Famiglie arcobaleno: anche la mamma non biologica è genitore sin dalla nascita

08 Ottobre 2018

La Corte d'appello di Napoli, partendo dal principio di tutela del superiore interesse del minore, "stella polare" del sistema, affronta le nuove modalità di procreazione, nonché l'evoluzione scientifica e quella dei costumi e della cultura, interrogandosi su come le stesse possano interferire con la determinazione del rapporto giuridico di filiazione.
Massima

Una volta accertata la sussistenza dei requisiti di legge, il giudice deve disporre, ove richiesta, l'adozione ex art. 44, comma 1, lett. d), l. n. 184/1983, pur nella consapevolezza che tale istituto offra le garanzie minime inderogabili di tutela del minore, assicurandogli - anche se non pieno - un legame giuridico con il genitore “sociale/affettivo/intenzionale” che, al contrario, dovrebbe avere una tutela piena, alla pari del genitore biologico, quando il concepimento è avvenuto nell'ambito di un progetto condiviso di genitorialità. Da tanto consegue l'inadeguatezza dell'istituto in questione, rimanendo la tutela del minore subordinata alla proposizione della relativa istanza del genitore sociale, previo consenso del genitore biologico, con la conseguente necessità di forme di riconoscimento della genitorialità più piene e adeguate.

Il caso

Tizia e Caia, unite civilmente, dopo aver iniziato una relazione sentimentale sfociata in una stabile convivenza, hanno maturato il progetto di allargare il proprio nucleo familiare, facendo ricorso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologa, a seguito della quale è nato un figlio, del quale entrambe, si sono occupate, sin dalla nascita.

Tizia ha chiesto al Tribunale per i minorenni di Napoli di adottare, ai sensi dell'art. 44, comma 1, lett. d), l. n. 184/1983, il figlio biologico della sua compagna; l'istanza viene respinta, nel presupposto che gli artt. 48 e 50, l. n. 184/1983, consentono l'esercizio comune della responsabilità genitoriale solo nel caso di adozione da parte di una coppia di coniugi o dell'adozione del figlio del coniuge. Ove tale forma di adozione venisse richiesta da persone non coniugate - come nel caso di specie - avrebbe l'effetto “collaterale” del trasferimento della responsabilità genitoriale in capo al solo adottante. Interpone gravame Tizia, che viene accolto dalla Corte d'appello, con una motivazione totalmente differente da quella di primo grado.

La questione

Nella sentenza in commento, la Corte, partendo dal principio di tutela del superiore interesse del minore - “stella polare” del sistema - affronta le nuove modalità di procreazione, nonché l'evoluzione scientifica e quella dei costumi e della cultura, interrogandosi su come le stesse possano interferire con la determinazione del rapporto giuridico di filiazione. Ciò in relazione, in particolar modo, alle coppie omosessuali, risultando la rigida applicazione delle disposizioni codicistiche sulla procreazione naturale anche alle “nuove modalità” di procreazione, ormai, oltre che inadeguata, altresì giuridicamente errata.

Le soluzioni giuridiche

I giudici della Corte partenopea partono da un'attenta ricostruzione dell'orientamento giurisprudenziale in materia di applicabilità dell'art. 44, comma 1, lett. d), l. n. 184/1983 anche alle coppie omosessuali evidenziando che alcune Corti italiane (Trib. min. Roma, 30 luglio 2014; Trib. min. Roma, 22 ottobre 2015; App. Torino, 27 maggio 2016; App. Milano, 22 aprile 2017; Cass. civ. 22 giugno 2016, n. 12962), hanno ritenuto applicabili i presupposti dell'adozione in casi particolari, di cui all'art. 44 sopra richiamato, alla stregua di una lettura evolutiva dell'istituto, anche alle coppie omosessuali, considerato, altresì, il superamento da parte della giurisprudenza nazionale - e non solo - delle discriminazioni nei confronti delle coppie dello stesso sesso, anche in materia di affidamento dei minori (cfr. Cass. 11 gennaio 2013, n. 601; Corte EDU 19 febbraio 2013).

Secondo tale orientamento consolidato, infatti, l'adozione in casi particolari non presuppone uno stato di abbandono dell'adottando, bensì l'impossibilità, di fatto o di diritto, dell'affidamento preadottivo. Pertanto, accertato - in concreto - l'interesse del minore al riconoscimento di una relazione affettiva già instaurata e consolidata con chi se ne prende stabilmente cura, tale adozione può essere disposta, anche in favore del partner dello stesso sesso stabilmente convivente con il genitore biologico del minore che vi abbia consentito, non avendo alcuna rilevanza l'orientamento sessuale dell'adottante.

Tale evoluzione giurisprudenziale in materia di tutela della “omogenitorialità”, si può ritenere ormai consolidata non solo grazie ad un'intensa produzione giurisprudenziale (si pensi anche al riconoscimento di provvedimenti stranieri di adozione piena in favore di coppie omosessuali, nonché di atti di nascita indicanti come genitori due persone dello stesso sesso) ma, altresì, all'attività di numerosi Ufficiali di Stato civile i quali stanno direttamente provvedendo a formare atti di nascita recanti l'indicazione di due genitori dello stesso sesso.

Del tutto isolato, rimane, pertanto, l'orientamento del Tribunale per i minorenni di Palermo (Trib. min. Palermo 30 luglio 2017) che, partendo da un'interpretazione restrittiva degli artt. 48 e 50 l. n. 184/1983, ha negato, in radice, la possibilità di adozione del figlio del partner omosessuale considerato che trattandosi di coppia non coniugata, la responsabilità genitoriale competerebbe esclusivamente all'adottante, venendone privata la madre biologica - il cui consenso all'adozione sarebbe pertanto viziato - tanto con pregiudizio all'interesse del minore.

La Corte d'appello richiama poi la pronuncia - condividendone in pieno le argomentazioni - del Tribunale per i minorenni di Bologna (Trib. min. Bologna 31 agosto 2017), con la quale i giudici avevano già precedentemente “smontato” la sentenza palermitana asserendo che «l'adozione ex art. 44, comma 1, lett. d), l. n. 184/1983 può essere disposta anche in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, concepito nell'ambito di un progetto di genitorialità condiviso, costituendo una famiglia anche quella omoaffettiva (…) in quanto tale statuizione: 1) non presuppone una situazione di abbandono dell'adottando, ma solo l'impossibilità, anche di diritto, dell'affidamento preadottivo (…); 2) è consentita anche in forza della cd. clausola di salvaguardia di cui all'art. 1, comma 20, l. n. 76/2016, qualora adottante e genitore biologico siano civilmente uniti; 3) non comporta che la responsabilità genitoriale sia esercitata dal solo adottante, pur se questi non è coniugato con il genitore biologico, in quanto l'esercizio comune trova comunque fondamento, ancorché sugli artt. 48 e 50 l. n. 184/1983, sulla generale e inderogabile previsione degli artt. 315-bis ss. c.c.».

Su tale ultimo punto, in particolare, i giudici partenopei sottolineano che l'art. 48, l. n. 184/1983 non è una norma generale sull'attribuzione della responsabilità genitoriale in caso di adozione in casi particolari ex art. 44, ma concerne la fattispecie di adozione del minore da parte di due coniugi, o del coniuge di uno dei due e non può essere assolutamente letta nel senso di escludere la condivisione della responsabilità genitoriale, in assenza del rapporto di coniugio tra l'adottante e il genitore biologico del minore. Tale distinzione si porrebbe, infatti, in contrasto con il principio dell'”unicità dello status di figlio” e con le disposizioni dettate dal codice civile (art. 316 c.c.) - che operano per ogni forma di genitorialità, inclusa quella adottiva - che prevedono la condivisione della responsabilità in oggetto tra i genitori. Né, peraltro, la disposizione sul consenso all'adozione, ex art. 44, l. n. 184/1983 da parte del genitore biologico contiene alcun riferimento ad una qualche forma di rinuncia alla responsabilità genitoriale in favore dell'adottante non coniuge.

Dopo aver identificato una sorta di “tripartizione” tra genitorialità, da procreazione naturale, da procreazione medicalmente assistita (PMA) e da adozione legale, la Corte si sofferma sulla nozione di “genitorialità da PMA”, genitorialità che implica l'intervento di un terzo, il medico, e che può prescindere del tutto dal legame genetico del figlio con la coppia richiedente (come nel caso della PMA eterologa totale); vi è, quindi, un tendenziale disallineamento tra il dato genetico e lo stato di filiazione, a favore della tutela dell'interesse del figlio, nonché alla conservazione del suo status che, anche se non corrisponde alla verità “biologica-genetica”, è in grado di esprimere l'identità (definitivamente) acquisita dal figlio stesso.

Partendo dall'analisi della legge n. 40/2004, e in particolare, degli artt. 6 (consenso informato), 8 (status giuridico del nato) e 9 (divieto del disconoscimento della paternità e dell'anonimato della madre) che esprimono regole di portata generale in tema di PMA e filiazione, i giudici osservano come l'elemento volontaristico sia assolutamente prevalente, ai fini della determinazione della filiazione da PMA, rispetto al mero dato della derivazione genetico-biologica, ovvero gestazionale, che può anche mancare.

Tutto ciò determina, dunque, un passaggio dalla “causalità biologica” - alla base della procreazione naturale - alla “causalità umana” che, nella PMA, si fonda sulla verità, che non è quella biologica, bensì quella che discende dal consapevole consenso fornito dalla coppia richiedente, quanto all'assunzione del ruolo genitoriale.

Del resto, è facile osservare che in questi casi l'individuazione, nonché l'acquisizione dello status di figlio, opera in via anticipata, se solo si considera che il consenso - informato - della coppia alle pratiche di PMA diviene irrevocabile a partire dalla fecondazione dell'ovulo, quindi dalla formazione dell'embrione, così trasformandosi in una assunzione consapevole e preventiva della responsabilità genitoriale. Naturale conseguenza di tutto ciò è, in definitiva, una tutela per il minore, quanto alla stabilità dello stato, maggiore rispetto a chi nasce da procreazione naturale.

I giudici della Corte d'appello si soffermano sulla questione della tutela della genitorialità da PMA fondata sul consenso, nell'ambito di un progetto condiviso di genitorialità, in particolar modo con riferimento alle coppie omosessuali sottolineando come le stesse non debbano essere discriminate.

Del resto, la Corte rileva come sono le stesse disposizioni normative già vigenti in materia di genitorialità da PMA - e in particolare gli artt. 6, 8 e 9 l. n. 40/2004 - a poter essere applicate, altresì, con riferimento alle coppie omosessuali che, illegalmente o all'estero, abbiano fatto ricorso a tecniche di PMA. Non solo. Applicabile è, poi, la clausola di equivalenza di cui all'art. 1, comma 20, l. n. 76/2016, che, secondo i giudici napoletani, «opera sicuramente anche con riferimento alla l. n. 40/2004».

In conclusione, la genitorialità da PMA eterologa è “vera genitorialità”, indipendentemente dalla sussistenza o meno del legame biologico-genetico sussistente tra la coppia e il nato, giacché fondamentale - ai fini della configurazione della genitorialità - è il consenso alla PMA, prestato nell'ambito di un progetto di genitorialità condivisa.

Alla luce di tutto ciò, la partner della madre biologica non è una sorta di ”terzo genitore”, come può configurarsi in relazione alle famiglie cd. ricomposte, in cui il minore è nato da una precedente relazione del genitore biologico, bensì un “secondo genitore”, l'unico che il minore possa avere e che svolge tale ruolo ancor prima del concepimento giacché ha contribuito alla sua generazione, assumendone - anche se solo con la prestazione del relativo consenso - la responsabilità ab origine.

Pertanto, come nel caso di specie, ove l'adozione in questione consenta di «stabilizzare una irreversibile situazione di fatto» (comunque fondata su una scelta giuridicamente rilevante), a tutto vantaggio del minore medesimo, deve essere disposta.

Quanto alla richiesta dell'appellante che il minore posponga il proprio cognome a quello materno, i giudici d'appello hanno accolto tale richiesta, pur discostandosi dal dettato dell'art. 55, l. n. 184/1893 che rinvia all'art. 299 c.c., alla stregua del quale l'adottato assume il cognome dell'adottante e lo antepone al proprio. Nello specifico, la Corte, tenuto conto della funzione identitaria del cognome e del fatto che il minore è già scolarizzato e, dunque, individuato con il cognome materno, ha ritenuto che l'art. 299 c.c. non sia inderogabile, in quanto - a fronte di obiettive ragioni - il cognome dell'adottante ben può essere posposto a quello dell'adottato come, appunto, nel caso di specie.

Osservazioni

Ancora una volta, si osserva come, attraverso l'interpretazione e l'applicazione dei principi generali dell'ordinamento, i giudici siano riusciti a colmare quel gap che, spesso, ancora sussiste tra la realtà e le disposizioni di legge del nostro ordinamento e crea un vulnus nella tutela dei diritti delle persone e, spesso - come accade nel caso di specie - dei minori.

È proprio attraverso l'applicazione del principio della tutela del superiore interesse del minore tutelato non solo a livello nazionale (cfr. art. 30 Cost.; art. 337 c.c.), ma, altresì, a livello sovranazionale (cfr. Carta di Nizza; art. 24 Convenzione dell'Aja del 1993), che la Corte d'appello ha disposto l'adozione ex art. 44, comma 1, lett. d), l. n. 184/1983 a favore della partner della madre biologica del bambino.

Appare doveroso osservare, in particolare, come, per via della sua primaria rilevanza, tale principio spesso svolga anche una “funzione integratrice”, nonché di “adeguamento, conformazione e di correzione dello stesso principio di legalità”, il che consente di temperare o disapplicare alcune norme che incidono sui minori. Si pensi, ad esempio, al concetto di “contrarietà all'ordine pubblico” e si richiama, nello specifico, una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. n. 14007/2018) che ha evidenziato come «il principio del superiore interesse del minore opera necessariamente come un limite alla stessa valenza della clausola di ordine pubblico che va sempre valutata con cautela e alla luce del singolo caso concreto (…) il preminente interesse del minore a vivere in modo stabile in un ambiente domestico armonioso e ad essere educato e assistito nella crescita con equilibrio e rispetto dei suoi diritti fondamentali vale, dunque, ad integrare lo stesso concetto di ordine pubblico nella materia specifica».

Varie, dunque, le funzioni del principio in questione: da “stella polare del sistema” a principio con “funzione integratrice”, a strumento per passare da una visione normativa adulto-centrica ad una realtà positiva più attenta a soddisfare gli interessi del minore.

Un plauso, va, pertanto, ai giudici partenopei che, con tale pronuncia, sono riusciti, tramite l'applicazione degli strumenti normativi propri del nostro ordinamento, interpretati anche alla luce dei nuovi costumi sociali, a fornire una tutela agli interessi di tutti i soggetti coinvolti, allontanando qualsivoglia ipotesi di discriminazione, in una prospettiva di - piena - uguaglianza sociale e di rispetto dei rapporti umani e familiari.

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