Codice Civile art. 2249 - Tipi di società.Tipi di società. [I]. Le società che hanno per oggetto l'esercizio di un'attività commerciale [2195] devono costituirsi secondo uno dei tipi regolati nei capi III e seguenti di questo titolo. [II]. Le società che hanno per oggetto l'esercizio di un'attività diversa sono regolate dalle disposizioni sulla società semplice [2251-2290], a meno che i soci abbiano voluto costituire la società secondo uno degli altri tipi regolati nei capi III e seguenti di questo titolo. [III]. Sono salve le disposizioni riguardanti le società cooperative [2511 ss.] e quelle delle leggi speciali che per l'esercizio di particolari categorie di imprese prescrivono la costituzione della società secondo un determinato tipo. InquadramentoMuovendo dalla considerazione che la norma in epigrafe disciplina un numero chiuso di tipi societari (Grippo, 149), si afferma comunemente che non è consentita la creazione di un tipo di società che non corrisponda ad alcuno dei modelli specificamente previsti dal legislatore. Viene tuttavia evidenziato che società di tipo diverso da quelle contemplate dal codice sono specificamente previste dal nostro ordinamento: tra di esse, particolare rilevo assume la società tra avvocati, disciplinata dal d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 96 (Campobasso, 49; Cottino 105; Jaeger, Denozza, 129), in merito alla quale si rinvia alla apposita Sezione XII di questo Codice. Anche la giurisprudenza appare attestata sulle stesse posizioni, con sporadiche decisioni rinvenibili su tale specifica questione. La Cassazione ha così stabilito che l'adozione, da parte di una società sportiva professionistica, della forma della società per azioni ne comporta la soggezione allo statuto proprio di questo tipo sociale, senza che l'oggetto della sua attività possa influire, anche astrattamente, attraverso modifiche o deroghe, sui tratti salienti di quest'ultimo. Resta conseguentemente escluso che i compensi da essa percepiti per la partecipazione agli incassi delle partite giocate in trasferta dalla sua squadra di calcio abbiano natura mutualistica, il cui tratto caratterizzante consiste nell'intento di realizzare non già il profitto, ma l'immediato vantaggio dei soci dell'ente che persegue il suddetto fine (Cass. I, n. 24931/2013; cfr. amplius nella Sezione XII di questo Codice). La Corte d'appello di Torino ha infatti giudicato che la tipicità stabilita, per le società commerciali, dall'art. 2249 non permette di ipotizzare una società sottratta agli schemi del codice civile (App. Torino 14 giugno 1967). E, a sua volta, il Tribunale di Aosta ha statuito che il principio di tipicità vale anche per le società di interesse nazionale e che quindi l'incompatibilità di talune clausole statutarie con norme imperative non derogate da leggi speciali determina la nullità di tali clausole, non già la qualificazione del rapporto come società atipica (Trib. Aosta 3 giugno 1966). Ha chiarito la Cassazione che la trasformazione di una società da un tipo ad un altro previsto dalla legge, ancorché connotato di personalità giuridica, non si traduce nell'estinzione di un soggetto e nella correlativa creazione di uno nuovo in luogo di quello precedente, ma configura una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale comporta soltanto una variazione di assetto e di struttura organizzativa, senza incidere sui rapporti processuali e sostanziali facenti capo all'originaria organizzazione societaria (Cass. I, n. 10332/2016). Un principio analogo è dettato in tema di diritti reali, mentre uno opposto è dettato in tema di contratti: cfr. Cass. II, n. 3091/2014, secondo cui in base al principio dell'autonomia contrattuale di cui all'art. 1322 c.c., i privati possono sottrarsi alla tipicità dei diritti reali su cose altrui, costituendo, invece della servitù prediale, un obbligo a vantaggio della persona indicata nell'atto, senza alcuna funzione di utilità fondiaria. La qualificazione del tipo socialeUn'esplicita scelta del tipo da parte dei soci non è tuttavia necessaria, neppure quando la società ha per oggetto un'attività commerciale: in tal caso, infatti, il silenzio delle parti deve essere interpretato come una implicita opzione per l'organizzazione societaria «più elementare», rappresentata dalle società in nome collettivo (Cass. I, n. 47/1981; Trib. Milano 17 gennaio 1985; nello stesso senso in dottrina, Campobasso, 46; Jaeger, Denozza, 131). La scelta del nomen societatis da parte dei soci non assume rilievo decisivo ai fini della qualificazione del tipo societario, in quanto esso dipende esclusivamente dall'assetto contenutistico del contratto di società (Trib. Napoli 13 ottobre 1993). Ciò risponde, del resto, a un principio generale in materia di qualificazione degli atti di autonomia privata, il qual esige che «il raffronto tra l'operazione concreta posta in essere dai privati e tipo astratto elaborato dal legislatore sia condotto in termini rigorosamente oggettivi e del tutto distaccati dalla volontà privata» (Gazzoni, 764). Non diversamente orientata è la giurisprudenza della Cassazione, come può desumersi dalla seguente sentenza, con la quale si è deciso che ai fini della qualificazione di un rapporto quale lavoro subordinato o come società non è sufficiente il nomen iuris ad esso dato dalle parti, dovendo aversi riguardo al concreto svolgimento del rapporto stesso, sicché una volta accertata l'effettuazione di prestazioni lavorative di una delle parti in favore dell'altra la configurabilità di un rapporto societario fra le stesse presuppone la prova (da fornirsi da colui che assume l'esistenza di tale rapporto) che le parti si siano comportate come soci, redigendo ad es. i bilanci annuali e ripartendo in base agli stessi gli utili o le perdite (Cass. I, n. 8508/1996). Deve tuttavia escludersi che, una volta che una società (nella specie, per azioni) sia stata omologata ed iscritta nel registro delle imprese, sia ammissibile una diversa qualificazione dell'atto costitutivo, che conduca ad attribuire alla società una natura ed un tipo diversi da quelli risultanti dalla iscrizione nel predetto registro, o la conversione (art. 1424 c.c.) di una clausola statutaria nulla (nella specie, perché vietante il trasferimento delle azioni a persona diversa dai soci) gli effetti di una clausola di prelazione, in quanto, altrimenti, si vanificherebbe il sistema di pubblicità legale predisposto dal legislatore con grave turbamento nella certezza dei rapporti legati alla vita della società (Cass. I, n. 10970/1996). Clausole atipicheIl principio di tipicità limita ma non esclude l'autonomia delle parti. Deve quindi ammettersi che i soci possano, con apposite clausole contrattuali, disegnare un modello organizzativo della loro società parzialmente diverso da quello risultante dalla disciplina legale del tipo prescelto (Campobasso, 47). Il limite è segnato dalla presenza di disposizioni di legge o di principî inderogabili. Tra questi, continua ad essere annoverato, specie in giurisprudenza, lo scopo di lucro soggettivo: una clausola statutaria che lo escludesse dallo statuto di una società avente ad oggetto l'esercizio di attività commerciali sarebbe quindi illegittima perché incompatibile con il tipo di società prescelto, al di fuori delle tassative ipotesi nelle quali è espressamente consentita l'utilizzazione di tale tipo sociale per uno scopo non lucrativo (Cass. I, n. 7536/2005). Per l'essenzialità dello scopo di lucro, in dottrina: Campobasso, 28; Gambino, 130. Inoltre, al principio enunciato dalla norma in commento si riconduce, nell'ambito delle società di persone, l'art. 2320 c.c., il quale, in attuazione del principio di tipicità di cui all'art. 2249 c.c., è volta a impedire che sia perduto il connotato essenziale di tale società, costituito dalla spettanza della sua amministrazione al solo socio accomandatario (Cass. I, n. 5069/2017; Cass. I, n. 9398/2015; Cass. 1, n. 29794/2008). E si veda quanto esposto in altre decisioni, a proposito di cooperativa, ristorni e rischio d'impresa (Cass. I, n. 10641/2015); di donazione da parte di società di capitali (Cass. III, n. 18449/2015); della partecipazione di una società in nome collettivo in una società di fatto, ritenuta ammissibile, in quanto non sussistono nell'ordinamento norme o principî sull'attività d'impresa collettiva, esercitata nella forma di società personale, che precludano tale partecipazione (Cass. I, n. 11134/2009).
In un'ordinanza cautelare (Trib. Roma 24 maggio - 2010, in Foro it., 2012, I, 290) si è vagliata la compatibilità del modello dualistico con il tipo società a responsabilità limitata, ritenuto con essa di per sé non incompatibile, salva la verifica della liceità delle singole clausole: un limite all'autonomia negoziale in tema di società deriva, invero, secondo l'impostazione tradizionale, dal principio di tipicità, secondo cui, sul presupposto che l'art. 2249 c.c. disciplini un numero chiuso di tipi societari, si ritiene impedita la creazione di un tipo di società non corrispondente a nessuno dei modelli specificamente previsti. «Il principio di tipicità», secondo il Tribunale, «non può spingersi sino ad inibire ai soci di disegnare con apposite clausole contrattuali un modello organizzativo della loro società parzialmente diverso da quelli risultanti dalla disciplina legale del tipo prescelto; unico limite essendo in definitiva segnato dalla presenza di norme imperative o di principî inderogabili. Tali conclusioni sono imposte dalla disciplina dell'organizzazione interna della società a responsabilità limitata, introdotta dal legislatore della riforma in adesione ai principî dianzi richiamati dalla legge delega e connotata da un'elevata elasticità e versatilità. In tale quadro l'adozione del modello dualistico, dettato dal legislatore per la società per azioni, nell'ambito di una società a responsabilità limitata, non colloca quest'ultima al di fuori del relativo tipo, nella misura in cui esso non comporti violazione di norme imperative o principî inderogabili propri della società a responsabilità limitata». Onde ha ritenuto con questi compatibili le clausole che affidano al consiglio di sorveglianza la nomina dei componenti del consiglio di gestione, attribuiscono al medesimo consiglio il potere di promuovere l'azione di responsabilità verso i componenti dell'organo gestorio e prevedono la sopravvivenza del collegio sindacale, mentre ha giudicato nulla, per contrasto con l'art. 2479, n. 1, c.c., la clausola che attribuisce al consiglio di sorveglianza il potere di approvazione del bilancio. Se la clausola statutaria è contraria ad una norma imperativa è nulla, ma la nullità non comporta, quanto meno in linea di principio, la nullità dell'intero contratto di società (Trib. Monza 29 gennaio 1962).Le società costituite all'esteroL'art. 2507 c.c., nella sua formulazione originaria, prevedeva espressamente che società costituite all'estero di tipo diverso da quelli regolati dal codice potessero operare nel nostro paese, limitandosi ad assoggettarle alle disposizioni stabilite dalla legge italiana per le società per azioni relative alla iscrizione degli atti sociali nel registro delle imprese e alla responsabilità degli amministratori: doveva trattarsi, naturalmente di società che non avessero istituito nel nostro paese «la sede dell'amministrazione» ovvero l'oggetto principale dell'impresa, poiché in tal caso esse, in base a quanto stabilito dall'art. 2505, sarebbero state assoggettate « a tutte le disposizioni della legge italiana» (Ferri, 79). A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, il contenuto dell'art. 2507 c.c. è stato trasfuso nell'art. 2509, al cui commento si rinvia. Nel frattempo l'art. 2505 c.c. era stato abrogato dall'art. 73, legge 31 maggio 1995, n. 218, in tema di riforma del diritto internazionale privato. Il principio dell'assoggettamento alla legge italiana delle società costituite all'estero che abbiano nel nostro paese la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale della propria attività è stato tuttavia ribadito dall'art. 25 di tale legge. Il nuovo testo dell'art. 2507 c.c., introdotto dal citato d.lgs. n. 6/2003, prescrive che l'interpretazione e l'applicazione delle disposizioni sulle società «costituite all'estero», dettate dal codice, sia effettuata «in base ai principî dell'ordinamento delle Comunità europee». Tra di essi, particolare rilievo assume quello concernente il c.d. diritto di stabilimento, sancito dagli artt. 43 e 48 del Trattato UE, diritto che secondo delle pronunce della Corte di giustizia (sent. 9 marzo 1999, C-212/97; 5 novembre 2000, C-208/00; 30 settembre 2003, C-167/01) consentirebbe di operare all'interno di uno Stato membro utilizzando società costituite in un altro Stato comunitario, senza doversi assoggettare alle norme in esso vigenti. Si veda la trattazione ad hoc nella parte VIII di questo Codice. BibliografiaG.F. Campobasso, Diritto commerciale, II, Torino, 2015; Cottino, Diritto commerciale, I, 2, Padova, 1994; G. Ferri, La società, in Tr. Vas., Torino 1985; Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2017; Gambino, Impresa e società di persone, Fondamenti di diritto commerciale, Torino, 2014; Grippo, in Aa.Vv., Diritto commerciale, Bologna, 1993; Jaeger-Denozza, Appunti di diritto commerciale, I, Milano, 1994. |