Codice Civile art. 2248 - Comunione a scopo di godimento.

Lorenzo Delli Priscoli
Francesca Rinaldi

Comunione a scopo di godimento.

[I]. La comunione costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una o più cose è regolata dalle norme del titolo VII del libro III [1100 ss.].

Inquadramento

Nella Relazione al codice si afferma chiaramente che «sono... escluse dal novero delle società le forme di godimento collettivo dei beni, così particolari come universali» (ivi, § 924). In coerenza con queste indicazioni, la Cassazione ha posto in evidenza che l'art. 2248 c.c., col disporre che la comunione costituita o mantenuta al solo scopo di godimento è regolata dalle norme del titolo VII del libro III, sta essenzialmente a significare che una tale comunione, che prescinde dallo scopo del comune esercizio di una attività economica per dividerne gli utili, non dà vita ad una società e rientra nel quadro della comunione quale è disciplinata alle norme suddette (Cass. I, n. 3353/1987). Sempre che le cose da godersi formino oggetto di proprietà comune tra le parti, per essere state costituite in comunione appositamente a questo scopo o per esser state mantenute tali, come può avvenire in caso di communio incidens ereditaria o familiare: in caso contrario potrà aversi un accordo col quale le parti convengano di godere congiuntamente una cosa propria di una sola di esse, ma non potrà parlarsi di comunione di godimento (Cass. I, n. 3495/1954).

Il criterio di discriminazione tra comunione e società viene ravvisato non tanto (o non soltanto) nello scopo di guadagno – che può sussistere anche nella prima, senza che ciò comporti necessariamente il suo inquadramento nello schema societario – quanto nella presenza dell'impresa, nel senso che si ha comunione quando l'attività dei comproprietari si esaurisca nel godimento dei beni, cioè sia svolta in funzione di questi, mentre si configura la società se lo scopo lucrativo sia perseguito attraverso un'attività imprenditrice, che si sostituisca o si affianchi al mero godimento, ed in funzione della quale vengano adoperati in tutto o in parte i beni comuni, che vanno perciò a costituire il fondo comune dell'organismo sociale (Cass. I, n. 4558/1979; nella giurisprudenza di merito, App. Torino 22 settembre 2009, in Soc., 2010, 416). Pertanto nella comunione prevale l'elemento statico e nella società quello dinamico, nel senso che i beni comuni, sono, nella prima, oggetto di godimento secondo la destinazione loro propria, mentre – nella seconda – sono strumento per il compimento di un'attività, i cui utili saranno poi ripartiti fra le parti (Cass. I, n. 6361/2004).

Mentre la comunione a scopo di godimento – che postula la contitolarità dei beni utilizzati – si caratterizza per il fatto che il fine esclusivo della comunione è l'uso del bene comune, la società si caratterizza nell'esercizio collettivo di un'attività svolta a fine di lucro da parte di più soggetti, in cui la contitolarità dei beni rileva non di per sé ma quale strumento attraverso il quale essa viene a realizzarsi e operare(Cass. I, n. 23952/2018).

Nella stessa comunione di azienda, ove il godimento si realizzi mediante il suo diretto sfruttamento da parte di più partecipanti alla comunione si configura sempre l'esercizio di un'impresa collettiva (nella forma della società regolare oppure della società irregolare di fatto), non ostandovi l'art.  2248 c.c., che assoggetta alle norme degli artt. 1100 e ss. dello stesso codice la comunione costituita o mantenuta al solo scopo di godimento (Trib. Salerno I, 1° luglio 2014, n. 3227). In effetti, l'attività di gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare facente capo alla società, quando condotta dinamicamente allo scopo di incrementare il reddito da dividere tra i soci, assume carattere imprenditoriale, con conseguente impossibilità di ravvisare violazione alcuna al disposto di cui all'art.  2248 c.c. (Trib. Milano, 4 novembre 1993).

Società e comunione

La comunione è sempre e soltanto di godimento, mentre la società presuppone necessariamente il fine di lucro e la divisione degli utili, per cui è vietato in modo assoluto che possa parlarsi di comunione quando vi sia attività imprenditoriale speculativa e divisione dei guadagni (Cass. I, n. 325/1975). Muovendo da queste premesse si è deciso che l'acquisto da parte di un terzo di quota ideale dell'azienda, già gestita, a scopo di profitto, dall'originario imprenditore individuale, determina tra le parti, in difetto di espressa pattuizione contraria, l'insorgere non già della comunione di godimento di cui l'art. 2248 c.c. (la quale non è configurabile nel caso in cui l'oggetto di comune utilizzazione sia costituito non dai vari beni che costituiscono l'azienda, ma da questa stessa, secondo la sua strumentale destinazione all'esercizio dell'impresa) bensì di una società di fatto, e che quindi la successiva alienazione della quota è suscettibile di dimostrazione anche attraverso la prova testimoniale, in applicazione delle norme che disciplinano la società irregolare, con esclusione dell'applicabilità dell'art. 2556 c.c. che impone la prova scritta per il trasferimento della proprietà o del godimento dell'azienda (Cass. I, n. 4053/1993).

Si ammette, peraltro, che la comunione di godimento possa sopravvivere accanto all'impresa individuale o alla società in alcuni casi. E, segnatamente: a) se uno dei due comproprietari di un'azienda affitti la propria quota di comproprietà all'altro, che usa l'intera azienda per esercitarvi un'attività d'impresa: in tal caso, accanto alla comunione, sorgerebbe un'impresa individuale; b) se i comproprietari sono più di due ed uno solo ceda agli altri in affitto la propria quota: si avrebbe coesistenza della comunione fra tutti e di una società di fatto, fra i medesimi, meno colui che ha concesso in affitto la propria quota; c) se tutti i comproprietari esercitino anche l'attività imprenditoriale e l'azienda sia conferita in godimento: vi sarebbe società sovrapposta alla comunione. La comunione verrebbe invece completamente e irreversibilmente travolta dalla società qualora l'azienda fosse conferita in proprietà in quanto titolare unica ne diverrebbe la società stessa (Trib. Napoli 28 febbraio 1989, in cui si precisa che, nel caso sub a), per potersi isolare l'ipotesi del comunista puro è necessario che non vi sia stata da parte di costui ingerenza alcuna nella gestione dell'impresa; nello stesso senso App. Genova 16 gennaio 1987).

Resta fermo che il criterio di discriminazione tra società e comunione a scopo di godimento deve essere ravvisato nel fatto che, mentre quest'ultima postula una situazione giuridica di contitolarità (presupponendo, pertanto, la comproprietà del bene in capo a tutti coloro che vi partecipino) e si caratterizza per il fatto che oggetto del godimento (fine esclusivo della comunione) è il bene comune, nella società viene in rilievo l'esercizio in comune di un'attività svolta a fine di lucro da parte di più soggetti, per l'esercizio della quale non è necessaria alcuna comunione di beni, che sono soltanto lo strumento attraverso il quale essa viene a realizzarsi e operare (Cass. I, n. 6361/2004).

È stato successivamente ribadito che l'elemento discriminante tra comunione a scopo di godimento e società è costituito dallo scopo lucrativo perseguito tramite una attività imprenditoriale che si sostituisce al mero godimento ed in funzione della quale vengono utilizzati beni comuni, e che pertanto, ove i beni comuni siano utilizzati direttamente da parte dei partecipanti alla comunione per l'esercizio di un'attività d'impresa, è configurabile l'esercizio di una impresa collettiva (nelle forme della società regolare oppure irregolare o di fatto), non ostandovi l'art. 2248 c.c., che assoggetta alle norme dell'art. 1100 c.c. la comunione costituita o mantenuta al solo scopo di godimento (Cass. I, n. 3028/2009).

Si ritiene, infatti, che sussiste l'elemento dinamico-speculativo, espressione di svolgimento, per mezzo dei beni conferitivi, di un'attività imprenditoriale e caratteristico della società, e non l'elemento statico del godimento dei beni comuni che contraddistingue la comunione, quando da un lato risulta che gli immobili di una società di persone furono acquistati col proposito che ne risultasse nel tempo potenziata la vocazione abitativa o turistica, che fu posta in essere un'operazione speculativa consistente nella vendita di terreni e fabbricati rurali e nel riacquisto di parte dei villini costruitivi, nonché la distribuzione di utili e la riscossione di finanziamenti; e dall'altro non si ha evidenza di un diretto godimento degli immobili, a titolo personale, da parte dei soci (Cass. I, n. 33873/2022).

Società di mero godimento

È assolutamente prevalente, in dottrina, il convincimento che l'art. 2248 c.c. possa e debba essere letto nel senso che sono vietate le società di mero godimento, quelle cioè «il cui patrimonio sia costituito esclusivamente dagli immobili conferiti dai soci e la cui attività si esaurisca nel concedere tali immobili in locazione a terzi o agli stessi soci, senza produrre e fornire agli uni o agli altri alcun servizio collaterale» (così, Abbadessa 15; G.F. Campobasso, 31; Cottino 10; G. Ferri 366; Galgano 249; Jaeger, Denozza 122; in senso contrario Di Sabato 21).

L'orientamento della giurisprudenza, contrariamente a quel che potrebbe apparire dalle decisioni riportate sul precedente paragrafo, è assai meno netto. Infatti, Cass. I, n. 4644/1979 ha puntualizzato che «sono coloro i quali pongono in essere il patto sociale nella loro autonomia negoziale a stabilire se un determinato bene deve essere strumentale rispetto all'attività che si propongono di svolgere, oppure se deve essere l'attività ad assumere la funzione strumentale di godimento del bene e una volta effettuata la scelta societaria, coloro che l'anno posta in essere non possono rifiutarsi di soggiacere alle regole previste per gli imprenditori sol perché l'attività non è stata in concreto esercitata o è stata esercitata in modo ridotto, oppure perché potevano scegliere altra via giuridica, che non quella societaria per lo scopo che si prefiggevano».

Il Tribunale di Roma, a sua volta, ha ammesso che una società possa svolgere un'attività di mera gestione di immobili, in base al rilievo che il contratto sociale può avere ad oggetto l'esercizio di un'attività economica non necessariamente commerciale (Trib. Roma 30 aprile 1981) e il Tribunale di Milano ha escluso la possibilità di dichiarare la nullità di una società commerciale il cui oggetto consista nel mero godimento di un bene (Trib. Milano 29 gennaio 1987, nel caso di specie, peraltro, l'oggetto sociale individuato nell'atto costitutivo comprendeva anche «l'acquisto, la vendita e la permuta di immobili» ed era quindi qualificabile, a tutti gli effetti, come imprenditoriale).

La necessità che la società abbia ad oggetto «una delle attività economiche che caratterizzano l'impresa e che sono elencate nell'art. 2195 c.c.» è stata d'altro canto ribadita da Cass. I, n. 2104/1982 e la stessa Corte con una diversa sentenza, posta dinanzi ad un caso in cui una società per azioni, contrariamente al dichiarato scopo sociale di natura imprenditoriale (nella specie: acquisto, vendita, gestione, costruzione e miglioramento di beni immobili), dopo la sua costituzione e la registrazione, non aveva in concreto esercitato un'attività imprenditoriale bensì, limitando l'attività all'acquisto di un fondo rustico ed alla concessione di esso in affitto a coltivatore diretto, ha statuito che il negozio costitutivo della società era simulato, e fra gli apparenti soci, una reale situazione di comproprietà del fondo, di cui i titolari azionari rappresentavano solo le quote di appartenenza (Cass. I, n. 8939/1987).

È stato altresì affermato che l'attività svolta dalle società che si limitano ad affittare gli immobili non può essere esclusa dall'iscrizione alla gestione commercianti in quanto attività commerciale a tutti gli effetti, secondo gli articoli 22472248 c.c., nonché all'articolo 6, comma 3, testo unico delle imposte sui redditi. Il giudizio di abitualità e di prevalenza è una valutazione relativa, non assoluta: i compiti svolti dall'amministratore a favore della società sono da parametrarsi all'attività svolta dalla società medesima (Trib. Torino, 2 luglio 2014).

Secondo la giurisprudenza più recente, infatti, non è contraria a norme imperative la costituzione di una società semplice di mero godimento, che non svolga attività commerciale ma di mera locazione di immobili, riconducibile ad un contratto tipizzato funzionale alla mera riscossione dei canoni. Invero non è giuridicamente corretto sostenere che l' art. 2248 c.c. vieta la costituzione di società di semplice godimento dei beni sociali, poiché la norma codicistica ha carattere meramente ricognitivo delle distinte fattispecie astratte della comunione dei beni, artt. 1100 ss. c.c., e del contratto costitutivo di società (Trib. Genova , sez. lav. , 10/01/2019 , n. 6).

Per la dottrina prevalente la fattispecie andrebbe invece ricondotta alla categoria del «negozio indiretto»: sul punto, Abbadessa, 15; Marasà 613 ss.

Ha affermato la Cassazione in tema di ILOR sui redditi derivanti da vendita immobiliare che, emesso un avviso di accertamento a carico di una società di fatto (costituita da tutti i comproprietari-venditori), il giudice tributario, ove accerti l'inesistenza di una tale società, non può ritenere, ciononostante, valido l'avviso impugnato sotto il profilo dell'esistenza, tra quei comproprietari, di un'organizzazione non societaria (a norma dell'art.  2248 c.c., con indebito sconfinamento nell'attività impositiva dell'amministrazione finanziaria), ma deve limitarsi a dichiarare la nullità dell'atto impugnato (Cass. I, n. 7842/1991).

L'art. 29 l. 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure urgenti per la stabilizzazione della finanza pubblica), con norme di intrinseca valenza eccezionale e di diritto transitorio, lungi dall'abrogare implicitamente l'art.  2248 c.c., ha legittimato l'esistenza di una categoria di società semplici che possono avere per oggetto esclusivo o principale la gestione di beni immobili (App. Trieste, 23 dicembre 1999).

Da ultimo, un giudice di merito ha affermato che deve considerarsi legittima la costituzione di società semplici di mero godimento e, di conseguenza, va ammessa l'iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese. Infatti, tale tipologia di ente non trova espressa disciplina nell'art.  2248 c.c., ma assume rilevanza con ripetuti interventi del legislatore volti ad agevolare la trasformazione di società formalmente commerciali in società semplici di mero godimento: la normativa in questione, pur essendo di natura fiscale e finalità tipicamente antielusive, produce l'effetto di uno stabile radicamento della fattispecie «società di godimento» nell'ordinamento e importa quindi l'ammissibilità, sotto il profilo civilistico, di tali società. Tale pronuncia origina dalla richiesta, formulata dall'Ufficio del Registro delle Imprese di Roma, di cancellazione d'ufficio, ai sensi di quanto disposto dall'art. 2191 c.c., dell'iscrizione nella sezione speciale di una società semplice, avente ad oggetto esclusivamente l'acquisto e l'amministrazione di beni immobili, nonché il mero godimento di questi ultimi da parte dei soci: un'attività, quindi, sottratta, alla disciplina normativa delle società, ex art. 2248 c.c. La legittimità della costituzione di una società di mero godimento è – secondo la sentenza da ultimo citata – la soluzione necessitata per non creare delle problematiche situazioni di disparità, formale e sostanziale, di trattamento nei confronti di soggetti giuridici simili. Il Tribunale di Roma, in effetti, giunge a ritenere perfettamente legittima l'esistenza e l'iscrizione di una società di mero godimento, all'esito di un giudizio di ragionevolezza, assumendo quale fondamento argomentativo l'avvenuta introduzione, quasi in maniera surrettizia, di siffatto archetipo societario da parte di numerosi interventi nella normativa fiscale (Trib. Roma, 8 novembre 2016).

Più di recente ancheTrib. Torino sez. II, 31/08/2020, n.2867, ha affermato che, nel caso di società che esercita un'attività di gestione e godimento del patrimonio immobiliare comune (attraverso il godimento diretto da parte di alcuni dei soci e prevalentemente attraverso la locazione del patrimonio immobiliare), non può farsi applicazione delle norme in tema di comunione, atteso che l'attività svolta risulta compatibile con la forma societaria, sia pure nella forma della società semplice.

Deve, invero considerarsi come il legislatore sia ripetutamente intervenuto, attribuendo rilevanza alle società aventi scopo di godimento e gestione dei beni con le disposizioni dettate, con finalità eminentemente fiscali, dall'art. 29 l. n. 449/97, poi dall'art. 3, comma 1, comma 7, l. n. 448/2001, dall'art. 1, commi 111-117, l. n. 296/2006, dall'art. 1, comma 129, l. n. 244/2007 e  dall'art. 1, comma 115, l. n. 208/2015 . Il Tribunale evidenzia, infatti, che tali norme, sia pure aventi valenza transitoria, ma reiterate nel tempo, hanno previsto l'assegnazione agevolata ai soci, dal punto di vista tributario, di beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri, non utilizzati come beni strumentali nell'attività propria dell'impresa, o di quote di partecipazione in società, da parte delle società in nome collettivo, in accomandita semplice, a responsabilità limitata, per azioni e in accomandita per azioni, prevedendo i medesimi benefici - per quanto in questa sede rileva - per le società, che si fossero trasformate in società semplici. La volontà legislativa era evidentemente quella di riportare nel corretto alveo quelle attività esercitate, a fini di elusione fiscale, in forma non consentite dall'ordinamento, ma, se così è, ne consegue che quelle attività sono consentite se esercitate attraverso le forme della società semplice.

Dal momento che si è reiteratamente incentivata, con agevolazioni di natura fiscale, la trasformazione di società formalmente commerciali in società semplici di mero godimento (aprendo, di fatto, alla legittima sussistenza di tale ultimo archetipo societario nel panorama ordinamentale), deve ritenersi ammissibile la costituzione ex novo di società semplici di mero godimento, nonché la loro iscrizione nella sezione speciale, nel pieno rispetto del generale principio costituzionale di uguaglianza e di coerenza dell'intero sistema legislativo, nell'attesa di un auspicabile intervento legislativo di coordinamento tra il modello codicistico delineato dagli 2247 e 2248 c.c. e la disciplina strettamente fiscale. L'ammissibilità di società di mero godimento sembra infatti riconosciuta dallo stesso legislatore, che consente espressamente la costituzione di «società di ogni tipo che non svolgono attività commerciali i cui beni immobili sono totalmente destinati allo svolgimento delle attività politiche dei partiti rappresentati nelle assemblee nazionali e regionali, delle attività culturali, ricreative, sportive ed educative dei circoli aderenti ad organizzazioni nazionali legalmente riconosciute, delle attività sindacali dei sindacati rappresentati nel Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro» (art. 61, d.l. 30 agosto 1993 n. 331, conv. in l. 29 ottobre 1993 n. 427) (Spada, 65).

Sono molti i cambiamenti contenutistici del concetto di societàle società possano essere finalizzate non già ad una iniziativa collettiva speculativa, ma ad una iniziativa consortile (in virtù dell'art. 2615-ter c.c.) e, parallelamente, alcuni tipi sociali possono essere costituiti per atto unilaterale e finalizzati, fin dalla stessa costituzione, al servizio di iniziative individuali e non collettive (senza violazione di alcun enunciato normativo, poiché inesistente sul punto). Si è assistito, in definitiva, al disancoramento  di tutti o alcuni degli enti organizzati, denominati «società», dal paradigma funzionale di cui all'art. 2247 c.c., sia in punto di risultato collettivamente perseguito (divisione degli utili) sia in punto di esercizio dell'attività (che, programmaticamente, può essere collettiva oppure individuale). La società semplice è destinata dunque a divenire non solo la tipologia sociale cui ricondurre l'esercizio di attività economiche collettive non commerciali, ma anche un regime societario facoltativo del godimento collettivo, rispetto alla comunione (Cetra, 9).

Ammessa, pertanto, in linea prevalente la figura della società semplice di mero godimento, un profilo dubbio riguarda, poi, la questione se gli amministratori di una s.s. di godimento, nel perseguire lo scopo di godimento che caratterizza l'attività – che impresa non è, pur se svolta da un'entità organizzativa normalmente imprenditoriale - debbano dare attuazione al principio di adeguatezza degli assetti ex artt. 2086 e 2257 (per l'applicazione del principio dell'adeguatezza degli assetti anche alla s.s. di godimento cfr. FAUCEGLIA, 278; SU ADEGUATEZZA DELI ASSETTI E SOCIETÀ DI PERSONE CFR. amplius sub art. 2257).

La multiproprietà azionaria

Problemi analoghi possono sorgere in relazione alla c.d. multiproprietà azionaria che si caratterizza, rispetto a quella immobiliare tipica, per il fatto di non comportare l'attribuzione di una posizione di diritto reale sull'immobile in favore dei c.d. multiproprietari. Questi ultimi acquistano, infatti, solo una quota del capitale sociale, la cui titolarità rappresenta il presupposto per il riconoscimento, sulla base di un rapporto distinto da quello sociale, di un diritto personale di godimento su una frazione del bene per un periodo limitato dell'anno solare (Cass. I, n. 5494/1999).

Di qui il dubbio che la società si limiti in tal caso a gestire l'immobile, regolandone il godimento tra soci, senza svolgere alcuna attività propriamente lucrativa, in violazione dell'art. 2248 (così per tutti, Gazzoni, 748, 281; Marasà, 204); dubbio la cui fondatezza è stata esclusa dalla Cassazione con riferimento all'ipotesi in cui l'attività della società non si esaurisca nell'organizzazione del godimento «turnario» dell'immobile (come nel caso della multiproprietà c.d. «pura»), ma ricomprenda anche la prestazione di servizi di vario genere (ristorazione, impianti sportivi, manutenzione e pulizia dei locali) in favore dei soci, dando luogo a quella che viene comunemente chiamata come mutualità «impura» (Cass. I, n. 4088/1997): per l'opinione che i caratteri della società sarebbero individuabili anche nell'ipotesi della multiproprietà «pura» (Confortini, 8).

Trasformazione di comunione in società: la c.d. comunione d'impresa

Se i beni di proprietà comune non vengono più utilizzati per l'esercizio di un'attività economica la società si trasforma in comunione. Si è ritenuto che detta ipotesi si realizzi:

— nel caso in cui una società dia in affitto la propria azienda (Graziani, 10): il tribunale di Caltanissetta aveva invece ravvisato nell'ipotesi considerata l'esistenza di una società semplice (Trib. Caltanissetta 12 luglio 1947);

— nel caso in cui, morto uno dei soci di una società di fatto, il socio superstite dichiari esplicitamente di non voler continuare la società con gli eredi del socio defunto, e la società venga a sciogliersi, fra il socio superstite e gli eredi del socio defunto si stabilisce una comunione di beni (App. Brescia 26 novembre 1947).

La Cassazione ha escluso che il fatto che una società (nella specie di capitali) cessi di svolgere ogni attività di impresa, dedicandosi esclusivamente all'amministrazione del proprio patrimonio immobiliare, ma conservando la propria struttura societaria, comporti il venir meno della società e la trasformazione dell'impresa sociale in una comunione a scopo di godimento, con la conseguente applicazione delle regole dettate dagli artt. 1100 e ss. del codice civile (Cass. I, n. 7209/1998). Da tale premessa la sentenza ha tratto argomento per negare che la cessione dell'intero pacchetto azionario avesse comportato il trasferimento del diritto di proprietà degli immobili ricompresi nel patrimonio sociale e che fossero quindi applicabili le disposizioni in tema di prelazione e riscatto in favore del conduttore (artt. 38 e 39, l. 27 luglio 1978, n. 392).

Più numerose sono state le occasioni d'intervento, da parte della giurisprudenza, nell'ipotesi inversa di c.d. trasformazione della comunione in società.

Il problema si è posto (e si pone) soprattutto nel caso in cui più soggetti acquistino, per successione ereditaria, un complesso di beni in precedenza utilizzati dal de cuius per l'esercizio di una attività d'impresa. In proposito, muovendo dalla premessa che la sola comproprietà dell'azienda di per sé non implica l'esercizio dell'impresa e quindi il coinvolgimento dei partecipanti alla comproprietà in un vincolo societario, il quale sorge solo in conseguenza di un effettivo esercizio imprenditoriale sostanziantesi in una gestione diretta a scopo di profitto (Cass. I, n. 2951/1955; App. Genova 16 gennaio 1987) si è deciso che un'azienda facente parte di un patrimonio ereditario forma oggetto di una comunione incidentale fra gli eredi e la sua gestione è soggetta alle regole della comunione se e fino a quando costoro non manifestino la volontà di proseguirla in rapporto di società, sostituendo allo scopo del godimento della cosa comune, che costituisce l'elemento caratteristico della comunione, lo svolgimento in comune di un'attività speculativa al fine di dividerne gli utili, che rappresenta l'elemento dinamico del rapporto di società (Cass. I, n. 12087/1992).

Ha affermato la Cassazione che l'art.  2248 c.c. non può applicarsi al caso in cui la cosa in comunione sia un'azienda ed il godimento di essa avvenga con un diretto sfruttamento della medesima, da parte dei partecipanti alla comunione, che la usino ed utilizzino direttamente a proprio profitto: è la stessa particolare natura dell'azienda quale bene il cui godimento e sfruttamento danno luogo all'esercizio dell'impresa, a qualificare siffatta comunione di godimento come “impresa” e precisamente, come impresa collettiva. Quindi qualora i proprietari ed usufruttuari del bene ”azienda” continuino, con l'azienda caduta in successione ereditaria, direttamente l'esercizio dell'impresa del defunto, si avrà un'impresa collettiva, comune a tutti i medesimi e qualificabile come società di fatto. Nè vale ad escludere ciò la circostanza che l'azienda rientri in un patrimonio accettato con beneficio d'inventario (Cass. III, n. 1251/1984). Nel caso di comunione incidentale di azienda, ove il godimento di questa si realizzi mediante il diretto sfruttamento della medesima da parte di uno o più partecipanti alla comunione, è configurabile l'esercizio di un'impresa individuale o collettiva (nella forma della società regolare oppure della società irregolare o di fatto), non ostandovi l'art.  2248 c.c. (che assoggetta alle norme degli artt. 1100 e ss. dello stesso codice la comunione costituita o mantenuta al solo scopo di godimento). Pertanto, nel caso in cui l'erede con beneficio d'inventario ed il coniuge usufruttuario ex lege (art. 581, vecchio testo, c.c.) esercitino, congiuntamente ed in via di fatto, lo sfruttamento diretto dell'azienda già appartenuta al de cuius, è esclusa la configurabilità di una mera amministrazione di beni ereditari in regime di comunione incidentale di godimento e si è, invece, in presenza dell'esercizio di attività imprenditoriale da parte di una società di fatto, con l'ulteriore conseguenza che, in ordine alla responsabilità per i debiti contratti nell'esercizio di tale attività, restano prive di rilievo la qualità successoria delle persone anzidette e le correlative limitazioni di responsabilità (Cass. III, n. 1251/1984).

L'indagine compiuta dal giudice del merito sulla sussistenza, nella concreta fattispecie negoziale, di una comunione di beni o di azienda (art. 2248 c.c.), caratterizzata dallo scopo del godimento di una o più cose, ovvero di una società (art. 2247 c.c.), caratterizzata dal conferimento di beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica, al fine di dividerne gli utili, in quanto si risolve nell'apprezzamento di elementi di fatto, è incensurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione adeguata ed esente da vizi logici o giuridici (Cass. I, n. 139/1981).

Alcune decisioni richiedono per la «trasformazione» della comunione in società una «espressa manifestazione di volontà» da parte di tutti gli interessati (Cass. I, n. 3655/1981). In caso contrario, non sarebbe configurabile una società e i beni, anche se utilizzati per l'esercizio di un'attività economica, non sarebbero oggetto del vincolo di destinazione che caratterizza le società ma di un semplice rapporto di comunione, sia pure costituita per lo svolgimento di un'attività di impresa (c.d. comunione d'impresa): così esplicitamente Cass. I, n. 2784/1952.

Una situazione analoga si realizzerebbe, secondo quanto si afferma in altra decisione della stessa Corte, quando il conferimento dell'immobile in società non è stato effettuato nel rispetto delle forme prescritte dall'art. 1350, n. 9 c.c. (Cass. I, n. 2017/1982, in cui si puntualizza che ciò precluderebbe «il sorgere del vincolo di destinazione dei beni, che ha la sua fonte nel contratto sociale... e rappresenta l'elemento distintivo fra società e comunione», pur aggiungendo che «l'effettiva e continuata utilizzazione commerciale dell'immobile indiviso può realizzare una forma di comunione di impresa... che, distinguendosi nettamente dalla comunione di godimento, perché produttiva non di frutti civili, ma di utili, si concreta nell'esercizio di un'attività comune da parte dei singoli imprenditori, senza la creazione di un autonomo patrimonio sociale»).

Mancherebbe in tal caso, «invero, a causa della inosservanza dell'onere della forma (art. 1350, n. 9 c.c.), a cui si collegano gli oneri ulteriori di pubblicità del vincolo nei confronti di terzi (art. 2643, n. 10, c.c.), la fonte negoziale necessaria (artt. 2247 e 2251 c.c.) a mutare la condizione giuridica della comproprietà in patrimonio sociale». Onde, con l'utilizzazione commerciale dei beni comuni si svolgerebbe un'attività di impresa «collettiva ma non sociale», per cui ciascuno dei partecipanti sarebbe un imprenditore «che direttamente risponde dell'obbligazione assunta dall'impresa comune con il proprio patrimonio e la propria quota di comproprietà».

Successivamente la Cassazione si è orientata per la non configurabilità di una «comunione d'impresa», come situazione intermedia la società e la mera comunione di godimento, in quanto si è dell'avviso che tale nozione si pone in contrasto con la positiva disposizione di legge, contenuta nell'art. 2248 c.c., secondo la quale il concetto di comunione è limitato alla comunione, «costituita o mantenuta al solo scopo di godimento di una o più cose»; perché comporta il mantenimento della comunione dei beni allo scopo non di semplice percezione di frutti civili ma dell'esercizio, pur senza il vincolo del patrimonio ad una destinazione sociale, di un'attività economica imprenditoriale per dividerne gli utili (Cass. I, n. 13291/1999; e v. Cass. n. 10690/2016).

Una giurisprudenza di merito (App. Genova 9 giugno 1994, in Società, 1995, 793), ha affermato che comunione di godimento e società sono fattispecie che differiscono, sul piano funzionale e teleologico, in ciò: che nella prima il bene comune forma oggetto del godimento e tale godimento rappresenta il fine della comunione, mentre nella seconda il godimento è solo il mezzo per l'esercizio di un'attività di impresa; sul piano formale e strutturale, tale differenza si traduce nella connotazione della società come contratto, mentre la comunione si esaurisce in una situazione giuridica di contitolarità; è possibile l'evoluzione da società a comunione e viceversa, ma «non è mai concepibile una comunione d'impresa che non sia anche società».

Si ammette, tuttavia, che solo alcuni dei contitolari assumano l'effettiva gestione dell'attività commerciale e la correlativa veste imprenditoriale, e che gli altri ne restino estranei, limitandosi a conservare il diritto dominicale pro quota sui beni aziendali e percependo un canone a titolo di affitto per la facoltà concessa ai comproprietari di utilizzare nell'impresa anche tale quota di beni (Cass. I, n. 4986/1997).

La stessa Corte, con specifico riferimento all'ipotesi in cui l'immobile sia conferito senza il rispetto dei requisiti formali richiesti dal cit. art. 1350, n. 9, c.c., ha precisato, modificando l'indirizzo precedentemente manifestato con Cass. I, n. 2017/1982, che l'invalidità del conferimento della proprietà o del qualificato godimento dell'immobile in comunione e dei mobili ad esso pertinenti non esclude l'attuazione, da parte dei coeredi, della gestione in comunione, nel comune nome ed interesse, di un'impresa avente come strumento tali beni (in ordine ai quali i coeredi stessi hanno piena facoltà di diretta o indiretta utilizzazione), ovvero la costituzione fra questi ultimi di una società personale avente nel patrimonio altri beni, e non quelli anzidetti, anch'essi tuttavia utilizzati legittimamente (in rapporto di alterità al riguardo della loro appartenenza), in forza della permanente loro qualità di oggetto della comunione incidentale ereditaria (Cass. I, n. 2960/1982) e riconosce, sempre più di frequente, che la trasformazione di una comunione in società – la prima, caratterizzata dalla prevalenza dell'elemento statico del godimento dei beni secondo la destinazione loro propria e, la seconda, dall'elemento dinamico della strumentalità dei beni per il compimento di un'attività, i cui utili saranno poi ripartiti tra le parti – può risultare, oltre che da un atto formale, anche attraverso il comportamento in concreto assunto dai comproprietari con lo svolgimento, di fatto, di attività di impresa e l'utilizzazione all'uopo di beni comuni (Cass. I, n. 12087/1992). In argomento si veda pure Trib. Piacenza 22 dicembre 2011, in Giur. comm. 2012, II, 1033, per alcune considerazioni sugli artt. 2500-septies e 2500-octies c.c. e sulla trasformazione da o verso la comunione d'azienda.

In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, la Cassazione penale ha affermato che nel caso in cui la società fallimentare sia costituita dagli eredi dell'imprenditore, occorre individuare il limite tra comunione incidentale nell'azienda (costituitasi per il semplice godimento, ai sensi dell'art.  2248 c.c.), e vero e proprio esercizio dell'azienda ereditaria, a seguito di successione mortis causa, comportante la possibilità di continuazione dell'impresa, sia pure in forma societaria. In tale secondo caso, trattandosi di impresa funzionalmente collegata a quella individuale del de cuius, rimangono a carico degli eredi, non solo i debiti che essi hanno contratto in qualità di soci, ma anche quelli gravanti sulla impresa individuale (Cass. pen. V, n. 2724/2000).

Anche la dottrina è generalmente contraria al riconoscimento, dell'ammissibilità della c.d. «comunione d'impresa»: per tutti, Campobasso, 32; Ferrara, 201; Amatucci, 196; Jaeger, Denozza, 122 ss.; Grippo, 147 s.).

L'impresa coniugale

Una forma di «comunione d'impresa» sarebbe stata tuttavia introdotta con l'art. 177, lett. d), c.c. che annovera tra i possibili oggetti della comunione legale tra coniugi (la quale peraltro avrebbe caratteristiche che la differenzierebbero profondamente da quella ordinaria: Bianca, 66) anche «le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio ». In questo caso, a differenza dell'ipotesi prevista dall'art. 230-bis c.c., si sarebbe in presenza di una gestione collettiva dell'impresa in forma non societaria (Cass. I, n. 13390/1992; App. Milano 10 maggio 2006, in Fam. e dir., 2008, 363, secondo cui nell'impresa coniugale, a differenza dell'impresa familiare, la collaborazione dei coniugi si realizza attraverso la gestione comune dell'impresa; nello stesso senso, in dottrina, per tutti: Campobasso, 34; Galgano, 94; Jaeger, Denozza, 128; Grippo, 148; Marasà, 636; Giaccardi-Marmo, 618): con la disposizione in esame il legislatore avrebbe configurato quindi una forma di esercizio in comune di una attività d'impresa, alternativa rispetto alla società, la cui disciplina non sarebbe conseguentemente applicabile (per tutti, oltre gli Autori già ricordati: Galgano, 94).

Secondo tale indirizzo interpretativo (che, pur essendo prevalente, non è tuttavia pacifico: v. infatti in senso contrario, Auletta, 433) si sarebbe pertanto in presenza di una impresa collettiva, che non darebbe vita alla formazione di un patrimonio autonomo e il cui esercizio sarebbe regolato dalle norme che disciplinano la comunione legale tra coniugi anziché da quelle relative all'amministrazione delle società (G.F. Campobasso, 35; Marasà, 636; Giaccardi-Marmo, 642).

Si è ritenuto che la costituzione di una società in nome collettivo fra coniugi in regime di comunione legale sia ammissibile soltanto previo scioglimento del regime di comunicazione legale rispetto ai beni che costituiscono l'azienda coniugale nelle forme prescritte dagli artt. 210 e 162 c.c. (Trib. Casale Monferrato 30 marzo 1979, cit.).

Nello stesso senso, in dottrina, Cottino, 144; Oppo, 389; Marasà, 647. Affermano invece che i coniugi potrebbero liberamente optare per la disciplina societaria Campobasso, 34; Pavone La Rosa, 18.

Bibliografia

Abbadessa, Le disposizioni generali sulle società, in Tr. Res., XVI, Torino, 1985; Amatucci, Società e comunione, Napoli, 1971; Auletta, Impresa e azienda coniugale, in Banca, borsa, tit. cred. 1984, I; Baralis, La validità “stabile” della società semplice di mero godimento immobiliare, in Riv. notariato, 2017, I, 427 ss.; Beccara, I confini tra l'impresa coniugale e l'impresa familiare, in Fam. e dir. 2008, 366; Bianca, Diritto civile, 2, Milano 1981, 66; G.F. Campobasso, Diritto commerciale, II, Torino, 2015; Cetra, Impresa, sistemi e soggetti, Torino, 2008; Confortini, voce Multiproprietà, in Enc. giur., Roma, 1990, XX; Cosconati, Comunione e società: il labile confine tra società di fatto, comunione d'impresa e godimento «comune» di un bene immobile, in Riv. neldiritto 2016, 7; Cottino, Diritto commerciale, I, 2, Padova, 1994; D'Allura, L'impresa familiare, l'impresa coniugale e la partecipazione dei coniugi a società, in Giust. civ. 2005, II, 91; D'Attorre, Comunione d'impresa, società di fatto e trattamento dei creditori, in Giur. comm. 2010, II, 656; Di Sabato, Diritto delle società, Milano, 2011; Fauceglia, Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2021; Ferrara, Imprenditori e società, Milano, 1980; G. Ferri, La società, in Tr. Vas., Torino, 1985; Galgano, Diritto civile e commerciale, III, Padova, 1990; Giaccardi-Marmo, La partecipazione in società di persone nel sistema della comunione legale tra coniugi, in Giur. comm. 1980, I; Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1963; Jaeger, Denozza, Appunti di diritto commerciale, I, Milano, 1994; Grippo, in Aa.Vv., Diritto commerciale, Bologna, 1993; Marasà, Impresa coniugale, in Digesto comm., Torino, 1992, vol. VII, 151; Marasà, Impresa coniugale, azienda coniugale e società, in Giur. comm. 1988, I, 619; Oppo, Diritto di famiglia e diritto dell'impresa, in Riv. dir. civ. 1977, I; Pavone La Rosa, Comunione legale e partecipazioni sociali, in Riv. soc. 1979; Severi, Impresa coniugale ed impresa familiare, in Fam., pers. e succ., 2007, 133; Spada, Dalla società civile alla società semplice di mero godimento, in Studio n. 69-2016/I, Consiglio Nazionale del Notariato.

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