. civ., sez. III, 19 marzo 2015, n.5479, riferendosi alle implicazioni di dover tenere un comportamento informato a buona fede e correttezza, ha ritenuto che: «con riferimento al nostro caso, l'applicazione di tali principi impone all'assicurato di non avvalersi della facoltà̀ di resistere in giudizio, se ciò̀ non solo non possa arrecargli vantaggio alcuno, ma anzi esponga l'assicuratore all'onere di rifondere all'assicurato spese avventatamente sostenute», nello stesso senso anche Cass. civ., sez. III,18 gennaio 2016, n. 667 e per il richiamo ai doveri di correttezza e buona fede anche Cass. civ., sez. III, 11 giugno 2008, n. 15458.

Ovverosia, l'assicurato dovrebbe astenersi dall'esercizio del proprio diritto di difesa, altrimenti configurandone un abuso, producendo conseguenze del tutto difformi da quelle di salvaguardia che ispirano l'obbligo di salvataggio, ogniqualvolta la resistenza in giudizio non sia esplicazione di correttezza e quindi prevedibilmente idonea a tutelare gli interessi dell'assicuratore, ma al contrario possa aggravarne ulteriormente la posizione debitoria.

Se l'unanime giurisprudenza non revoca in dubbio che le spese di resistenza siano configurabili quale species di quelle di salvataggio, rilevando la medesima natura degli obblighi che le giustificano, nonché la stessa finalità che le sottende, tuttavia, parte della dottrina conserva le proprie perplessità.

In aperto contrasto con le ragioni espresse dalla Cassazione, non manca chi, rispetto alle suddette tipologie di obblighi, ne ipotizza una funzione che se collima nella soddisfazione degli interessi di entrambe le parti del rapporto assicurativo, non può apoditticamente dirsi identica. Si sostiene, infatti, che «quelle di resistenza giudiziale, perché esse tendono in definitiva ad un accertamento del debito e non alla costituzione del medesimo, esse non lo evitano o lo diminuiscono, ma evitano e diminuiscono solo le pretese infondate. Le spese di salvataggio sono quelle che evitano o diminuiscono la materialità del danno» (DE STROBEL, OGLIARI, L'assicurazione di responsabilità̀ civile e il nuovo codice delle assicurazioni private, VI, 2008, 196).

Proprio da tale ricostruzione, quindi, derivano nette conseguenze circa l'obbligo indennitario dell'assicuratore rispetto alle spese di resistenza.

In primo luogo, va peraltro sottolineato che se le spese di soccombenza, nei limiti del massimale, devono sempre essere indennizzate all'assicurato, le spese di cui quest'ultimo si sia fatto carico per difendersi dall'azione del danneggiato, benché oltre il massimale, vanno corrisposte dall'assicuratore sulla base di una valutazione casistica.

In ragione delle considerazioni suesposte, i costi economici della resistenza in giudizio rimangono a carico dell'assicurato, ogniqualvolta l'assicurato si sarebbe dovuto astenere dall'opporsi in giudizio alla pretesa del danneggiato. Ci si riferisce cioè a quelle ipotesi in cui tale comportamento, sebbene idoneo in astratto ad adempiere all'obbligo di salvataggio e al dovere di buona fede, non risponde in concreto alla ratio sottesa all'art. 1917, comma 3 c.c. e quindi di conseguenza dell'art. 1914 c.c.

In tal senso, confrontando le precedenti pronunce richiamate sul punto e il testo dell'art. 1914 che ammette l'indennizzo “anche se non si è raggiunto lo scopo”, sembra potersi dedurre ragionevolmente che l'idoneità in concreto debba essere valutata dal giudice attraverso lo svolgimento di un sindacato prognostico, atto a determinare la prevedibilità o meno dell'esito obiettivamente infausto del giudizio. Tale giudizio potrebbe peraltro correlarsi non soltanto all'atto iniziale del procedimento (introduttivo o di risposta), ma anche rispetto al mancato esercizio del potere di rinunzia (al ricorrerne dei presupposti), nonché ad ogni atto di impugnazione che potrebbe macroscopicamente comportare soltanto un aggravio dei costi.

Al contrario, quindi, qualora in concreto l'esito infausto della difesa processuale non potesse essere ipotizzabile da parte dell'assicurato, questo potrà far valere la propria pretesa all'indennizzo delle spese così sostenute, pur sempre nei limiti del secondo comma dell'art. 1914 c.c..

Quand'anche, difatti, la difesa processuale del danneggiante assurga a strumento idoneo ad evitare o diminuire il danno, non sempre l'indennizzo dei relativi costi deve integrare l'obbligo restitutorio dell'assicuratore.

In particolare, anche se l'assicurato, resistendo alla pretesa del danneggiato, non abbia ridotto o eliso l'ammontare del risarcimento, l'assicuratore dovrà comunque tenere indenne il danneggiante anche di tali spese processuali, «salvo che l'assicuratore provi che le spese sono state fatte inconsideratamente», a mente dell'art. 1914, comma 2 c.c., ovvero con colpa.

La valutazione circa l'indennizzabilità o meno di tali costi processuali, quindi, non è sottesa alla mera correttezza dell'agire dell'assicurato, ma va condotta alla stregua del più stringente dovere di diligenza, espresso dall'art. 1176 c.c.

Sul punto Cass. civ., sez. III, 28 gennaio 2005, n. 1749 statuisce, infatti, che: «le spese sostenute dall'assicurato per impedire l'avveramento del rischio oggetto dell'assicurazione, ovvero per limitarne gli effetti, costituiscono adempimento dell'obbligo di salvataggio, e debbono pertanto essere rifuse dall'assicuratore oltre il limite del massimale anche se rivelatesi infruttuose, a condizione che esse non siano state sconsiderate e conseguenti a condotta non conforme alla diligenza del buon padre di famiglia».

Anche a fronte di un risultato processuale favorevole all'assicurato, il trasferimento a carico dell'assicuratore delle spese di resistenza dovrà essere valutato solo con riferimento alla sconsideratezza delle stesse.

Tale situazione potrebbe configurarsi nell'ipotesi in cui a fronte di costi processuali molto elevati, l'assicurato ottenga una riduzione minima del quantum risarcitorio dovuto al terzo. In tanto, quindi, la pretesa di indennizzo non potrà essere accolta, in quanto l'ammontare dei costi sostenuti in giudizio risulti del tutto sproporzionato rispetto al vantaggio minimo correlato alla diminuzione del danno.

Dato che la sconsideratezza delle spese va valutata avendo come prospettiva il grado di diligenza dell'assicurato, ci si potrebbe chiedere quali siano le conseguenze rispetto all'obbligo d'indennizzo qualora sia la strategia processuale del terzo danneggiato a costringere il danneggiante ad alti costi per tutelare la propria posizione (si pensi ad esempio ad una pronuncia in primo grado che dimezzi una pretesa risarcitoria di modico valore, mentre, all'esito dei tre gradi di giudizio il danno venga riconosciuto quasi totalmente).

In tale ipotesi, si potrebbe prudentemente ipotizzare la possibilità per l'assicuratore di paralizzare la pretesa indennitaria dall'assicuratore sollevando l'exceptio doli, in quanto la richiesta creditoria risulta ad ogni modo del tutto sproporzionata rispetto al vantaggio correlato alla minima diminuzione del danno, e l'esercizio della stessa disattenderebbe comunque la ragione intrinseca dell'indennizzabilità delle spese di resistenza.

Si evidenzia, tuttavia, che la Cassazione, nell'ipotesi oggetto di vaglio dell'ordinanza in parola, ha riconosciuto la pretesa indennitaria dell'assicurato statuendo meramente che l'obbligo di cui all'art. 1917, comma 3 c.c. rientra nei naturalia negotii, in quanto integra il contratto ex lege, ai sensi dell'art. 1374 c.c. La ragione di tale sintetica dichiarazione va senz'altro rintracciata nell'omessa difesa dell'assicuratore sul ricorso.

II) Secondariamente, la Suprema Corte, con riferimento alle spese sostenute dall'assicurato per la chiamata in giudizio, non riconosce che le medesime rientrino tra le spese di resistenza, né risultino un'ulteriore esplicazione di quelle salvataggio, e quindi che siano addebitabili all'assicuratore in presenza dei requisiti e in assenza dei limiti sopra descritti. Pertanto, tali oneri economici risultano rimessi alla generale regola della soccombenza.

In particolare, a meri fini esemplificativi possono enuclearsi talune ipotesi. In primis, qualora la pretesa risarcitoria del danneggiato venga rigettata totalmente, a quest'ultimo potranno senz'altro essere addossate anche le spese affrontate dal chiamante per convenire l'assicuratore, salvo il caso in cui la chiamata risulti del tutto infondata o arbitraria.

In tale ultima eventualità, infatti, dovrà farsi applicazione del principio di soccombenza con riferimento al solo rapporto processuale instaurato tra chiamante e terzo chiamato e le relative spese rimangono a carico del primo.

La medesima conclusione può trarsi nel caso in cui la pretesa attorea trovi accoglimento, ma la domanda rispetto al rapporto assicurativo venga disattesa. Anche in tal caso, infatti, il giudice di merito dovrà autonomamente decidere sull'addebitabilità delle spese in discorso, facendo riferimento al solo rapporto processuale tra assicurato e assicuratore. Sicché, invece, qualora venga accertata la fondatezza della richiesta di manleva da parte dell'assicurato e l'assicuratore abbia contestato tale pretesa, sarà quest'ultimo che potrà venir condannato alla refusione delle spese di chiamata sostenute dalla controparte.

Infine, ogniqualvolta la chiamata in garanzia non risulti infondata, e l'assicuratore si limiti a sostenere le ragioni del proprio assicurato contro il terzo, il giudice di merito potrà valutare la sussistenza delle condizioni per poter compensare le spese in parola tra la parte chiamante e la chiamata, come avvenuto nel caso di specie.

Vale la pena specificare, che la decisione circa la compensabilità delle spese di lite costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito, rispetto al quale in sede di legittimità nulla può essere sindacato, salvo non ricorrano vizi motivazionali (da ultimo Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2018, n. 13767 secondo cui: «in tema di regolamento delle spese di lite, nella vigenza del regime giuridico introdotto con la novella dell'art. 92 c.p.c. recata dall'art. 2, comma 1, lett. a), della l. n. 263 del 2005(come nel caso in esame n.d.r), l'espressa motivazione della compensazione delle spese processuali è sottoposta al sindacato di legittimità in ordine alla verifica dell'idoneità in astratto delle ragioni poste a fondamento della pronuncia. Ne consegue che la radicale incoerenza tra la giustificazione esplicita dei "giusti motivi" posti a base della compensazione, nella specie dovuta alla peculiarità e controvertibilità delle questioni oggetto del contendere, e le ragioni del di rigetto della domanda, derivante da accertato difetto di allegazione e prova costituiscono violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.», o non si deroghi del tutto deliberatamente rispetto alla regola del victus victori (cfr. sul punto Cass. civ., sez. II, 23 febbraio 2012, n. 2736 «con riferimento al regolamento delle spese il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell'opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell'ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell'ipotesi di concorso con altri giusti motivi»).

Ragione per cui il secondo motivo è stato ritenuto inammissibile.

Osservazioni

La diversità ontologica fra le spese di soccombenza e quelle di resistenza, tanto in punto di elementi costitutivi, quanto di oggetto delle stesse, come puntualizzato in ordinanza, permette di ricordare che le relative domande di garanzia sono autonome e distinte. Sicché, qualora l'assicurato, nell'instaurare il giudizio nei confronti del proprio assicuratore o nel richiederne l'intervento, avesse richiesto solo l'adempimento dell'obbligazione principale, non avrebbe perso il diritto a richiedere quanto di spettanza in esecuzione di quella accessoria ex art. 1917 comma 3 c.c. L'assunto è stato confermato in una non più recentissima pronuncia, in cui è stato statuito esattamente che: «trattandosi di obbligazioni oggettivamente distinte, l'adempimento di ciascuna di esse può, bensì, essere chiesto congiuntamente dall'assicurato con un'unica domanda giudiziale, ma nulla vieta che venga chiesto disgiuntamente con due distinte domande, riferite, appunto, ad oggetti diversi. Ciò comporta che l'assicurato, il quale, convenuto dal danneggiato chiami in causa l'assicuratore (secondo quanto il comma quarto dell'art. 1917 gli consente di fare), può chiederne la condanna anche soltanto all'adempimento dell'obbligazione principale, come sopra definita, riservandosi di perseguire all'occorrenza, in altro successivo giudizio, l'adempimento della obbligazione accessoria» (Cass. civ., sez. III, 26 giugno 1998, n. 6340).

Tale richiesta indennitaria, da esercitare nel termine prescrizionale breve di due anni previsto dall'art. 2952 c.c., plausibilmente potrebbe essere oggetto di ricorso per decreto ingiuntivo, allegando, se in forma scritta, il contratto di assicurazione – proprio in ragione dell'integrazione normativa dell'obbligo indennitario rispetto alle spese di resistenza – o la polizza assicurativa, il provvedimento giudiziale, che pone a carico dell'assicurato le proprie spese di lite, correlato alla quantificazione degli onorari delle prestazioni offerte dal proprio difensore, nonché l'eventuale decreto di liquidazione degli oneri delle consulenze espletate in giudizio.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.