Codice Civile art. 2247 - Contratto di società. (1)

Lorenzo Delli Priscoli
Francesca Rinaldi

Contratto di società. (1)

[I]. Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi [2253] per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili.

(1) Rubrica così sostituita dall'art. 1 d.lg. 3 marzo 1993, n. 88.

Inquadramento

Sulle differenze tra società di persone e società di capitali si rinvia al commento subart. 13 c.c.

L'art.  1 del d.lgs. 3 marzo 1993, n. 88, di attuazione della Direttiva 89/667/CEE, in materia di diritto delle società, relativa alla società a responsabilità limitata con un unico socio, ha modificato la rubrica della norma in commento: dalla precedente «nozione di società» si è passati alla formula attuale «contratto di società». Tale modifica si è resa necessaria perché con tale d.lgs. il contratto non è più lo strumento esclusivo per creare una società, ma è soltanto lo strumento più frequente a tale scopo. Infatti, l'art. 2475, comma 3, c.c. nella formulazione introdotta dall'art. 4 del d.lgs. n. 88/1993 (con il quale è stata data attuazione alla citata XII Direttiva CE n. 89/667 del 21 dicembre 1989) aveva previsto che la società a responsabilità limitata poteva essere costituita anche con atto unilaterale; ancora in precedenza l'eventualità che una società potesse avere origine anche dall'iniziativa di un solo soggetto era stata espressamente riconosciuta dal legislatore (art. 2504-septies; art. 1, comma 2, l. 30 luglio 1990, n. 218; art. 6, comma 2, e art. 7, d.lgs. 20 novembre 1990, n. 356; art. 1, comma 4, l. 27 febbraio 1985, n. 51).

Tale tendenza si è accentuata con la riforma del diritto delle società avvenuta con il d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 6, con la quale la società non può più dirsi, come era in precedenza, solo uno strumento per l'esercizio collettivo dell'impresa, ma diventa una struttura organizzativa per l'esercizio della stessa, ove l'attività non deve essere necessariamente svolta in comune. La conseguenza è che il contratto non è più lo strumento esclusivo per creare una società, ma è soltanto lo strumento più frequente a tale scopo. In effetti, il d.lgs. n. 6/2003 contempla: a) la possibilità di utilizzare anche la struttura organizzativa di una società per azioni per l'esercizio di un'impresa individuale senza perdere il beneficio della responsabilità limitata (artt. 2325 e 2328 c.c.); b) l'ulteriore possibilità di realizzare, nell'ambito di tali società, un'autonomia patrimoniale «di secondo grado», mediante la destinazione di una parte dei beni ricompresi nel patrimonio sociale ad uno specifico affare e al soddisfacimento preferenziale dei creditori che su tali beni hanno fatto affidamento (artt. 2447-2447-decies c.c.).

Invece, nella Relazione al codice civile (ivi, n. 923) del 1942 si leggeva che «nel sistema del nuovo codice la società è una forma di esercizio collettivo di un'attività economica produttiva». Questa affermazione perentoria si rifletteva chiaramente nella formulazione originaria dell'art. 2247, che annoverava tra i requisiti della società «l'esercizio in comune di un'attività economica» (Galgano, 235; Gambino, 26; Gazzoni, 149; Marasà, 86).

In giurisprudenza rimane la nozione di società quale strumento di esercizio collettivo dell'impresa: secondo la Cassazione infatti le società, con o senza limitazione della responsabilità dei soci, abbiano o meno la personalità giuridica, sono tutte forme di esercizio collettivo dell'impresa, sicché ad esse, senza distinzione alcuna, deve intendersi riferita, ai fini previsti dall'art. 10 l. fall., l'espressione «impresa collettiva», ivi contenuta (Cass. I, n. 20394/2014).

Inoltre, secondo il Consiglio di Stato, le società di persone, in quanto prive della personalità giuridica, vanno considerate come una pluralità di soci in comunione di diritti, cosicché i beni che fanno parte del patrimonio sociale restano di proprietà dei soci stessi, anche se vincolati allo scopo comune (Cons. St. VI, n. 571/2012).

Afferma la Cassazione che il principio secondo il quale i rimedi generali dettati in tema di inadempimento contrattuale (risoluzione del contratto, exceptio inadimpleti contractus, ecc.) non sono utilizzabili nel diverso ambito dei contratti societari (per essere questi ultimi caratterizzati non già dalla corrispettività delle prestazioni dei soci, bensì dalla comunione di scopo, sicché i rimedi invocabili sono quelli del recesso e dell'esclusione del socio) non si applica alle società cooperative, nelle quali il rapporto attinente al conseguimento dei servizi o dei beni prodotti dalla società ed aventi ad oggetto prestazioni di collaborazione o di scambio tra socio e società si palesa ulteriore rispetto a quello relativo alla partecipazione all'organizzazione della vita sociale ed è caratterizzato non dalla comunione di scopo, ma dalla contrapposizione tra quelle prestazioni e la retribuzione o il prezzo corrispettivo. In particolare, nell'ambito delle cooperative edilizie, un tale rapporto economico-giuridico, distinto da quello sociale, instaurandosi tra società e socio prenotatario a seguito dell'attribuzione dell'unità immobiliare costruita, caratterizza l'attribuzione come atto traslativo della proprietà a titolo oneroso, per cui riprendono vigore i rimedi generali volti a mantenere o ristabilire l'equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni (Cass. I, n. 26222/2014).

Ha affermato la Cassazione che lo svolgimento di un'attività economica a fine di lucro da parte di un'associazione non riconosciuta non è sufficiente ad attribuire a tale organismo collettivo la natura giuridica di società, se non si accompagni alla comune volontà di ripartire gli utili fra i soci, nella cui assenza l'attività economica assolve una funzione meramente accessoria o strumentale, e comunque non prevalente, rispetto al perseguimento dello scopo dell'associazione. In applicazione dell'anzidetto principio, la S.C., con riguardo ad una associazione sportiva, il cui scopo era quello di contribuire alla pratica dell'educazione fisica e sportiva tra gli associati, ha ritenuto irrilevante ad integrarne la natura societaria la circostanza che alcuni di questi fossero retribuiti in base alle ore di attività svolte come allenatori (Cass. I, n. 5836/2013).

È stato inoltre precisato che nella società per azioni, la verifica della sussistenza dello scopo di lucro – il quale consiste non solo nel perseguimento di un utile (cosiddetto lucro oggettivo), ma anche nella volontà di ripartirlo tra i soci (cosiddetto lucro soggettivo) – deve avvenire con esclusivo riferimento al contenuto dell'atto costitutivo e dello statuto iscritti nel registro delle imprese, mentre resta irrilevante l'eventuale sussistenza di elementi di fatto esterni, antecedenti o successivi alla stipula dell'atto, integranti indici di una volontà dei soci difforme da quella manifestata negli atti pubblicati, ed inammissibile, una volta avvenuta l'iscrizione, l'interpretazione dell'atto costitutivo condotta secondo il criterio della comune intenzione dei contraenti, dovendo al contrario essa basarsi su criteri obiettivi. Nella specie, la S.C. ha ritenuto indici idonei ad escludere lo scopo di lucro le clausole statutarie di un istituto autonomo per l'edilizia popolare, costituito in forma di società per azioni e partecipato da un Comune, le quali stabilivano la non prevedibilità degli utili di bilancio e la devoluzione del patrimonio per il caso di scioglimento della società (Cass. I, n. 13234/2011).

Lo status di socio concreta una qualità giuridica che non può estinguersi per prescrizione, mentre sono soggetti a prescrizione i diritti che derivano da tale qualità (Cass. I, n. 7963/2017).

Identificazione o meno della società di persone con i suoi soci

In dottrina l'opinione ormai dominante è quella che riconosce nelle società di persone, pur prive della personalità giuridica, un rapporto di alterità (ossia di terzietà) tra società e soci, attribuendo di conseguenza alle medesime una soggettività; soggettività che viene distinta dalla personalità giuridica, in quanto quest'ultima implica un'organizzazione corporativa.

La questione della natura delle società di persone (società semplice, società in nome collettivo e società in accomandita semplice) sorge perché il codice civile del 1942, discostandosi dal modello francese, che attribuisce la personalità giuridica a tutte le società, riconosce la personalità alle sole società di capitali. In particolare la distinzione tra società dotate e società prive della personalità giuridica è ispirata al diritto tedesco (Portale, 597 ss.).

La tesi della soggettività delle società di persone, attualmente, è soprattutto fondata su specifici argomenti di diritto positivo, quali l'art. 2266, comma 1, per il quale è la società che diventa titolare dei diritti e delle obbligazioni relative, al pari di qualsiasi altro soggetto di diritto; dall'art. 2659 c.c., il quale stabilisce espressamente che la trascrizione degli acquisti immobiliari è effettuata, anche per le società di persone, al nome della società; dagli artt. 2292, 2314, 2295, comma 4, che riconoscono alla società un nome ed una sede , distinti da quelli dei soci (Campobasso, 45 ss.) (sulla soggettività delle società di persone cfr. amplius, infrasub art. 13).

La giurisprudenza riconosce  una «alterità» della società di persone rispetto ai soci , statuendo:

- che la cessione di quota di società di persone con patrimonio immobiliare non richiede la forma scritta, a norma dell’art. 1350 c.c., non comportando essa anche un trasferimento, dal cedente al cessionario, dei diritti immobiliari, che restano viceversa nella titolarità della società, che non è essa stessa parte del negozio di cessione (Cass. I, n. 11314/2010).

- che l’identità della società di persone, ancorché di fatto, permane nonostante il mutamento della sua compagine sociale: nella specie si è deciso che, nell’ipotesi in cui una società di fatto risulti enunciata in una pluralità di atti sottoposti a registrazione, l’inizio della decorrenza della prescrizione dei diritti dell’amministrazione finanziaria, con riguardo al contratto costitutivo della società, va fissato alla data della presentazione del primo dei suddetti, restando irrilevante che gli atti posteriori evidenzino una diversa composizione sociale (Cass. I, n. 7490/1987);

- che tra società e socio possono intercorrere rapporti diversi da quelli sociali (Cass. I, n. 2544/1972) e che, in particolare, è ammissibile l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra una società di persone e uno dei soci della medesima (Cass. I, n. 8612/1991);

- che già prima dell’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 2659, introdotto dall’art. 1, l. 27 febbraio 1985 n. 52, la società di persone poteva essere titolare di diritti reali su beni immobili (Cass. I, n. 1799/1989);

- che la responsabilità illimitata e solidale dei soci di una società personale nei confronti dei creditori sociali è una responsabilità per debito altrui ed è quindi valida ed efficace la fideiussione rilasciata dal socio a garanzia delle obbligazioni sociali (Cass. I, n. 7139/2018; Cass. I, n. 4528/2014; Cass. I, n. 26012/2007; Cass. I, n. 5642/1984; in senso contrario, per l’affermazione che si tratta invece di responsabilità per debito proprio: Cass. I, n. 196/1978; e v. altresì Cass. I, n. 12310/1999);

- che l’acquisto, da parte di una società di persone, del bene che uno dei soci aveva in precedenza venduto ad un terzo senza esserne il proprietario, non può determinare, ai sensi dell’art. 1478, comma 2, c.c., il trasferimento de iure al terzo (acquirente dal socio) della proprietà del bene per la parte corrispondente della quota di partecipazione del socio alla società, perché l’autonomia patrimoniale delle società di persone, determinando la separazione del patrimoni dei soci da quello della società, non consente comunque al socio la disponibilità del bene acquistato della società, che è il necessario presupposto del trasferimento della proprietà del bene al terzo, previsto dal cit. art. 1478 (Cass., I, n. 11827/1992);

- che la ricorrenza di un trasferimento a titolo oneroso – implicante, secondo la disciplina dell’art. 8 l. 26 maggio 1965, n. 590 (e successive modifiche), il diritto di prelazione e riscatto del fondo rustico da parte dell’affittuario coltivatore diretto – non è ravvisabile nella cessione delle quote della società di persone che di tale fondo è proprietaria (Cass. I, n. 6566/1983);

- che nel caso di sentenza pronunciata nei confronti, in proprio, di persona che sia socio di una società in nome collettivo, l’appello proposto da quest’ultima è inammissibile (Cass. I, n. 797/1987) e, per converso, è inammissibile l’appello proposto, in proprio, da singoli soci di una società in nome collettivo avverso una sentenza pronunziata nei confronti della società (Cass. I, n. 3431/1982);

- che la notificazione dell’impugnazione a una società di persone va eseguita mediante consegna di un’unica copia, indipendentemente dal numero dei soci che ne abbiano assunto la rappresentanza processuale (Cass. I, n. 1376/1993; App. Bologna 21 novembre 1992).

La «titolarità unitaria e inscindibile in capo ai soci, considerati nel loro complesso unitario, delle situazioni giuridiche integranti il patrimonio sociale» è invece affermata in altre pronunce, con le quali si è deciso:

- che non è individuabile un interesse della società (come autonomo soggetto giuridico) che non si identifichi con la somma degli interessi dei soci medesimi (Cass. I, n. 7663/1990) e non è quindi configurabile un conflitto di interessi tra una società personale e i propri soci con riferimento ad un atto della società compiuto con il consenso unanime della titolarità dei soci (Trib. Genova 13 ottobre 1988);

- che nei giudizi instaurati da (o contro) società di persone non è necessario, ai fini della rituale instaurazione del contraddittorio, evocare in giudizio la società, essendo sufficiente la presenza in giudizio di tutti i soci (Cass. I, n. 7663/1990), sempre che essi non si trovino, rispetto alla società, in una posizione differenziata (Cass. I, n. 6566/1983);

- che la sentenza emessa in un giudizio cui hanno partecipato tutti i soci della società fa stato nei confronti della società (Cass. I, n. 1799/1990);

- che la richiesta di pagamento fatta ad una società di persone (nella specie si trattava di una società di fatto tra due persone) può valere, in astratto, come atto di messa in mora dei soci (idoneo, come tale ad interrompere la prescrizione) in relazione ad un’obbligazione assunta dai medesimi prima della costituzione della società (Cass. I, n. 1296/1966);

- che la società di persone che abbia concesso in locazione un immobile adibito ad albergo può chiedere la cessazione della proroga legale ove voglia adire l’immobile medesimo all’esercizio dell’attività alberghiera di un proprio socio (Cass. I, n. 6722/1982) e che, per converso, il locatore di un immobile adibito ad uso non abitativo, che sia socio di una società di persone avente quale scopo l’esercizio di un’attività commerciale o artigianale, può far valere nei confronti del conduttore la necessità di destinare l’immobile all’esercizio dell’attività sociale (Cass. I, n. 4809/1982);

- che, nel caso in cui un immobile sia concesso in locazione ad una società di persone, la continuazione dell’attività da parte dell’unico socio rimasto, anche in epoca successiva alla liquidazione della società, non determina alcuna abusiva detenzione dell’immobile locato poiché il venir meno della pluralità dei soci determina la concentrazione nel socio superstite della titolarità delle situazioni giuridiche attive e passive già riferite unitariamente e inscindibilmente a tutti i soci (Cass. I, n. 1606/1984).

L’unificazione della collettività dei soci (che si manifesta con l’attribuzione alla società di un nome, di una sede, di un’amministrazione e di una rappresentanza) e l’autonomia patrimoniale del complesso dei beni destinati alla realizzazione degli scopi sociali (che si riflette nell’insensibilità, più o meno assoluta, di fronte alle vicende dei soci e nell’ordine, più o meno rigoroso, imposto ai creditori sociali nella scelta dei beni da aggredire) costituiscono un congegno giuridico volto a consentire alla pluralità (dei soci) una unitarietà di forme di azione e non valgono anche a dissolvere tale pluralità nell’unicità esclusiva di un ens tertium. Pertanto, mentre sul piano sostanziale va esclusa, nei rapporti interni, una volontà od un interesse della società distinto e potenzialmente antagonista a quello dei soci, sul piano processuale è sufficiente, ai fini di una rituale instaurazione del contraddittorio nei confronti della società, la presenza in giudizio di tutti i soci, facendo poi stato la pronuncia, nei confronti di questi emessa, anche nei riguardi della società stessa(Cass. I, n. 7886/2006).

Anche alle società di persone, nonostante la loro non perfetta autonomia patrimoniale, – in relazione alle previsioni degli artt. 2267, 2268 e 2304 c.c. in materia di responsabilità personale dei soci per le obbligazioni sociali –, va riconosciuta la soggettività giuridica (o personalità) e quindi la titolarità di situazioni giuridiche distinte da quelle facenti capo alle persone fisiche dei soci singolarmente o cumulativamente considerati, a norma dell’art. 2266, primo comma, secondo cui «la società acquista i diritti e assume le obbligazioni per mezzo dei soci che ne hanno la rappresentanza e sta in giudizio in persona dei medesimi», e delle disposizioni che riconoscono a tali società un proprio nome (utilizzabile anche in sede di trascrizione degli acquisti immobiliari, ai sensi dell’art. 2659 c.c., nel testo novellato dalla l. 27 febbraio 1985, n. 52) e una propria sede (Cass. n. 7228/1996).

La responsabilità del socio illimitatamente responsabile di una società di persone per le obbligazioni sociali trae origine dalla sua qualità di socio e si configura come personale e diretta, anche se con carattere di sussidiarietà in relazione al preventivo obbligo di escussione del patrimonio sociale. Pertanto, l’atto con cui il socio illimitatamente responsabile di una società in nome collettivo rilascia garanzia ipotecaria per un debito della società non può considerarsi costitutivo di garanzia per un’obbligazione altrui, ma per un’obbligazione propria (Cass. S.U., n. 3022/2015).

Società di fatto e società occulta

La società di fatto è quella conclusa per fatti concludenti, senza un accordo espresso o tacito delle parti. Le società irregolari pertanto, che sono quelle non iscritte nel registro delle imprese, non necessariamente sono anche di fatto (M. Campobasso, 277).

Una sostanziale identità con la fattispecie della società irregolare si riscontra nel caso in cui vi sia un atto fondativo della società ma lo stesso non sia stato reso conoscibile ai terzi mediante la registrazione.

In caso di società di fatto, tanto nei rapporti interni, tanto nei rapporti esterni, troveranno applicazione le regole del tipo societario “voluto” dai soci e/o di fatto adottato, nel rispetto naturalmente dei limiti normativi imposti dalla natura dell'attività esercitata, ma anche di quelle (ulteriori) prescrizioni che permettono di connotare tipologicamente, nel caso delle società commerciali, una società in nome collettivo (la responsabilità illimitata, solidale ed inderogabile di tutti i soci) ed una società in accomandita semplice (la ripartizione dei ruoli “gestori” e la differenziazione in punto di misura della responsabilità fra accomandatari ed accomandanti (DI RIENZO, 206 ss.).

Nella società occulta, invece, i soci decidono consapevolmente di non esteriorizzare il rapporto societario. La società occulta è infatti costituita con l'espressa e concorde volontà dei soci di non rivelarne l'esistenza all'esterno: può essere una società di fatto ma può anche risultare da un atto scritto tenuto ovviamente segreto dai soci. L'attività d'impresa è svolta per conto della società ma senza spenderne il nome. La società esiste nei rapporti interni tra i soci ma non viene esteriorizzata (nei rapporti esterni si presenta come impresa individuale di uno dei soci o anche di un terzo, che operano spendendo il proprio nome). Lo scopo è quello di limitare la responsabilità nei confronti dei terzi al patrimonio (di regola modesto) del solo gestore; di evitare cioè che la società e gli altri soci rispondano delle obbligazioni di impresa e siano esposti al fallimento (Bigiavi, 182).

Ritiene la Cassazione che la società di fatto, ancorché irregolare e non munita di personalità giuridica, è tuttavia un soggetto di diritto, in quanto titolare di un patrimonio formato con i beni conferiti dai soci, ed è, come tale, legittimata ad esercitare l'azione di concorrenza sleale e quella, ad essa dipendente, di risarcimento dei danni (Cass. I, n. 17792/2014).

È stato statuito che qualora per l'esercizio di un'impresa commerciale, iscritta nel relativo registro come a carattere individuale, sia stata costituita una società di fatto, per sua natura priva di riscontri formali, la cessazione di tale impresa deve ritenersi opponibile ai terzi creditori, con conseguente inizio della decorrenza del termine annuale di cui all'art. 10 l. fall., dalla data di cancellazione dal registro della impresa individuale, ove non si dimostri che il vincolo sociale si sia sciolto in data anteriore e che tale circostanza sia stata portata a conoscenza dei terzi creditori con mezzi idonei (Cass. I, n. 16145/2013).

Afferma altresì la Corte di Cassazione che la controversia relativa alla configurabilità o meno di una società di fatto ai fini della pretesa tributaria comporta il litisconsorzio necessario di tutti i soggetti coinvolti, che sussiste oltre che nelle ipotesi espressamente previste dalla legge, in tutti i casi in cui, per la particolare natura o configurazione del rapporto giuridico dedotto in giudizio e per la situazione strutturalmente comune ad una pluralità di soggetti, la decisione non possa conseguire il proprio scopo se non sia resa nei confronti di tutti questi soggetti (Cass. I, n. 14387/2014).

Ancora, si è affermato che ai fini della liquidazione della quota del socio che intenda recedere da una società di fatto, non può tenersi conto, per quantificarne, al netto dei costi, l'incidenza sull'attivo di quest'ultima, del valore derivante dalla detenzione da parte della stessa società, in forza di comodato senza specificazione di durata, di immobili appartenenti ad altro socio, trattandosi di disponibilità revocabile ad nutum dal proprietario concedente, e, dunque, di titolo inidoneo a proiettare nel futuro tale utilità; né, al medesimo scopo, può attribuirsi valore al godimento di detti beni avvenuto nel passato, in quanto esso concreta un'utilità ormai consumata, la quale non concorre a determinare la situazione patrimoniale della società all'attualità (Cass. I, n. 19321/2013).

Sotto il profilo processuale, peraltro, la Suprema Corte ha chiarito che la proposizione della domanda di riconoscimento della qualità di socio accomandante occulto rispetto a quella di riconoscimento della qualità di socio di fatto, originariamente proposta, non integra una inammissibile domanda nuova, poiché la "causa petendi" è costituita in entrambi i casi dall'accertamento del rapporto sociale, indipendentemente dalla sua esteriorizzazione nei confronti dei terzi (Cass. I n. 26133/2022).

Sulla società apparente cfr. sub. art. 2251, in questo Codice.

Elementi sintomatici della società di fatto

Per le società di persone l'iscrizione nel registro ha effetti meramente dichiarativi, ex art. 2193 c.c.: il contratto di società in nome collettivo può essere concluso anche oralmente, restando quindi necessario il documento scritto da iscrivere presso il registro delle imprese esclusivamente per quelle regolari , ma non per quelle irregolari alle quali si applica, in forza del disposto dell'art. 2293 la disposizione dell'art. 2251 c.c. dettata per le società semplici, secondo la quale il contratto di società di persone non è soggetto a forme speciali, salvo quelle richieste dalla natura dei beni conferiti.

Corollario di questa pacifica impostazione interpretativa è che la mancanza della forma scritta non impedisce al giudice l'accertamento aliunde, mediante ogni mezzo di prova previsto dall'ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell'esistenza di una struttura societaria , all'esito della valutazione del complesso delle circostanze idonee a rivelare l'esercizio in comune di una attività imprenditoriale.

Si ritengono elementi costitutivi di una società di fatto: i) il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all'esercizio congiunto di un'attività economica, ii) l'alea comune dei guadagni e delle perdite; iii) l'affectio societatis, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi.

 La Cassazione ha, infatti, affermato che l'esistenza di una società di fatto può ben essere desunta da manifestazioni comportamentali rivelatrici di una struttura sovraindividuale consociativa, assunte non per una loro autonoma valenza, ma quali elementi apparenti e rivelatori, sulla base di una prova logica, dei fattori essenziali di un rapporto di società nella gestione dell'azienda, in quanto ciò che viene in considerazione non sono gli elementi essenziali del contratto di società (costituzione di un fondo comune ed affectio societatis), rilevanti esclusivamente nei rapporti interni, ma l'esteriorizzazione del vincolo sociale, rilevante nei rapporti esterni (Cass. V, n. 9604/2017).

La Cassazione ha altresì affermato che la mancata esteriorizzazione del rapporto societario costituisce il presupposto indispensabile perché possa legittimamente predicarsi, da parte del giudice, l'esistenza di una società occulta, ma ciò non toglie che si richieda pur sempre la partecipazione di tutti i soci all'esercizio dell'attività societaria in vista di un risultato unitario, secondo le regole dell'ordinamento interno, e che i conferimenti siano diretti a costituire un patrimonio «comune», sottratto alla libera disponibilità dei singoli partecipi (art. 2256 c.c.) ed alle azioni esecutive dei loro creditori personali (artt. 2270 e 2305 c.c.), l'unica particolarità della peculiare struttura collettiva de qua consistendo nel fatto che le operazioni sono compiute da chi agisce non già in nome della compagine sociale (vale a dire del gruppo complessivo dei soci) ma in nome proprio (Cass. I, n. 17925/2016).

In relazione ai presupposti necessari per affermare l'esistenza di una società di fatto si è ritenuto:

- che le fideiussioni o i finanziamenti in favore dell'imprenditore possono costituire indici rivelatori dell'esistenza di un rapporto sociale qualora, alla stregua della loro sistematicità e per ogni altra circostanza concreta, siano ricollegabili ad una costante opera di sostegno dell'attività d'impresa, qualificabile come collaborazione del socio al raggiungimento degli scopi sociali (Cass. I, n. 2220/2003; Cass. n. 4187/1987; Trib. Napoli, 21 luglio 1993 e Trib. Napoli, 22 marzo 1994);

- che l'attività di finanziamento, svolta con caratteri di sistematicità e continuità in favore di un'impresa edilizia individuale, non determina di per sé l'assunzione della qualità di socio, a meno che non ricorrano ulteriori, decisivi elementi, quali il fondo comune, l'alea comune e l'affectio societatis , tipici della società (Trib. Bari, 13 novembre 1990);

- che affinché le fideiussioni prestate sistematicamente dai soci di una società di capitali (nella specie, a responsabilità limitata) in favore di istituti di credito a garanzia delle obbligazioni contratte dalla medesima società assumano il segno univoco del vincolo sociale, autonomo e distinto da quello che intercorre tra i soci dell'ente debitore, è necessario che da esse risultino chiari il programma stabile di finanziamento, l'oggetto sociale dell'ente collaterale costituito, la sua realizzazione attraverso un fondo comune derivato dagli apporti dei soci di fatto, la sua finalizzazione a sovvenire la società regolare, nell'intendimento di ritrarre da quel programma le utilità aggiuntive e comunque diverse da quelle di quest'ultima, sia pure in termine di economie di costi connessi a quelle sovvenzioni o garanzie, rispetto a quanto il mercato esterno consente, le quali, proprio per la coincidenza delle due compagini sociali, finiscono per costituire indirettamente l'utile del sostegno finanziario (Cass. I, n. 3349/2003). Nelle due decisioni del Tribunale di Napoli sopra indicate si avverte che se i fideiussori-finanziatori erano genitori del fallito è possibile che abbiano inteso finanziarne l'attività economica, senza partecipare alla gestione dell'impresa.

Proprio per questo, nel caso in cui si assuma l'esistenza di una società di fatto fra consanguinei, la prova della esteriorizzazione del vincolo deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l'intervento del familiare possa essere motivato dalla affectio familiaris e, di regola, non è di per sé sufficiente la dimostrazione di finanziamenti e/o pagamenti ai creditori dell'impresa da parte del congiunto dell'imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare (Cass. I, n. 6770/1996; Cass. I, n. 15543/2013).

Inoltre, la mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l'accertamento aliunde, mediante ogni mezzo di prova previsto dall'ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell'esistenza di una struttura societaria, all'esito di una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l'esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all'esercizio congiunto di un'attività economica, l'alea comune dei guadagni e delle perdite e l'affectio societatis, cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi; peraltro, è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, ai sensi dell'art. 2297 c.c., l'esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l'idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all'esterno il ragionevole affidamento circa l'esistenza della società. Tali accertamenti, risolvendosi nell'apprezzamento di elementi di fatto, non sono censurabili in sede di legittimità, se sorrette da motivazioni adeguate ed immuni da vizi logici o giuridici (Cass. I, n. 8981/2016).

Si è tuttavia deciso che quando vengono in considerazione i rapporti con l'amministrazione finanziaria è sempre necessario l'accertamento della effettiva esistenza degli elementi costitutivi del vincolo sociale, non essendo sufficiente la mera apparenza di un vincolo sociale, sia pure accompagnata dal ragionevole convincimento della sua esistenza (Cass. I, n. 8468/1998). Nella specie si afferma che l'esistenza di una società di fatto, nel rapporto tra i soci, non può essere desunta soltanto dalle dichiarazioni rese dalle persone coinvolte, essendo necessaria la dimostrazione, eventualmente anche con prove orali o mediante presunzioni, del patto sociale e dei suoi elementi costitutivi, quali: il fondo comune, l'esercizio congiunto di un'attività economica, l'alea comune dei guadagni e delle perdite, il vincolo di collaborazione in vista di detta attività (Cass. , n. 19234/2020).

È stato poi precisato che la domanda di accertamento dell'avvenuto scioglimento di una società di fatto è imprescrittibile, quale azione meramente dichiarativa, mentre si prescrive, con decorrenza dalla cessazione della fase di liquidazione, il diritto di credito alla quota di liquidazione, dato che da tale momento esso può essere fatto valere, ai sensi dell'art. 2935, spettando a chi eccepisce la prescrizione l'onere della prova in ordine all'individuazione temporale del dies a quo (Cass. I, n. 4366/2012).

Peraltro, come è stato evidenziato (FICHERA, 795 SS.), l'onere probatorio in merito all'esistenza di una società di fatto, si atteggia diversamente nella giurisprudenza della Suprema Corte, a seconda che il tema dell'esistenza della società rilevi esclusivamente nei rapporti interni fra i soci (si pensi ad una lite tra i sodali per la liquidazione del patrimonio sociale), ovvero in quelli con i terzi estranei alla compagine sociale, soprattutto in vista dell'accertamento della responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali e per l'eventuale loro soggezione al fallimento.

Nel primo caso, al fine di dimostrare l'esistenza di una società di fatto è necessario dare prova del patto sociale e dei suoi elementi costitutivi, (il fondo comune, la ripartizione dei guadagni e delle perdite, il vincolo di collaborazione in vista dell'attività); l'esistenza dell'ente collettivo, invece, non può essere desunta dalla mera esternazione del vincolo sociale, che è rilevante solo nei rapporti con i terzi e a tutela del loro affidamento.

Nei rapporti con i terzi e con i creditori, l'onere probatorio è alleggerito, in quanto la prova dell'esistenza della società di fatto, con conseguente responsabilità solidale ed illimitata di tutti i suoi soci, ai sensi dell'art. 2297 c.c., è raggiunta qualora sia offerta la prova della c.d. "esteriorizzazione" del vincolo sociale e dell'idoneità della condotta ad ingenerare all'esterno il ragionevole affidamento circa l'esistenza effettiva della società.

A ciò consegue che, per dichiarare il fallimento di una società di persone occulta che esercita attività commerciale, nonché dei suoi soci illimitatamente responsabili, è sufficiente che il giudice accerti il concorso degli elementi necessari per la costituzione della società stessa.

La disciplina applicabile alla società di fatto ed alla supersocietà di fatto

Nel codice civile non vi sono espressi riferimenti normativi al fenomeno della società di fatto. Ad ogni modo, trattandosi di fattispecie per quali, evidentemente, non è prevista l'applicazione delle norme sulla pubblicità legale, le regole richiamabili, in primo luogo, sono quelle di cui agli artt. 2297 e 2317. La società costituita senza la stipulazione di un contratto di società in forma scritta che svolga attività commerciale è, poi, regolata dalla disciplina della s.n.c. irregolare essendo esposta, pertanto, come quest'ultima al rischio di fallimento (ora apertura della procedura di liquidazione giudiziale).

Quanto alle norme applicabili al di fuori del codice civile, il principale riferimento va, infatti, fatto all'art. 147 l. fall. che, nei suoi contenuti, è stato trasposto nell'art. 256 c.c.i.i. rubricato “soci con responsabilità illimitata” (D.Lgs. n. 14/2019) pur se con talune differenze che riguardano, da un lato, la legittimazione a formulare l'istanza di estensione e, dall'altro, l'espressa previsione della possibile qualità – anche societaria – del fallito originario nell'ipotesi di cui all'attuale quinto comma dell'art. 256 l. fall.

Nella specie, stante il disposto del vigente art. 256, comma 1, c.c.i.i., in presenza di una società di fatto che svolge attività commerciale, trova applicazione il c.d. effetto estensivo della liquidazione giudiziale nei confronti dei soci responsabili illimitatamente, sia già conosciuti all'atto della dichiarazione di fallimento della società, sia la cui conoscenza sia acquisita in un secondo momento, non essendo necessario esteriorizzare il rapporto sociale ai fini dell'estensione del fallimento. In forza del quinto comma dell'art. 256 c.c.i.i., poi, la liquidazione giudiziale di un imprenditore individuale, ovvero di una società, si estende alla società (sino ad allora occulta) della quale la prima sia “socio illimitatamente responsabile”.

Con l'espressione super società di fatto ci si riferisce, poi, alla società di fatto partecipata - eventualmente oltre che da persone fisiche – da altre società, comprese le società di capitali, per le quali opera, in quanto soci illimitatamente responsabili, l'effetto estensivo della procedura di liquidazione giudiziale ex art. 256 c.c.i.i. Alla super società di fatto si applica, invero, come alle altre società di fatto, lo statuto della società in nome collettivo irregolare e quello dell'imprenditore commerciale che, se insolvente, è soggetto a procedure concorsuali.

La Suprema Corte ha riconosciuto fattispecie della super società di fatto partecipata da società di capitali a partire da tre sentenze del 2016 (Cass n. 1095/2016; Cass. n. 10507/2016; Cass. n. 12120/2016), inaugurando un orientamento consolidatosi poi con successive pronunce che hanno confermato la configurabilità della fattispecie delineando i diversi profili della fattispecie  cfr. Cass. civ. n. 12962/2017 e Cass. n. 9572/2018; Cass. n. 366/2021; Cass. n. 4712/2021; Cass. n. 6030/2021; 24269/2021). L'interpretazione fatta propria dalla Corte di Cassazione, peraltro, è stata anche confortata dalla Corte Costituzionale (Corte cost. n. 255/2017), che ha ritenuto consolidata l'esegesi estensiva dell'allora vigente art. 147, comma 5, l. fall..

La giurisprudenza più recente, peraltro, ha posto l'attenzione sulle differenze esistenti fra la supersocietà di fatto, la quale è connotata dall'esercizio di un'attività di impresa sulla base di un comune intento sociale dei soci, e la diversa fattispecie della c.d. holding di fatto, nella quale l'attività è esercitata nel precipuo interesse della holding che coordina il gruppo e solo residualmente nell'interesse del gruppo stesso.

Il punto di discrimine, secondo la Cassazione (es. Cass. n. 7903/2020), è che, per aversi la supersocietà, si richiede la prova di un “comune intento sociale conforme all'interesse dei soci” (espressione della cosiddetta affectio societatis ed equivalente a “esercizio in comune” di un'impresa, di cui all'art. 2247), ossia la compartecipazione alla gestione su un piano paritario.

Netta, invero, è la differenza fra i due fenomeni “di fatto” in quanto nella super società di fatto si configura un'attività economica organizzata “orizzontalmente” mentre nella holding di fatto le diverse società che compongono il gruppo sono organizzate “verticalmente” da parte di uno o più soggetti (siano essi persone fisiche o società) che esercitano un'attività di direzione coordinamento delle prime nell'interesse proprio.

La Suprema Corte, invero, ha precisato, da ultimo, che il fatto che le singole società perseguano l'interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo (anche solo di fatto) costituisce prova contraria all'esistenza della supersocietà di fatto e, semmai, indice dell'esistenza di una holding di fatto, nei cui confronti il curatore del fallimento della società che vi è assoggettata può eventualmente agire in responsabilità ex art. 2497 e che può, se del caso, essere a sua volta dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l'insolvenza, a richiesta di uno dei soggetti legittimati. Si evidenzia, infatti, che, nel caso dell'holding di fatto, le persone fisiche che hanno il controllo delle altre società del gruppo possono essere chiamate a rispondere, ex art. 2497, dell'abuso di attività di direzione e coordinamento ai curatori dei fallimenti delle singole società sottoposte a tale attività (Cass. n. 4784/2023); con la precisazione che “deve evitarsi il rischio l'art. 147, comma 5, legge fall. possa essere utilizzato per aggirare le disposizioni dettate e 2497 ed evitare l'esercizio di un'azione di responsabilità dai profili assai più complessi e dagli esiti incerti” (così Cass. n. 5458/2023).

In tema cfr. amplius, in questo codice, subart. 256 c.c.i.i. (ex art. 147 l.fall.) e sub art. 2361.

Rituale instaurazione del contraddittorio e litisconsorzio.

La sentenza pronunciata nei confronti di una società di persone – la quale, ancorché priva di personalità giuridica, costituisce, in ragione della propria autonomia patrimoniale, un centro di imputazione di rapporti distinto da quello riferibile a ciascun socio e fonte di una propria capacità processuale – non fa stato nei confronti dei soci che non siano stati parte del relativo giudizio e che, pertanto, non sono legittimati ad impugnare la sentenza stessa (Cass. I, n. 26245/2011).

Ritiene la Cassazione che nei giudizi instaurati nei confronti di una società di persone, ai fini della rituale instaurazione del contraddittorio, è sufficiente, dal punto di vista sia sostanziale che processuale, la presenza in giudizio di tutti i soci, nei quali si esaurisce la società, fatta eccezione nel caso in cui si ponga un problema d'indirizzo della domanda nei confronti personali dei soci e non anche della società (Cass. I, n. 25860/2011).

È stato analogamente affermato, con riferimento alla domanda di liquidazione della quota da parte degli eredi del socio defunto ai sensi dell'art. 2284 c.c., che il necessario contraddittorio nei confronti della società, titolare esclusiva della legittimazione passiva, può ritenersi regolarmente instaurato anche nel caso in cui sia convenuta in giudizio non la società, ma tutti i suoi soci, ove risulti accertato, attraverso l'interpretazione della domanda e con apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, che l'attore abbia proposto l'azione nei confronti della società per far valere il proprio credito vantato contro di essa (Cass. I, n. 5248/2012).

È stato peraltro ritenuto che il rapporto di sussidiarietà che collega la responsabilità dei soci di società di persone rispetto alla responsabilità della società non esclude la natura solidale della relativa obbligazione, con la conseguenza, sul piano processuale, dell'esclusione del litisconsorzio necessario e della relativa inscindibilità delle cause; ne consegue che, ove la sentenza di primo grado sia stata notificata ai soci e questi l'abbiano impugnata tardivamente, il giudice di appello è tenuto a dichiarare l'inammissibilità di tale impugnazione, dovendosi applicare l'art. 332 e non l'art. 331 c.p.c. (Cass. I, n. 19985/2013; Cass. I, n. 20891/2008).

Per quanto attiene, invece, all'azione di accertamento della qualità di socio, la S.C. (Cass. VI, n. 19057/2017, in tema di socio accomandante pretermesso; Cass. III, n. 5119/2004, sulla società occulta) ritiene che essa, coinvolgendo la distribuzione delle quote e la composizione del gruppo sociale, postula il litisconsorzio necessario tra la società ed i soci.

Competenza territoriale.

Ritiene la Cassazione che la clausola di deroga della competenza territoriale contenuta in un contratto concluso da una società è vincolante anche per i singoli soci, agli effetti dell'art. 2267 c.c., operando, pertanto, nei confronti della società e dei soci responsabili per le obbligazioni sociali il medesimo foro convenzionale pattuito come esclusivo, senza che possa intervenire alcuna modificazione della competenza per ragioni di connessione oggettiva ex art. 33 c.p.c., che presuppone siano convenuti davanti al medesimo giudice più soggetti per i quali operino differenti fori generali, anche convenzionali, sempreché il giudice adito sia competente per territorio per almeno una delle parti convenute (Cass. I, n. 11950/2015).

Ha successivamente chiarito la S.C. che l’appello proposto da tutti i soci di una società personale (nella specie, una società semplice) investe la stessa posizione di quest’ultima, che è priva di una soggettività distinta da quella dei primi e si identifica con la compagine sociale, sicché neppure nei suoi confronti può ritenersi formato il giudicato (Cass. I, n. 17004/2015).

Sequestri penali

 

Ha affermato la Cassazione, in sede penale, che la quota di una società di persone e, in particolare, la quota del socio accomandatario in una società in accomandita semplice, se non liberamente cedibile secondo le pattuizioni statutarie, non può essere, in quanto tale, sottoposta a sequestro penale in costanza del rapporto societario, perché l'intuitus personae verrebbe meno al venire meno della sostanziale qualità di socio in capo al soggetto che amministra la società stessa e che assume su di sè il rischio d'impresa, provocando un danno agli altri soci, quali soggetti terzi del tutto estranei alle ragioni del sequestro; e, tuttavia, quando la quota sia stata resa liberamente cedibile dalla volontà di tutti i soci o, in mancanza, quando essa resti, anche dopo il sequestro, in uso al socio che ne sia nominato custode, la stessa può essere assoggettata a sequestro penale, anche per equivalente, e confiscata, dovendo, in questi casi, l'oggetto del sequestro identificarsi nella quota che spetterà al socio all'esito della liquidazione della società (Cass. pen. III, n. 34247/2012).

E la S.C. ha ancora asserito (Cass. pen. III, n. 36929/2015) che è ammissibile il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente della quota del socio accomandatario di una società in accomandita semplice, non solo quando è fissata nello statuto dell'ente la clausola di libera cedibilità della quota, ma anche quando questa, pur dopo l'apposizione del vincolo, resta in uso al socio quale custode, poiché, in tale evenienza, la misura cautelare ha una funzione «prenotativa» ed il suo oggetto si identifica nel quantum che spetterà al socio all'esito della liquidazione della società, sicché, anche in questo caso, non si deroga al principio dell'intuitus personae in contrasto con la volontà degli altri soci.

Tale decisione fa leva, invero, sull'osservazione secondo cui «il principio dell'autonomia patrimoniale ha valenza soltanto in ambito civilistico e non si estende automaticamente alla sede penale. Nella logica penalistica, infatti, la sola condizione – per la quale i beni, e dunque anche quelli formalmente intestati a persone diverse dall'indagato, possono essere aggrediti – è quella della disponibilità, di fatto, da parte dell'imputato, anche attraverso terzi. L'accertamento di tale ineludibile presupposto, ove adeguatamente motivato, è frutto di una valutazione di merito che sfugge al sindacato di legittimità».

Bibliografia

Bigiavi, L’imprenditore occulto, Padova, 1955, 182; Campobasso, Diritto commerciale, II, Torino, 2015;Campobasso, La società semplice «irregolare», in Riv. dir. comm. 2005, I, 277; Di Rienzo, Le società di fatto, occulte ed apparenti e la super società di fatto, in Trattato delle società diretto da Donativi, Torino, 2022; Fichera, Sulla sorte della società di fatto nel fallimento, in Fall. 2022, 795 ss.; Galgano, Le società di persone, in Tr. C. M., Milano, 1972; Gambino, Impresa e società di persone, Fondamenti di diritto commerciale, Torino, 2014; Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2017; Marasà, Le società - Società in generale, in Tr. I.Z., Milano, 2000; Portale, Diritto societario tedesco e diritto societario italiano in dialogo, in Banca, borsa, tit. cred., 2018, 597 ss.

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