Codice Civile art. 2467 - Finanziamenti dei soci 1 2 .

Guido Romano

Finanziamenti dei soci 1 2.

[I]. Il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori [e, se avvenuto nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito]3.

[II]. Ai fini del precedente comma s'intendono finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento.

 

[1] V. nota al Capo VII. A norma dell'articolo 1, comma 239, l. 27 dicembre 2017, n. 205, il presente articolo non si applica alle somme versate dai soci alle cooperative a titolo di prestito sociale.

[2] In tema di misure urgenti per garantire la continuità delle imprese colpite dall'emergenza covid-19, v. art. 8 d.l. 8 aprile 2020, n. 23, conv. con modif., in l. 5 giugno 2020, n. 40, che prevede che: « Ai finanziamenti effettuati a favore delle società dalla data di entrata in vigore del presente decreto e sino alla data del 31 dicembre 2020 non si applicano gli articoli 2467 e 2497-quinquies del codice civile».

[3] L'art. 383, comma 1, d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 ha disposto la soppressione delle parole «e, se avvenuto nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito.». Tale disposizione, ai sensi dell'art. 389, comma 1, d.lgs. cit., come da ultimo sostituito dall'art. 5, comma 1, d.l. 8 aprile 2020, n. 23, conv. con modif., in l. 5 giugno 2020, n. 40 e, da ultimo, sostituito dall'art. 1, comma 1, lett. a) d.l. 24 agosto 2021, n. 118, conv., con modif., in l. 21 ottobre 2021, n. 147  e, da ultimo, sostituito dall'art. 42, comma 1, lett. a), d.l. 30 aprile 2022, n. 36, conv., con modif., in l. 22 giugno 2022, n. 79, è entrata in vigore il 15 luglio 2022, salvo quanto previsto al comma 2 del citato decreto.

Inquadramento

Ai sensi dell'art. 2467 c.c., qualora il socio di una società a responsabilità limitata conceda alla società un finanziamento, «in qualsiasi forma», e la società medesima si trovi «in un momento in cui, anche in relazione al tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto» ovvero in cui «sarebbe stato ragionevole un conferimento», il rimborso del finanziamento «è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito».

Si segnala che l'art. 383, comma 1 d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 ha disposto la soppressione delle parole «e, se avvenuto nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito». Tale disposizione, ai sensi dell'art. 389, comma 1, d.lgs. cit., come da ultimo modificato dall'art. 5 d.l. 8 aprile 2020, n. 23, conv., con modif., in l. 5 giugno 2020, n. 40 entra in vigore il 1° settembre 2021.

La postergazione trova la sua ragione giustificatrice nel comportamento del socio che, conoscendo o potendo conoscere lo stato di crisi finanziaria della società, sostenga comunque la stessa con mezzi non adeguati e, quindi, non con conferimenti, ma con ulteriore indebitamento della società, che, a sua volta, aggrava lo squilibrio patrimoniale. La norma, dunque, tutela i creditori – e, quindi, ha natura inderogabile (Abriani, 317) – in quanto il finanziamento dei soci eseguito in situazioni di sottocapitalizzazione comporta una impropria traslazione del rischio di impresa dai soci ai creditori sociali (Paolucci, 284; Portale, 15 ss.; Portale, 2016, 72). Infatti, in assenza della norma in commento, in caso di fallimento, i creditori subirebbero non solo il danno derivante da una riduzione della garanzia patrimoniale cagionato dalla continuazione dell'impresa (pregiudizio, questo, che si produrrebbe anche nel caso in cui il socio si comportasse «ragionevolmente» ed eseguisse un conferimento nella società ormai decotta), ma anche il danno derivante da una riduzione della «quota» di attivo fallimentare in ragione del concorso del credito del socio (così, testualmente, Portale, 2016, 72). In particolare, in prossimità della crisi, la responsabilità limitata può indurre i soci a continuare l'attività anche ove le probabilità di aggravare il dissesto siano superiori a quelle di risanare l'impresa (Baccetti, 805).

È stato efficacemente osservato che la norma non opera sul piano della fattispecie attraverso una riqualificazione del finanziamento in apporto di capitale, ma su quello della disciplina (Cagnasso, 101; Balp, 2007, 353; Zanarone, 463), mediante la postergazione della restituzione rispetto al pagamento degli altri creditori sociali. I finanziamenti, ancorché postergati, conservano la loro natura di finanziamenti (e come tali vanno iscritti in bilancio sotto la voce «debiti verso soci per finanziamenti», D3) con l'unico limite che la loro restituzione non deve avvenire in danno dei creditori non subordinati (Rubino De Ritis, 268). Si precisa, peraltro, che l'errata indicazione in bilancio della società di tali finanziamenti non preclude l'applicazione dell'art. 2467 (Rubino De Ritis, 270). In definitiva, la norma integra il regolamento negoziale concordato dalle parti con un effetto dalle stese non voluto (Prestipino, 103).

La sottocapitalizzazione nominale e materiale.  Cenni.

La disciplina dei finanziamenti dei soci di s.r.l., contenuta nell'art. 2467 c.c., tende a contrastare il fenomeno della «sottocapitalizzazione nominale» delle società, molto diffuso fra le società medio-piccole e determinato dalla convenienza dei soci a ridurre la loro esposizione al rischio d'impresa (sul punto, le importanti riflessioni di Portale, 3 ss.).

In estrema sintesi, una società può dirsi sottocapitalizzata ogni volta che il capitale sociale sia stato fissato (non solo in sede di costituzione dell'ente, ma anche a seguito di sue eventuali modificazioni intervenute nel corso della vita di esso) in misura insufficiente rispetto a quanto può presumersi necessario per il raggiungimento dell'oggetto sociale. In altre parole, le società sottocapitalizzate sono dotate di un capitale sociale non adeguato alle esigenze produttive dell'impresa e sottodimensionato rispetto all'attività imprenditoriale indicata nell'oggetto sociale (Prestipino, 25).

La sottocapitalizzazione è, dunque, «nominale» quando la società, pur avendo un capitale sociale non adeguato rispetto all'oggetto sociale, è comunque dotata di mezzi patrimoniali sufficienti allo svolgimento dell'attività d'impresa, in virtù di apporti a qualsiasi titolo messi a sua disposizione dai soci: in tali casi l'insufficienza del capitale sociale è superata attraverso la concessione di finanziamenti ovvero di apporti fuori capitale che svolgono la funzione di soddisfare il fabbisogno finanziario della società (Prestipino, 25).

La sottocapitalizzazione si dice «materiale» quando non solo il capitale ma, più in generale, l'intero patrimonio di cui la società dispone risulta inadeguato rispetto all'attività che la stessa si propone di svolgere. In tal caso, l'insufficienza del capitale sociale non è coperta neppure da altri ed ulteriori apporti.

Sono assenti, nell'impianto codicistico, norme che impongano una adeguata capitalizzazione della società: né un simile principio può essere ricavato in sede di interpretazione.

È, infatti, rimasto del tutto isolato l'orientamento dottrinario, pur autorevolmente sostenuto (Portale, 41 e che ha avuto un limitato seguito in giurisprudenza, Trib. Udine, 12 giugno 1982, in Foro it., 1982, I, 2619; Trib Roma, 14 dicembre 1977, in Giur. comm., 1978, II, 738) secondo il quale non è sufficiente che l'entità del capitale sociale sia rispettosa della previsione normativa inerente al minimo legale, essendo invece necessario che esso non sia manifestamente inadeguato rispetto all'esercizio dell'attività sociale.

In senso contrario, si sono evidenziate (Niccolini, 18; Stella Richter, 287; Prestipino, 26 ss.), da un lato, la difficoltà pratica di sindacare la congruità della misura del capitale anche in relazione alle dimensioni che l'impresa potrebbe assumere nel tempo e, dall'altra, la difficoltà sistematica di fondare quel sindacato di congruità sulla disciplina dello scioglimento per impossibilità di conseguimento dell'oggetto sociale (in questo senso, invece, Portale, 78) anche in relazione alla circostanza che la società potrebbe attingere ad ulteriori risorse provenienti da finanziamenti anche dei soci.

Pur non prevedendo un principio di adeguatezza del capitale sociale, il legislatore non ha del tutto ignorato il fenomeno della sottocapitalizzazione. Come è stato osservato, la risposta a questi problemi è stata tradizionalmente affidata alla disciplina del capitale sociale (Baccetti, 806 e la dottrina ivi richiamata)

che, in prossimità del dissesto, offre una serie di misure volte a proteggere la parte indisponibile del patrimonio netto. A questa finalità, si ascrivono il divieto di distribuzione degli utili sino al ripianamento delle perdite (art. 2433, comma 3, c.c.) ed i meccanismi di riduzione del capitale per perdite o al di sotto del limite legale (artt. 2446-2447 c.c.).

La riforma ha, poi, fornito un rimedio espresso contro i fenomeni di sottocapitalizzazione nominale, proprio mediante l'introduzione della disciplina di postergazione (artt. 2467 e 2497-quinquies c.c.) che limita la libertà di finanziamento dell'impresa societaria  al fine di reprimere la prassi dei finanziamenti sostitutivi del capitale di rischio concessi dai soci alle società in crisi (Baccetti, 807).

Finanziamenti soci, versamenti in conto capitale e versamenti in conto futuro aumento di capitale.

Rispetto ad ogni valutazione inerente all'applicabilità della norma al caso concreto, è preliminare procedere ad un corretto inquadramento giuridico dell'apporto alla società del socio e, quindi, verificare se quell'apporto abbia natura di conferimento, anche atipico, ovvero di finanziamento. Solo nel caso in cui, a seguito di tale operazione di inquadramento concettuale, l'apporto sia qualificato come finanziamento dal quale derivi una obbligazione di restituzione a carico della società, potrà poi valutarsi la sottoposizione di quel finanziamento al regime della postergazione (Rubino De Ritis, 266).

È noto, infatti, che i soci possono effettuare alle società da loro partecipate erogazione di somme a diverso titolo.

Come è noto, talvolta tutti o taluni soci, pur senza procedere ad un aumento del capitale sociale, versano alla società somme a titolo di conferimento, denominate a volte come «versamenti in conto capitale», a volte come versamenti «a copertura delle perdite» e ciò al fine di sopperire alle esigenze della società ovvero di costituire un fondo destinato a ripianare eventuali perdite, evitando così di incorrere nella disciplina della riduzione obbligatoria del capitale.

Secondo l'orientamento di gran lunga prevalente, tali apporti risultano del tutto leciti: essi, pur caratterizzandosi dalla mancanza di un obbligo di restituzione a carico della società, non possono essere equiparati ai conferimenti di capitale per inosservanza del relativo procedimento di aumento. Ne consegue che tali apporti incrementano il patrimonio della società senza modificarne il capitale sociale e restano perciò sottratti alla disciplina dei conferimenti: possono, ad esempio, essere effettuati solo da alcuni soci; non essere proporzionali alle quote di partecipazione al capitale (Cass. n. 16393/2007; Trib. Napoli, 25 febbraio 1998; App. Trento 19 novembre 1999) e, se si tratta di apporti diversi dal danaro, non incontrano le limitazioni previste per i conferimenti in natura.

I «versamenti in conto capitale» si inseriscono tra gli apporti finanziari o i conferimenti eseguiti, normalmente in società sottocapitalizzate, al di fuori degli schemi giuridico-formali previsti dal codice civile per la originaria costituzione della società o per l'aumento del capitale sociale; si traducono in un incremento del solo patrimonio netto della società e non sono imputabili a capitale, salvo che, con apposita delibera assembleare di modifica dell'atto costitutivo, non ne venga disposto successivamente l'utilizzo per un aumento del capitale sociale. Dalla prassi si ricava che i versamenti in conto capitale – diffusisi sia in ragione dei benefici fiscali ad essi collegati, sia, soprattutto, perché costituiscono un efficace e flessibile strumento che i soci possono utilizzare per fare fronte a varie esigenze della società – sono diretti a creare disponibilità finanziarie discrezionalmente destinabili dagli amministratori a scopi attinenti all'oggetto sociale. Sono, quindi, destinati a costituire frazioni del capitale di rischio e, in particolare, a dotare di mezzi propri della società beneficiaria (cfr. Cass. n. 16393/2007). Una volta che le somme in conto capitale siano confluite nel coacervo del patrimonio comune è escluso che i soci eroganti, finché dura la società, possano esercitare pretese restitutorie. Quindi, a differenza dei finanziamenti – cioè dei prestiti – i versamenti in questione non generano crediti esigibili dei soci nei confronti dei soci. Gli apporti in discorso possono essere utilizzati per l'aumento gratuito del capitale, con attribuzione delle azioni di nuova emissione a tutti i soci, o impiegati per l'acquisto di azioni proprie, mentre i soci possono chiedere la restituzione delle somme versate solo per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell'eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione. I ridetti versamenti, tuttavia, in caso di saturazione della riserva legale, possono essere distribuiti durante societate e le relative somme andranno ripartite tra i soci in misura corrispondente a quanto ciascuno versato (Cass. n. 16393/2007, cit.).

Non essendo tali conferimenti configurabili come finanziamento da parte dei soci e, quindi, proprio in conseguenza della mancanza di un obbligo restitutorio in loro favore, i soci non possono pretendere la restituzione dei versamenti in argomento che, infatti, devono risultare da appositi fondi iscritti in bilancio, che potranno essere utilizzati dalla società, in caso di necessità, per la copertura di perdite o per deliberare un aumento di capitale.

Da tali apporti, svincolati da un aumento attuale o futuro di capitale sociale, vanno tenuti distinti i versamenti dei soci destinati alla copertura anticipata di un determinato aumento del capitale sociale non ancora deliberato o perfezionato («versamenti in conto futuro aumento di capitale»). Tali versamenti costituiscono, in sostanza, una sottoscrizione anticipata del capitale, destinata a perfezionarsi con la successiva delibera da parte della società. I versamenti effettuati dai soci della società in conto di futuro aumento di capitale, pur non determinando un incremento del capitale sociale e pur non attribuendo alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale, hanno una causa che, di norma, è diversa da quella del mutuo ed è assimilabile invece a quella di capitale di rischio. Nel contempo i soci hanno diritto alla restituzione di quanto versato qualora l'aumento programmato non sia deliberato, sicché i corrispondenti importi non sono iscrivibili fra le riserve e non possono essere medio tempore utilizzati per la copertura delle perdite. In particolare, il versamento in conto futuro aumento di capitale è stato ricondotto ad un atto sottoposto alla condizione sospensiva con ritenzione delle somme da parte della società, nel caso in cui la condizione (delibera di aumento) si verifichi e, viceversa, obbligo di restituzione ai soci nell'ipotesi in cui la condizione non si verifichi (così, Cass. n. 9209/2001). Qualora l'aumento non venga eseguito entro il termine prefissato, infatti, gli importo versati saranno immediatamente ripetibili ad nutum al socio, non avendo la società alcun titolo per trattenersi.

Diversi ancora sono poi i «versamenti a fondo perduto» erogati alla società dopo che la perdita si è verificata e contestualmente utilizzati dalla stessa per il ripianamento delle perdite. Tali versamenti perdono ogni legame con il soggetto erogante, restando invece degli apporti acquisiti nel patrimonio sociale (i.e. il netto «comune» della società), e appartengono idealmente alla collettività dei soci (Liva, par. 4), indipendentemente dalla circostanza per cui tali versamenti siano stati effettuati in via proporzionale tra i soci oppure no. Nell'ambito di tale categoria, si distinguono (Liva, ivi): 1) i versamenti a fondo perduto aventi la funzione di incrementare la base patrimoniale della società, apportando nuove risorse finanziarie da utilizzare nell'attività di impresa, senza formalmente aumentare il capitale nominale; 2) i versamenti a fondo perduto a copertura perdite, operati dai soci al fine di ripianare le perdite che impattano sul capitale sociale, al di fuori di una formale procedura secondo le regole degli artt. 2446 e 2447.

Ancora, i soci possono eseguire, in favore della società, dei «veri e propri finanziamenti» dai quali deriva un obbligo restitutorio in capo alla società e, dunque, un credito del socio nei confronti di essa.

La qualificazione, in termini di apporto di capitale ovvero di finanziamento soci, dipende dall'esame della volontà negoziale delle parti, dovendo trarsi la relativa prova, di cui è onerato il socio attore in restituzione, non tanto dalla denominazione dell'erogazione contenuta nelle scritture contabili della società, quanto dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi (Cass. n. 25585/2014 secondo la quale, peraltro, costituiscono apporti al patrimonio sociale, rispetto ai quali non sussiste il diritto del socio alla restituzione, i versamenti effettuati dai soci di una società a responsabilità limitata a favore della stessa, qualora sia pattuito che il rimborso possa avere luogo solo dopo la soddisfazione dei creditori sociali, utilizzando l'eventuale residuo attivo della liquidazione del patrimonio dell'ente; Cass. n. 2758/2012). Ciò nonostante, in difetto di una chiara manifestazione di volontà delle parti, secondo parte della giurisprudenza, la qualificazione giuridica della dazione economica eseguita dal socio può essere ricavata dalla terminologia adottata nel bilancio, poiché questo è soggetto all'approvazione dei soci (Cass. n. 21563/2008; Cass. n. 7692/2006; Cass. n. 7427/2002).

Quanto alle modalità di stipulazione del contratto di finanziamento, in giurisprudenza si precisa che allorché sia sottoposta all'assemblea di una s.r.l. la richiesta, rivolta ai soci, di versare somme a titolo di finanziamento, la sua approvazione non fa sorgere di per sé, neppure in capo a chi abbia espresso voto favorevole, l'obbligo di eseguire il versamento, essendo all'uopo necessaria un'ulteriore, distinta manifestazione di volontà negoziale da parte di ciascun sociouti singulus, la cui prova non richiede forme particolari (Trib. Milano, 15 giugno 2017, in Giur. it., 2017, 2682 e, con la diversa data di 19 giugno 2017, in Soc., 2018, 591).

L'operatività della postergazione fuori dal concorso. Responsabilità degli amministratori per il rimborso

Costituisce problema ancora non del tutto risolto se la postergazione debba operare in via esclusiva nell'ambito di un concorso tra creditori già formalmente aperto e, quindi, in presenza di una procedura di regolamentazione collettiva dell'insolvenza (in questo senso, Figà talamanca-Genovese, 1222 secondo i quali la postergazione dei crediti relativi a finanziamenti infragruppo è una misura la cui applicazione presuppone una procedura esecutiva nei confronti della società: è in quella sede, infatti, che concorrendo diverse pretese creditorie, se ne potrà privilegiare taluna e postergare l'altra. Potrebbe trattarsi di una procedura esecutiva individuale (pignoramento), ma è evidente che il campo di applicazione della disposizione è essenzialmente quello delle procedure concorsuali) o, comunque, in sede di liquidazione volontaria della società oppure, quale principio generale dell'ordinamento, anche durante la vita della società con la conseguenza che gli amministratori sono tenuti ad opporre la postergazione e sono, dunque, responsabili ove abbiano provveduto a rimborsare finanziamenti che avrebbero dovuto essere postergati (così Cagnasso, 109).

Secondo il primo orientamento, in particolare, la postergazione, intesa come imposizione di un ordine di priorità tra pretese dei creditori esterni e pretese dei creditori soci, può operare soltanto in una fase caratterizzata dalla cristallizzazione (non necessariamente immediata) della platea dei creditori sociali estranei alla compagine sociale (Prestipino, 105). Durante la fase operativa della società, al contrario, potendo in ogni momento sorgere nuove obbligazioni nei confronti dei terzi, ed operando la postergazione è destinata a favore di tutti i creditori, l'art. 2467 non può trovare applicazione (Prestipino, ivi). Nella medesima direzione, si avverte che l'affermazione di un limite alla libertà degli amministratori di rimborsare, nel corso della vita operativa della società, il credito esigibile del socio introdurrebbe una deroga al principio di uguaglianza tra creditori formalmente titolari dei medesimi diritti ed una ingiustificata compressione del debitore di scegliere liberamente quali, tra i crediti tutti egualmente scaduti, soddisfare prioritariamente (così, testualmente, Locoratolo, 29; Terranova, 1465; Zanarone, 467).

Secondo la dottrina maggioritaria, tuttavia, la postergazione opererebbe indipendentemente dalla sottoposizione della società a procedura concorsuale (così, Abriani, 329; Rubino De Ritis, 286 che parla espressamente di divieto di adempiere; Campobasso, 2011, 252; Balp, 2007, 365; Balp, 2016, 1268 ss.; Bione, 34; Desana, 185; Portale, 271 ss.). In questa prospettiva, si evidenzia che la regola della postergazione è posta in modo assoluto e che la seconda locuzione di cui al primo comma dell'art. 2467 c.c. costituisce una specificazione della prima in determinate circostanze (Rubino De Ritis, 284).

Secondo tale orientamento – che appare preferibile e che sta trovando accoglimento anche in giurisprudenza, cfr., infra – la postergazione deve intendersi «quale condizione sospensiva del diritto al rimborso, idonea, in particolare, a produrre l'effetto di prorogare ex lege la scadenza del finanziamento sino al momento di suo avveramento, e a replicare in tal modo all'esigibilità del credito del socio, la quale deve reputarsi sospesa sino alla soddisfazione degli altri creditori» (Balp, 2007, 365; Balp, 2016, 1270). Sotto altro profilo, si evidenzia che limitare l'efficacia della postergazione alla sola ipotesi di concorso formale conduce ad un ingiustificato diniego di tutela dei creditori in tutti quei casi in cui, pur essendo la società insolvente, il fallimento non venga dichiarato ad es. perché la società non supera i limiti dimensionali (Campobasso, 2008, 449).

Il corollario di una simile impostazione è costituito dal fatto che gli amministratori, che restituiscano ai soci quanto da loro versato in pendenza di postergazione, sono responsabili verso la società e verso i creditori sociali per inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale (Rubino De Ritis, 285). In questa prospettiva, in ragione della inderogabilità della disciplina, l'inesigibilità del credito da parte del socio va intesa come divieto di adempiere (Rubino De Ritis, 286) che può cessare solo con il cessare della situazione di crisi economica-finanziaria che giustifica l'applicazione del regime della postergazione (ammettono una responsabilità risarcitoria degli amministratori, Portale, 2005, 271 ss.; Abriani, 335 che evidenzia come gli amministratori siano tenuti ad effettuare un test di solvibilità al fine di verificare se il pagamento a favore del socio-finanziatore sia idoneo a cagionare l'insolvenza della società; in senso parzialmente diverso, Terranova, 1465, nt. 28).

Una altra parte della dottrina – che pure aderisce alla ricostruzione della operatività della postergazione limitata al concorso formale – evidenzia come la stessa struttura del finanziamento dei soci (mancata previsione di interessi sulle somme mutuate, pattuizione di un termine per l'adempimento particolarmente lungo, rinunzia a garanzie personali o reali) dimostra che il socio «si è fatto guidare non dal tipico interesse del finanziatore neutrale ed estraneo, bensì dall'interesse alla ricapitalizzazione sostanziale dell'attività di impresa». Conseguentemente, «il socio finanziatore il quale richieda alla scadenza pattuita il rimborso del finanziamento, nella consapevolezza della permanenza dello stato di crisi della società, tiene un comportamento che, seppure formalmente legittimo, si pone in netto contrasto con i principî di correttezza e buona fede oggettiva cui la condotta del creditore deve ispirarsi». Gli amministratori hanno, dunque, il dovere di opporre il carattere abusivo dell'esercizio del diritto al socio; essi, durante societate, seppure non possono invocare l'operatività della postergazione ex art. 2467, hanno il potere-dovere di opporsi alla richiesta di adempimento, contestando al socio l'esercizio scorretto e contrario a buona fede della pretesa, che risulta legittima solo formalmente (così, Prestipino, 118-119). Diversamente, incorrono in responsabilità nei confronti della società e dei creditori sociali.

Oltre alla responsabilità degli amministratori per essere addivenuti al rimborso del finanziamento postergato, è stata prospettata anche una responsabilità dei soci beneficiari del rimborso, radicandola nella violazione di un dovere, di natura contrattuale e organizzativa, di astenersi dal (decidere o concorrere nel) compimento di atti dannosi per la società (Portale, 2005, 280).

La tesi secondo la quale la postergazione opererebbe anche al di fuori del concorso, consente, altresì, di reputare il rimborso, cui la società avesse provveduto senza avere prima superato la crisi, ripetibileexart. 2033 c.c. e revocabileexart. 2901 c.c. anche in ragione della surrogazione dei creditori, indipendentemente dalla sua esecuzione nell'anno anteriore al fallimento (Balp, 2007, 373).

La giurisprudenza sembra univoca nel ritenere l'operatività della regola della postergazione al di fuori del concorso e la sussistenza di una responsabilità degli amministratori (e dei soci ex art. 2476, comma 7, c.c.) per il rimborso di un finanziamento postergato.

Si evidenzia, in particolare, che in presenza dei presupposti di postergazione di cui al comma 2 dell'art. 2467, sia al momento di esecuzione del finanziamento sia al momento della richiesta di rimborso da parte del socio finanziatore, gli amministratori sono tenuti ad eccepire la condizione di inesigibilità del credito derivante dalla postergazione al socio richiedente il rimborso del finanziamento laddove al momento del richiesto rimborso sussistano creditori «ordinari» (vale a dire creditori non soci, soggetti allo stesso vincolo) titolari di crediti scaduti e non soddisfatti o comunque non ancora scaduti (Trib. Milano,14 marzo 2014; Trib. Roma, 1 giugno 2016, in Soc., 2017, 41, ed in Giur.it., 2017, 115). La norma di cui all'art. 2467 c.c., nel fissare la regola della postergazione del rimborso del finanziamento dei soci, ha lo scopo di evitare che società sottocapitalizzate operino con finanziamenti a titolo di capitale di prestito da parte dei soci e che il rischio correlato alla gestione priva di mezzi propri sia traslato ai creditori. Sono responsabili, ai sensi degli artt.  2394 c.c. e 146 l. fall., gli amministratori di una società fallita che abbiano restituito ai soci delle somme in violazione dell'art. 2467 (Trib. Bari, 5 febbraio 2018, in IlSocietario.it). La disciplina della postergazione del rimborso dei finanziamenti dei soci trova applicazione ai soli finanziamenti con diritto al rimborso concessi in un momento in cui sussiste un rischio di insolvenza della società finanziata, rischio che determina una sorta di concorso potenziale tra tutti i creditori della società. Qualora il finanziamento sia stato disposto e il rimborso richiesto in presenza di una situazione di specifica crisi della società, gli amministratori possono, nella fase operativa della società (durante societate), eccepire al socio l'inesigibilità del credito ex art. 2467 c.c. La postergazione opera, durante societate, come condizione di inesigibilità del credito vantato dal socio (Trib. Milano, 11 novembre 2010, in Giur. comm., 2012, II, 123).

Sotto l'aspetto della distribuzione degli oneri probatori, si evidenzia che è onere della parte che rileva il carattere postergato dei finanziamenti dimostrare la ricorrenza nella fattispecie degli elementi soggettivi ed oggettivi della fattispecie: incombe sulla società convenuta dal socio per la restituzione del finanziamento eccepire e provare in giudizio la ricorrenza delle condizioni previste dall'art. 2467 (Trib. Milano, 25 gennaio 2016; Trib. Milano 13 ottobre 2016; Trib. Roma, 6 febbraio 2017, in Giur.it., 2017, 1139, nonché in IlSocietario.it; Trib. Biella, 17 giugno 2008, in Giur. comm., 2010, II, 217).

Quanto alla responsabilità del socio, in giurisprudenza si evidenzia che il socio di una società a responsabilità limitata, il quale ha ottenuto la restituzione, non dovuta, in proprio favore dei versamenti da lui in precedenza effettuati in favore della società, incorre in responsabilità, in solido con gli amministratori, ai sensi dell'art. 2476 comma 7, c.c., dovendosi inferire che egli ne abbia deciso e autorizzato, in modo intenzionale, la restituzione (Trib. Roma, 1° giugno 2016, in Soc., 2017, 41 ed in Giur.it., 2017, 115).

I creditori che si avvantaggiano della postergazione.

Si pone il problema di individuare quali siano i creditori che si avvantaggiano del regime della postergazione del finanziamento prestato dal socio. Secondo le soluzioni astrattamente possibili, la postergazione opererebbe: 1) a vantaggio di tutti gli altri crediti sorti nel corso della vita della società fino alla sua liquidazione; 2) a vantaggio soltanto dei crediti maturati fino al momento in cui la società contrae il debito con i propri soci; 3) a vantaggio dei crediti maturati al momento della scadenza del debito (per una ricostruzione della problematica, Paolucci, 300).

Secondo la maggioranza degli autori, la postergazione è destinata ad operare a favore di tutti i creditori, compresi quelli le cui ragioni siano destinate a sorgere successivamente all'eventuale richiesta di rimborso da parte del socio (Prestipino, 105; Zanarone, 469 ss.; Paolucci, 300).

La nozione di finanziamento soci. Il profilo soggettivo.

Sotto il profilo soggettivo, la norma si applica ai finanziamenti eseguiti da soci, non essendo rilevante se essi detengano una determinata aliquota del capitale sociale (Zanarone, 449; Paolucci, 292; Terranova, 1477; Campobasso, 2011, 243). La norma si spiega in ragione degli ampi poteri di informazione e controllo nei confronti degli amministratori di cui i soci dispongono all'interno della società a responsabilità limitata e che consentono loro di valutare, a differenza degli altri creditori sociali, il merito creditizio della società e, dunque, la situazione di sottocapitalizzazione di essa (Paolucci, ibidem). I soci, dunque, sono in grado di avvedersi della circostanza che, concedendo il prestito, venga di fatto aggravata la situazione di dissesto (Balp, 2007, 292; Prestipino, 87, secondo il quale il socio è in grado di decidere e valutare in modo consapevole se, in una determina situazione patrimoniale e finanziaria della società, sia più opportuno procedere all'erogazione di un finanziamento con diritto al rimborso ovvero all'esecuzione di un conferimento o di un apporto fuori capitale). Proprio in ragione della sussistenza di tali poteri, una eventuale sua mancata conoscenza della crisi finanziaria della società all'atto dell'erogazione giustifica l'applicazione della postergazione, dal momento che tale pretesa ignoranza dovrebbe ascriversi al trascurato esercizio dei diritti riconosciuti.

Tuttavia, secondo una parte della dottrina, il socio sarebbe ammesso a fornire la prova della sua concreta estraneità alla conduzione imprenditoriale della società, con conseguente disapplicazione dell'art. 2467. In senso contrario, tuttavia, si osserva (Prestipino, 90) che, in assenza di criteri oggettivi e facilmente riscontrabili sulla base dei quali affermare la non imprenditorialità del socio di s.r.l., ragioni di certezza del diritto inducono ad applicare la norma a tutti i soci, senza permettere loro di provare l'assenza di spirito imprenditoria nella partecipazione. Si ammette, però, che, quando la crisi sia occulta e non riconoscibile neppure con il diligente utilizzo dei poteri di controllo, nessuna responsabilità è imputabile al socio finanziatore perché il solo fatto di aver concesso un prestito non viola di per sé alcuna regola di corretto finanziamento dell'impresa sociale (Balp, 2007, 407; Campobasso 2011, 244; Rubino De Ritis, 275; Terranova, 1477). Più in particolare, si evidenzia che se la postergazione è giustificata dai diritti di informazione e controllo, il socio finanziatore dovrebbe essere ammesso a dimostrare che, alla data del finanziamento, egli non era a conoscenza dello squilibrio patrimoniale o finanziario della società, né si trovava nelle condizioni di poter conoscere un tale squilibrio mediante un avveduto controllo sulle condizioni patrimoniali e finanziarie dell'impresa (Baccetti, 823).

La qualità di socio deve sussistere al momento della concessione del finanziamento: non ha, invece, rilevanza la successiva perdita della qualità di socio da parte del finanziatore (Balp, 2007, 413; Campobasso, 2011, 245; Rubino Dei Ritis, 273; Caspani, 416; Abriani, 345; contra,Presti, 109). In particolare, si evidenzia che se è vero che il cessionario è, al momento dell'acquisto, un soggetto estraneo alla compagine sociale, è anche vero che, secondo i principî generali in materia di acquisto a titolo derivativo, nessuno può trasferire un diritto dal contenuto più ampio di quello di cui è titolare e che la postergazione è una qualità intrinseca del diritto di credito vantato dal socio (Prestipino, 95).

In giurisprudenza, considerato che la postergazione si atteggia come «qualità intrinseca» dei crediti dei consociati, non può fondatamente sostenersi che l'uscita dalla compagine sociale del socio finanziatore possa comportare l'automatica esclusione dalla disciplina ex art. 2467 delle somme da questo erogate alla società, posto che la disciplina in esame è posta a salvaguardia delle aspettative del ceto creditorio, e su questa non possono evidentemente incidere le vicende successive e soggettive del socio mutuante, pena l'inutilità dell'istituto, che si presterebbe a facili elusioni in danno di creditori e terzi (Trib. Milano, 23 ottobre 2017; Trib. Milano, 6 febbraio 2015, in giurisprudenzadelleimprese.it).

Al contrario, non sarà sottoposto al regime della postergazione il credito del socio entrato a far parte della compagine sociale soltanto in un momento successivo alla erogazione del finanziamento (Campobasso, 2011, 244; Vattermoli, 138; Zanarone, 451).

È discusso se la norma possa trovare applicazione nel caso di finanziamenti erogati da soggetti estranei alla società, ma «per conto» del socio o, comunque, collegati al socio. Secondo un orientamento, il termine «soci» potrebbe essere inteso estensivamente con la conseguenza che ricadrebbe nella disciplina in commento anche il finanziamento eseguito da una società fiduciaria, finanziamento da considerarsi agli effetti della postergazione come eseguito dal fiduciante (Zoppini, 428). In senso contrario, è stato osservato che nell'art. 2467 manca ogni riferimento ad operazioni poste in essere da società fiduciarie (viceversa contenuto in altre norme, cfr., art. 2357 u.c., c.c.) con la conseguenza che l'equiparazione non può operare (Paolucci, 294; Zanarone, 450; Rubino De Ritis, 274, il quale, tuttavia, ammette la possibilità di fare ricorso ai principî generali in tema di interposizione reale o fittizia, là dove sussistano i presupposti in relazione alle specifiche modalità con le quali l'operazione è stata conclusa). Ipotesi parzialmente diversa è quella del terzo che conceda un finanziamento in un momento in cui la società versava in stato di crisi e che poi ceda il proprio credito in favore ad un socio della società finanziata: si ritiene che, ove si dimostri che l'operazione complessiva è finalizzata unicamente ad aggirare la norma in commento, quest'ultima dovrà trovare applicazione nei confronti del socio acquirente il credito (Prestipino, 96 secondo il quale l'intento fraudolento potrà essere dimostrato provando che il terzo conosceva o non poteva non conoscere lo stato di crisi in cui versava la società al momento della erogazione del prestito).

Una parte della giurisprudenza di merito è giunta a riconoscere l'applicabilità del regime della postergazione anche a taluni finanziatori non soci. In particolare, è stato affermato che le norme contenute negli artt. 2467 e 2497-quinquies esprimono principî generali di diritto dell'impresa, come tali sicuramente applicabili a tutte quelle situazioni nelle quali il finanziatore si trovi in una relazione con la società tale da permettergli di beneficiare di asimmetrie informative rispetto ai normali creditori. In quanto espressione di un principio di carattere generale, le disposizioni in esame sono destinate a trovare applicazione nei confronti dei soggetti che, al momento dell'effettuazione del finanziamento, godano di quella consapevolezza della situazione patrimoniale e finanziaria della società beneficiaria del finanziamento che permette di riconoscere la sussistenza dell'eadem ratio ai fini dell'applicazione della regola della postergazione ai finanziamenti da questi effettuati nelle condizioni anomale di cui al capoverso dell'art. 2467 (Trib. Pescara, 22 settembre 2016, in Giur. comm., 2018, II, 346).

Tale orientamento è stato, però, criticato dalla dottrina secondo la quale la conoscenza dello squilibrio finanziario della società finanziata può essere annoverata tra i presupposti della disciplina dei finanziamenti anomali, ma non sembra sufficiente a giustificare l'estensione analogica della postergazione in difetto di una connessione partecipativa diretta (come nel caso delle s.r.l.) o indiretta (come nel caso dei gruppi), ovvero di un collegamento discendente dall'appartenenza al medesimo gruppo (così, Ferro, 353, e ivi per i maggiori approfondimenti).

Segue. Il profilo oggettivo.

La norma prende in considerazione i finanziamenti «in qualsiasi forma effettuati»: si tratta di una formula generica ed onnicomprensiva che fa prevalere la sostanza sulla forma dell'operazione (Campobasso, 2008). La locuzione sta a significare che è assolutamente irrilevante la forma, ovvero il tipo negoziale cui è riconducibile l'operazione di finanziamento con obbligo di rimborso in concreto posta in essere (Prestipino, 70; Terranova, 1479; Balp, 2016, 1301).

Ovviamente, la norma non si applica ai conferimenti, apporti cui è dedicata una specifica disciplina che regola sia l'esecuzione da parte dei soci sia il rimborso del loro valore (Prestipino, 62). Sono esclusi dal perimetro di operatività della norma tutti gli apporti a patrimonio a fronte dei quali non sorge a carico dei soci conferenti un diritto alla restituzione di quanto versato. In questa prospettiva, certamente esclusi sono i versamenti in conto capitale (per come sopra definiti e, precisamente, quelle attribuzioni che i soci effettuano in favore della società e che comportano un incremento dell'attivo dello stato patrimoniale, con corrispondente creazione di una riserva di patrimonio netto). Più dubbia la soluzione della problematica con riferimento ai versamenti in conto aumento capitale o in conto futuro aumento capitale in ragione della circostanza che fino a quando l'aumento di capitale non trova esecuzione, è possibile riconoscere in capo al socio conferente un diritto alla restituzione dello stesso: tuttavia, anche in tali casi è preferibile la soluzione negativa in ragione della circostanza che tali apporti trovano la propria giustificazione causale non in una volontà del socio di fornire alla società mezzi patrimoniali a titolo di capitale di credito, bensì nell'aumento di capitale cui sono collegati (Caspani, 415 che precisa che tali operazioni si risolvono in un'inversione del normale procedimento di aumento del capitale sociale, con anticipazione del conferimento rispetto alla sottoscrizione dello stesso; Prestipino 64 ss.).

Il legislatore accoglie, infatti, una accezione «giuridica» del finanziamento riferendola alle operazioni che hanno come effetto «la costituzione o la modificazione di un diritto di credito verso la società» da intendersi come credito al rimborso (Zanarone, 441; Tombari, 566; Balp, 2016, 1297; Locoratolo, 8; Prestipino, 63 il quale evidenzia che, con riguardo agli apporti fuori capitale e, in particolare, ai versamenti in conto capitale, non è esatto parlare di rimborso, essendo più corretto far riferimento alla distribuzione tra i soci della riserva costituita mediante tali apporti). A sostegno della tesi secondo cui soltanto ai finanziamenti con diritto al rimborso può applicarsi la disciplina in commento, si evidenzia, altresì, che il dato testuale dell'art. 2467 stabilisce che il rimborso dei finanziamenti dei soci è postergato rispetto alla soddisfazione degli «altri creditori» e, cioè, dei creditori esterni (Prestipino, 64) con i quali, diversamente dovrebbe concorrere.

Al contrario, la norma non può essere interpretata considerando il termine finanziamenti inteso nella sua accezione «aziendalistica» secondo la quale il termine finanziamento ricomprende ogni operazione idonea a garantire alla società i mezzi idonei per la realizzazione della propria attività, indipendentemente dalla ricorrenza di una posizione creditoria del finanziatore (così, invece, Tassinari, 151 secondo il quale la norma sarebbe applicabile a tutti gli apporti fuori capitale eseguiti dai soci e, precisamente, anche a tutti i finanziamenti in senso aziendalistico, ma non giuridico, eseguiti al di fuori dell'aumento del capitale nominale, quali i versamenti in conto aumento capitale, coperture di perdite etc.).

Saranno, dunque, soggetti alla regola della postergazione tutti i contratti che prevedono la messa a disposizione della società di una somma di denaro con obbligo di restituzione di quanto ricevuto e, comunque, tutti i contratti nei quali sia ravvisabile una finalità creditizia (Rubino De Ritis, 271; Campobasso, 2008, ibidem). Sulla qualificazione della fattispecie non influisce, invece, la circostanza che il rapporto di credito si sia instaurato secondo forme negoziali tipiche (quali il mutuo) ovvero a titolo di prestito atipico, per effetto di anticipazioni su fatture o emissione di effetti cambiari (Balp, 2016, 1301; Terranova, 1479). Inoltre, la norma troverà applicazione nel caso in cui l'operazione di finanziamento sia stata realizzata attraverso la conclusione di un contratto di deposito irregolare ovvero nell'ipotesi in cui il socio abbia concesso alla società un'apertura di credito non bancaria ovvero ancora nel caso in cui abbia concluso un contratto atipico con causa creditizia (Prestipino, 70).

Per le ragioni esposte, la norma in commento non trova applicazione con riferimento ad apporti di natura non finanziaria, quali la concessione di beni in godimento, in locazione, affitto o comodato (Campobasso, 2011, 245; Rubino De Ritis, 271; Prestipino, 73): tali operazioni, infatti, non hanno natura finanziaria.

La postergazione dovrà applicarsi anche all'ipotesi di leasingfinanziario. Infatti, si ritiene che esso sia riconducibile ad uno schema contrattuale avente causa non già di godimento, ma di finanziamento, in quanto la permanenza del diritto di proprietà sul bene in capo al concedente è strumentale alla realizzazione del finanziamento, rappresentandone i canoni di locazione la modalità di restituzione di esso (Balp, 2016, 1302; Rubino De Ritis, 271). Parimenti, l'art. 2467 trova applicazione al contratto di associazione in partecipazione che genera in capo all'associante un debito di restituzione dell'apporto dell'associato sebbene decurtato delle perdite (Zanarone, 453; Paolucci, 289). Vi rientrano, poi, la concessione, da parte del socio, di garanzie reali o personali a terzi per la concessione di credito in favore della società (Zanarone, 455; Paolucci, 288, nt. 4). In particolare, l'idoneità delle garanzie a essere ricondotte ai «finanziamenti» è collegata all'esercizio del regresso (che consente al socio di divenire legittimato alla restituzione), in assenza del quale la posizione del socio non può incidere su quella dei creditori della beneficiaria garantita (così, Balp, 2007, 345; Prestipino, 71. In senso parzialmente difforme, Rubino De Ritis, 272 secondo il quale, attesa la circostanza che per prassi le banche, nel momento in cui concedono credito alla società, si fanno rilasciare una garanzia da parte del socio, l'operatività della postergazione non dipende dalla indisponibilità del terzo a erogare il finanziamento in difetto di garanzia, ma è correlata allo stato di sottocapitalizzazione della società al momento della concessione del credito).

Negli stessi termini, si è espressa la giurisprudenza di merito. Si è, in particolare, affermato che la funzione della postergazione dei finanziamenti dei soci ai sensi dell'art. 2467 è quella di tutelare i creditori terzi, contrastando il fenomeno della sottocapitalizzazione. La formulazione della norma è volutamente generica ed ampia per evitare altrimenti facili pratiche elusive: decisivo è l'elemento funzionale e causale dell'operazione. Devono ritenersi compresi i finanziamenti erogati sia in forma diretta sia in forma indiretta, cioè erogati da soggetti terzi (Trib. Padova, 10 maggio 2011, in Riv. not., 2011, 2, 1441; Trib. Pescara, 22 settembre 2016, in Giur. comm., 2018, II, 346).

Secondo Trib. Padova, 16 maggio 2011 (in Banca, borsa, tit. cred., 2012, II, 224), i soci postergati sono creditori della società, ma possono essere soddisfatti solo dopo l'estinzione dei debiti nei confronti degli altri creditori. La derogabilità di tale regola è ammissibile solo nel caso di concordato preventivo per classi ed in presenza dei presupposti dell'art. 160 l. fall.

Anche secondo Trib. Udine, 3 marzo 2011 (ivi), fideiussioni e garanzie del socio a favore della società, prestate in un particolare momento di indebitamento della società rientrano nel concetto normativo di «finanziamenti in qualsiasi forma effettuati». L'art. 2467 c.c. deve applicarsi a qualsiasi forma di sostegno finanziario del socio alla società, anche indiretto o «camuffato», che implichi un suo diritto alla restituzione.

La disciplina dell'art. 2467 in tema di postergazione dei finanziamenti dei soci a favore della società è applicabile anche ai pagamenti del socio che in qualità di garante della società abbia assolto il debito di questa nei confronti del terzo creditore e che, in virtù di ciò, si sia surrogato a questo nel credito vantato verso la società (Trib. Milano, 4 luglio 2013, in Soc., 2014, 290; ma anche Trib. Milano, 4 giugno 2013, in Giur. comm., 2015, II, 160 secondo il quale il regime della postergazione trova applicazione anche in caso di garanzie prestate in favore della società, cui sia seguito il pagamento da parte del socio e la conseguente acquisizione, da parte sua, della posizione di creditore della società, non importa se di regresso o per surroga).

Perplessità sono state manifestate per i casi di mancata riscossione delle somme oggetto della restituzione di un finanziamento concesso allorquando non sussistevano i presupposti per la postergazione ovvero di dilazione di pagamenti. Ulteriori forme «sopravvenute» di finanziamento (Balp, 2016, 1302) possono individuarsi in relazione a preesistenti crediti del socio originati (non solo, come detto, da finanziamenti pregressi, ma anche) da altri rapporti obbligatori, di natura commerciale o a titolo di compenso per prestazioni d'opera professionali ovvero in relazione alla carica di amministratore ovvero ancora per dividendi dei quali fosse stata deliberata la distribuzione (Balp, 2016, ivi). Anche in tali casi, il credito, al momento del suo sorgere, è escluso dal perimetro di applicabilità dell'art. 2467 e si discute se, possa essere «riqualificato» in termini di finanziamento postergato in caso di omessa, immediata riscossione (o tentativo di riscossione) alla scadenza del termine per il pagamento ovvero ancora quando il creditore accordi espressamente una dilazione del pagamento.

Secondo taluni, le dilazioni di pagamento rientrano nella nozione di finanziamento così come vi rientra la mancata riscossione di crediti scaduti ed esigibili protratta per un apprezzabile periodo di tempo (Arcidiacono, 116; Campobasso, 2008, 446). Altra dottrina (Prestipino, 83) ha, però, rilevato che una simile conclusione si porrebbe in contrasto con le esigenze di tutela cui si ispira la norma in commento: se la momento della scadenza del prestito la situazione di crisi (originariamente inesistente) è sopravvenuta, il fatto che il socio lasci nella disponibilità della società le somme oggetto del finanziamento non pregiudica né l'integrità patrimoniale della società né le aspettative dei creditori: anzi, proprio una richiesta di restituzione potrebbe aggravare la situazione di crisi societaria. Da ciò deriva, secondo tale ricostruzione (Prestipino, 84), l'impossibilità di applicare la postergazione ai casi di mancata riscossione di un credito da finanziamento ovvero di dilazione di pagamento. Infine, secondo altra dottrina (Rubino De Ritis, 281), occorre distinguere il comportamento omissivo del socio che si astiene dall'intraprendere iniziative volte alla riscossione del proprio credito (ipotesi in cui non si applicherebbe la postergazione) dalla ipotesi in cui vi sia un vero e proprio accordo, ancorché tacito, tra socio creditore e società volto alla non riscossione o, meglio, a sostenere finanziariamente la società in un momento in cui sarebbe ragionevole eseguire un conferimento. In questa prospettiva, l'astensione del socio dalla richiesta di adempimento non è, di per sé, sufficiente per provare l'esistenza di un accordo di finanziamento, con la conseguenza che, in assenza della prova di una comune volontà delle parti di dar luogo ad un vero e proprio finanziamento, non sarebbe giustificata l'applicazione dell'art. in commento: in definitiva, essendo necessaria la prova di un vero e proprio accordo con oggetto il finanziamento della società, non sarebbero sufficienti meri comportamenti fattuali non sorretti da concordanti riscontri documentali (Balp, 2016, 1303; Terranova, 1485).

In giurisprudenza, è stato osservatoc he l'art. 2467 si applica ai finanziamenti effettuati dai soci a favore della società, senza che rilevi la veste giuridica concretamente assunta dal finanziamento. La chiara finalità antielusiva della formula («in qualsiasi forma effettuati») impiegata dal codice impone un approccio esegetico che lasci prevalere la sostanza sulla forma; pertanto, nella nozione di «finanziamento», deve ritenersi rientrino non solo i contratti che prevedono il trasferimento o la messa a disposizione della società di una somma di denaro con obbligo di rimborso, ma anche i negozi giuridici nei quali sia individuabile una prevalente finalità creditizia e, in particolare, anche il credito derivante da dilazione di pagamento del prezzo relativo a forniture di merci alla società o da altri rapporti «commerciali» (Trib. Pescara, 22 settembre 2016, in Giur. comm., 2018, II, 346). 

Anche Trib. Torino, 18 marzo 2016  (in Soc., 2016, 900) ha precisato che si ritengono soggetti alla postergazione i finanziamenti «in qualsiasi forma effettuati» e, di conseguenza, anche i finanziamenti indiretti, tra i quali sono da includere la vendita di beni alla società da parte del socio (o la vendita di quote di altra società), tramite la concessione di una dilazione nel pagamento del prezzo. Sempre in giurisprudenza, si è affermato che l'emissione di obbligazioni costituisce un'operazione soggetta a disciplina specifica da parte del legislatore, che ha previsto, tra l'altro, quale caratteristica del prestito obbligazionario, la natura cartolare, con conseguente facoltà di trasferibilità a terzi. Pertanto, deve ritenersi esclusa l'applicabilità al prestito obbligazionario sottoscritto dai soci – specialmente se dotato del requisito della convertibilità in azioni – della disciplina in tema di postergazione dei finanziamenti soci di cui all'art. 2467 (Trib. Bologna, 9 marzo 2016, n. 1030, in IlSocietario.it; Trib. Milano, 25 luglio 2014, in Giur. comm., 2015, II, 1313; sul punto, in dottrina, Balp, 2016, 1305).

I presupposti per la postergazione.

L'art. in commento indica due circostanze in cui opera la postergazione richiedendo, ai fini della applicabilità del regime di postergazione, che il prestito sia stato concesso: 1) in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto; 2) oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento.

Nella relazione alla riforma del diritto societario, si legge che «il problema più difficile è senza dubbio quello di individuare criteri idonei a distinguere tale forma di apporto rispetto ai rapporti finanziari tra soci e società che non meritano di essere distinti da quelli con un qualsiasi terzo. E la soluzione indicata dal secondo comma dell'art. 2467, non potendosi in via generale individuare parametri quantitativi, è stata quella di un approccio tipologico con il quale, dovendosi ricercare se la causa del finanziamento è da individuare nel rapporto sociale (e non in un generico rapporto di credito): in tal senso l'interprete è invitato ad adottare un criterio di ragionevolezza, con il quale si tenga conto della situazione della società e la si confronti con i comportamenti che nel mercato sarebbe appunto ragionevole aspettarsi» (sul punto, Campobasso, 2011, 239 secondo il quale il riferimento alla causa societaria contenuta nella relazione altro non è che una formula di stile). In altre parole, spetta all'interprete di volta in volta verificare che quel determinato apporto sia contrassegnato da una causa societaria ovvero da una causa creditizia.

Il finanziamento è «anomalo» in quanto un creditore sul mercato del credito non lo avrebbe concesso, o non a quelle condizioni. Sono entrambe situazioni in cui quindi l'impresa viene finanziata in circostanze che fanno emergere il c.d. «rilievo organizzativo del prestito» (Nazzicone, 344; Baccetti, 804, nt. 13). Conseguentemente, solo in presenza di un abuso (le condizioni di squilibrio) si legittima il superamento della formale separazione tra diritto extrasociale e rapporto sociale: il principio sotteso è, pur sempre, quello della buona fede, in quanto in concreto l'esercizio del diritto extrasociale al rimborso non sarebbe con quello coerente (Nazzicone, 345).

In giurisprudenza, si afferma, in linea generale, che i presupposti della postergazione sono individuati dalla norma nell'eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto e in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento, in situazioni cioè di «rischio» di insolvenza che possono manifestarsi sia in fase di start-up se la società è sottocapitalizzata (proprio perché i soci hanno preferito finanziarla anziché conferire capitale di rischio) e quindi v'è il pericolo che il rischio di impresa sia trasferito sui terzi creditori, sia in seguito, quando a fronte di perdite i soci, anziché conferire capitale come sarebbe «ragionevole», effettuino finanziamenti, aumentando l'indebitamento e concorrendo, quindi, con i creditori terzi (su cui verrebbe trasferito il rischio di impresa in situazione di «crisi»), proseguendo l'attività sociale in danno di questi ultimi, che, «normalmente» in una tale situazione non sarebbero disponibili ad erogare finanziamenti (Trib. Milano, 4 dicembre 2014, in Soc., 2015, 839).

Con riferimento al primo indicatore costituito dall'eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto, si evidenzia come la norma non contenga alcuna indicazione sulle soglie di indebitamento oltre le quali possa aversi l'effetto della postergazione (Rubino De Ritis, 277; per uno studio del concetto in esame in una ottica aziendalistica, Policaro, 79). Non è possibile predefinire in via generale ed astratta il livello di indebitamento massimo sopportabile da una impresa: quando la situazione finanziaria della società sia tale da porre a repentaglio la capacità di soddisfare i creditori sociali, è circostanza che può essere accertata caso per caso. In via generale, si evidenzia che l'indebitamento è eccessivo quando è tale da porre la società a rischio di insolvenza (Campobasso, 2011, 239; Rubino De Ritis, 278 secondo il quale si può ricorrere anche ad un giudizio di prognosi postuma, purché relativo alla situazione patrimoniale e finanziaria della società al momento in cui il prestito fu concesso e riferito ai dati acquisibili dal socio nel momento in cui l'erogazione veniva eseguita e non già a quelli contabilmente emersi solo in un secondo momento).

In dottrina, si è ritenuto di potere fare riferimento, in via analogica, al disposto di cui all'art. 2545-quinquies ove è ritenuto eccessivo un indebitamento superiore di quattro volte il valore del patrimonio netto ovvero al disposto di cui all'art. 2412 relativo alla misura massima dell'indebitamento contraibile dalla società per azioni con l'emissione di prestiti obbligazionari (Paolucci, 295).

Per quanto attiene all'eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto, occorre avere riguardo al rapporto di indebitamento, pari al rapporto tra il totale delle fonti di finanziamento e i mezzi propri (Trib. Venezia, 21 aprile 2011, in Banca borsa tit. cred., 2012, II, 222 che precisa che tale indicatore deve però essere confortato da ulteriori elementi probatori e valutato unitamente ad essi; in particolare occorre tenere conto della struttura del debito. In assenza di informazioni comparative sulla struttura del debito, la comparazione con il livello di indebitamento dei principali concorrenti può influire in ordine alla valutazione del merito di credito dell'impresa interessata, ma non rileva agli effetti dell'applicabilità dell'art. 2467 c.c.).

Parimenti, assai difficile fornire una definizione dell'ulteriore parametro indicato dal co. 2 dell'art. 2467 che fa riferimento alla situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento. In particolare, come è stato osservato, il concetto di «ragionevolezza» muta se riguardato dal punto di vista del socio o della società oppure se riguardato dal punto di vista del creditore sociale. In particolare, in una situazione di crisi della società, mentre nella prospettiva del socio la scelta di intervenire con somme erogate a titolo di mutuo appare sempre «ragionevole», atteso che egli, conservando il diritto al rimborso, è in grado di limitare la perdita in ipotesi di successivo fallimento della società; nella prospettiva dei creditori appare sempre «ragionevole» il conferimento o comunque «irragionevole» un finanziamento del socio nell'ipotesi in cui il tentativo di salvataggio manifesti scarse possibilità di andare a buon fine (Portale, 2016, 73; per uno studio del concetto in esame in una ottica aziendalistica, Policaro, 93 ss.).

Si è così proposto di prendere in considerazione il comportamento normale di un finanziatore per cui non sarebbe irragionevole finanziare la società se questa non ha i mezzi necessari per potere restituire il finanziamento medesimo. Il conferimento, poi, dovrebbe considerarsi ragionevole non solo per superare una situazione di crisi, ma anche per assecondare i programmi di sviluppo della società (Santosuosso, 201; Zoppini, 423). In questa prospettiva, si tende a fondare l'interpretazione del canone di «ragionevolezza» sulla base di un confronto con condotte di finanziamento socialmente tipiche e a guardare alle prassi abitualmente vigenti sul mercato per stabilire se un creditore indipendente avrebbe erogato il finanziamento secondo i medesimi termini e alle stesse condizioni riconosciute alla società dal socio (Portale, 2016, 78; Zanarone, 460; Angelici, 491, nt. 102; Nazzicone, 347; in giurisprudenza,Trib. Milano, 6 febbraio 2015, in giurisprudenzadelleimprese.it, secondo cui si fa riferimento a un comportamento ragionevole (e dunque socialmente tipico) del terzo finanziatore, il quale, appunto in presenza di una crisi dell'impresa, non sarebbe normalmente disposto a finanziarla).

Va, comunque, segnalato che una parte della dottrina propende per una lettura unitaria della disposizione in esame secondo la quale il presupposto della postergazione sarebbe comunque la situazione di crisi che ponga la società a rischio di insolvenza (Campobasso, 2011, 239, Rubino De Ritis, 278). In altre parole, secondo un simile approccio, il finanziamento del socio deve essere postergato quando, secondo un giudizio di prognosi postuma, nel momento in cui venne concesso, era altamente probabile che la società, rimborsandolo, non sarebbe stata in grado di soddisfare regolarmente gli altri creditori (Rubino De Ritis, ibidem).

Tale posizione è stata fatta propria dalla giurisprudenza di merito la quale è acceduta ad una interpretazione della disciplina dei presupposti di postergazione ex art. 2467 cc individuante nella elencazione normativa di tali presupposti («eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio», «situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento») la esemplificazione di una unitaria nozione definibile quale «rischio di insolvenza» dante luogo a una sorta di «concorso potenziale» tra tutti i creditori della società.

In particolare, si è affermato che tale interpretazione unitaria del secondo comma appare preferibile in quanto, da un lato, assicura oggettività al primo parametro normativo altrimenti di opinabile lettura anche alla luce delle scienze economiche e, d'altro lato, chiarisce il significato sempre oggettivo del secondo parametro normativo, ove il riferimento a situazioni nelle quali «sarebbe stato ragionevole un conferimento», implica il rinvio a un comportamento «ragionevole» (vale a dire standardizzato, socialmente tipico) non tanto del socio quanto del terzo finanziatore, il quale, appunto in presenza di una crisi dell'impresa, non sarebbe «normalmente» disposto a finanziarla (Trib. Milano, 11 novembre 2010, in Giur. comm., 2012, II, 123; Trib. Milano, 6 febbraio 2015, in Banca, borsa, tit. cred., 2017, II, 513 che fa riferimento ad una nozione unitaria di crisi specificando che parametro della ragionevolezza del conferimento evoca, comunque, il comportamento di un terzo finanziatore il quale, in presenza di una crisi di impresa, non sarebbe normalmente disposto a finanziarla; Trib. Milano, 13 giugno 2016, in IlSocietario.it che individua l'operatività della postergazione in una situazione estranea alla procedura formale di liquidazione della società, ma comunque in uno stato di sostanziale insolvenza che giustifichi l'anticipazione della tutela dei creditori. Si vedano, altresì, Trib. Milano, 14 dicembre 2014 e Trib. Milano, 14 marzo 2014 entrambe in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Roma, 6 febbraio 2017, in IlSocietario.it). I presupposti di postergazione ex art. 2467 c.c. sono individuati dalla norma nell'eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto e in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento, in situazioni cioè di rischio di insolvenza che possono manifestarsi sia in fase di start-up se la società è sottocapitalizzata (proprio perché i soci hanno preferito finanziarla anziché conferire capitale di rischio) e quindi v'è il pericolo che il rischio di impresa sia trasferito sui terzi creditori, sia in seguito, quando a fronte di perdite i soci, anziché conferire capitale come sarebbe ragionevole, effettuino finanziamenti, aumentando l'indebitamento e concorrendo, quindi, con i creditori terzi (su cui verrebbe trasferito il rischio di impresa in situazione di «crisi»), proseguendo l'attività sociale in danno di questi ultimi, che, normalmente in una tale situazione non sarebbero disponibili ad erogare finanziamenti (Trib. Bologna, 9 maggio 2017).

La postergazione trova, poi, trova applicazione non solo in caso di crisi o insolvenza sopravvenuta della società, ma anche in situazioni equiparabili, quali l'insufficienza di risorse economiche per soddisfare le obbligazioni assunte per l'avvio dell'attività imprenditoriale (Trib. Milano, 6 febbraio 2015, in Banca, borsa, tit. cred., 2017, II, 513).

Postergazione e tipi sociali. Applicabilità a s.p.a., società di persone e società cooperative.

Discussa era la possibilità che la norma in commento si applicasse alle società per azioni. Sulla base della considerazione che la postergazione trova il proprio fondamento nel carattere personalistico della società a responsabilità limitata, alcuni autori escludevano la possibilità di applicare analogicamente la postergazione ai finanziamenti dei soci nella società per azioni (Presti, 98; Campobasso, 2011, 239; Terranova, 1449; in generale, sulla problematica in esame, Caspani, 411, nonché Bei, Biggini, 543). In particolare, tale orientamento era argomentato sulla base della considerazione che «la scelta del legislatore di limitare il fenomeno della postergazione alla s.r.l. e nell'ambito dei gruppi di imprese sembra trovare, invece, fondamento nello stretto rapporto «personalistico» esistente tra il socio di s.r.l. e chi eserciti attività di direzione e coordinamento in un gruppo di imprese, in relazione, rispettivamente, alla propria quota societaria ed alla partecipazione di controllo detenuta in altre società del gruppo» (Locoratolo, 40). In entrambi i casi, secondo questa impostazione, rileva il potere «diretto» che sull'oggetto della partecipazione è in grado di esercitare il titolare, cui consegue il grado elevato di conoscenza o, comunque, di cui si presume la conoscibilità, della situazione economica e finanziaria dell'ente di chi si detiene quota o partecipazione, conoscibilità che, nella s.r.l., diviene effetto e diretta conseguenza dei poteri concessi al socio dagli artt. 2476 e 2479 e che, nei gruppi, trova fondamento nell'obbligo, per la controllante, di redazione del bilancio consolidato di gruppo (Locoratolo, 41).

Altra parte della dottrina (Angelici, 492) evidenzia come occorre fare un confronto non tra due modelli legislativi astratti, ma tra quello assunto a base della disciplina della società a responsabilità limitata e quello concretamente attuato in una specifica società per azioni. Occorre, quindi, verificare se in una specifica società per azioni (o, comunque, per l'azionista interessato dal finanziamento) è riconoscibile, in concreto, un assetto di interessi divergente da quello tipico delle società per azioni e corrispondente a quello delle società a responsabilità limitata. In questi casi, secondo l'autore, gli eventuali connotati personalistici potrebbero portare ad una modifica della disciplina rispetto a quella generalmente prevista per le società per azioni.

Anche in giurisprudenza è stato avvertito il dibattito ora sintetizzato. In particolare, in passato, la giurisprudenza di legittimità si era espressa in senso contrario all'estensione (Cass. n. 16393/2007, la cui motivazione però non contiene sul punto particolari approfondimenti).

Recentemente, è intervenuto nuovamente il giudice di legittimità che ha stabilito che la ratio del principio di postergazione del rimborso del finanziamento dei soci posto dall'art. 2467 c.c. per le società a responsabilità limitata – consistente nel contrastare i fenomeni di sottocapitalizzazione nominale in società «chiuse», determinati dalla convenienza dei soci a ridurre l'esposizione al rischio d'impresa, ponendo i capitali a disposizione dell'ente collettivo nella forma del finanziamento anziché in quella del conferimento – è compatibile anche con altre forme societarie. Secondo questa impostazione, dunque, l'integrazione del diritto, per estensione o per analogia, attiene al rapporto tra le norme e i fatti, piuttosto che al rapporto tra modelli normativi, con la conseguenza che il problema dell'applicabilità dell'art. 2467 alle società per azioni non può dunque essere risolto con un riferimento ad astratti modelli di società, dovendosi, al contrario, valutare in concreto la conformazione effettiva di ciascuna specifica compagine sociale, come dimostra del resto la disposizione dell'art. 2497-quinquies c.c., che esplicitamente estende l'applicabilità della regola della postergazione ai finanziamenti effettuati in favore di qualsiasi tipo di società da parte di chi vi eserciti attività di direzione e coordinamento. Dalla norma da ultimo menzionata si desume in realtà che il riferimento al «tipo» di società non può essere di per sé ostativo all'applicazione della norma dettata dall'art. 2467, ma occorre appunto verificare in concreto se una determinata società esprima un assetto dei rapporti sociali idoneo a giustificarne l'applicazione. Pertanto, con specifico riferimento alle società per azioni, occorre valutare in concreto se la stessa, per le sue modeste dimensioni o per l'assetto dei rapporti sociali (compagine familiare o, comunque, ristretta), sia idonea a giustificare l'applicazione della menzionata disposizione (Cass. n. 14056/2015). Questo orientamento è stato, poi, ulteriormente confermato dalla giurisprudenza di legittimità che ha stabilito che, in tema di postergazione dei finanziamenti dei soci, l'art 2467 c.c., dettato per le s.r.l., può essere applicato anche alle s.p.a. quando, per entità o qualità partecipativa, i soci si trovino in una situazione concreta assimilabile a quella dei soci di s.r.l. (Cass. n. 16291/2018, la quale ha precisato che alla medesima conclusione conduce l'art. 182-quater, comma 3, l.fall. che, quanto alla prededucibilità dei crediti nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione in deroga alle citate norme, non procede per distinzioni a seconda del tipo societario).

All'orientamento della giurisprudenza di legittimità si è poi uniformata la giurisprudenza di merito La valenza anti-elusiva della postergazione dei finanziamenti dei soci ex art. 2467 c.c. esprime un principio generale che, seppur esplicitato solo per le s.r.l., è applicabile anche alle s.p.a., laddove le stesse siano connotate da una base azionaria familiare o comunque ristretta; dalla coincidenza tra le figure dei soci e quelle degli amministratori; nonché dalla connessa possibilità per il socio di apprezzare compiutamente (analogamente al socio di s.r.l. tipicamente dotato di poteri di controllo ex art. 2476, secondo comma, c.c.) la situazione di adeguata o meno capitalizzazione della società (Trib. Milano, 28 luglio 2015, in giurisprudenzadelleimprese.it; nonché Trib. Vicenza, 13 luglio 2015, n. 103, in IlFallimentarista.it; Trib. Bologna, 9 marzo 2016, in IlSocietario.it).

Merita, comunque, di essere precisato come la base azionaria familiare o comunque ristretta non possa essere confusa o aprioristicamente equiparata alla esiguità dei soci: in altre parole, non appare sufficiente che il numero dei soci della società per azioni sia esiguo per predicare l'applicazione analogica del principio della postergazione come d'altra parte è reso manifesto dalla considerazione che, diversamente, l'art. 2467 c.c. sarebbe sempre e comunque applicabile in caso di società per azioni con socio unico. Al contrario, l'oggetto dell'indagine cui è chiamato l'interprete è costituito dalla verifica se la società per azioni a base ristretta «replichi» in qualche modo la conformazione tipica della società a responsabilità limitata. Solo ove tale indagine consenta di assimilare la società per azioni al carattere «tipologico» della società a responsabilità limitata, potrà essere predicata l'applicazione della regola della postergazione anche alla prima.

In questa prospettiva, è stato precisato che l'interpretazione estensiva (o anche analogica) della disposizione postula la verifica di somiglianza della condizione concreta afferente. Tale condizione, che certo può esser dedotta su base presuntiva in ragione delle ridotte dimensioni della società, si sostanzia in ultima analisi nell'essere i soci finanziatori della s.p.a. in posizione concreta simile a quelle dei soci finanziatori della s.r.l. L'identità di posizione può pacificamente affermarsi tutte le volte che l'organizzazione della società finanziata consenta al socio di ottenere informazioni paragonabili a quelle di cui potrebbe disporre il socio di una s.r.l. ai sensi dell'art. 2476 c.c.; e dunque di informazioni idonee a far apprezzare l'esistenza dell'eccessivo squilibrio dell'indebitamento della società rispetto al patrimonio netto ovvero la situazione finanziaria tale da rendere ragionevole il ricorso al conferimento, in ragione delle quali è posta, per i finanziamenti dei soci, la regola di postergazione (Cass. n. 16291/2018).

Così, la condizione del socio che sia anche amministratore della società finanziata può essere considerata alla stregua di elemento fondante una presunzione assoluta di conoscenza della situazione finanziaria (Cass. n. 16291/2018).

La giurisprudenza ha avuto modo di affrontare anche l'applicazione dell'art. 2467 alle società di persone. È stato, così, affermato (Trib. Santa Maria Capua Vetere, 29 luglio 2015, in Banca, borsa, tit. cred., 2017, II, 497) che, in tema di finanziamenti dei soci di società di persone, la disciplina della postergazione dettata in materia di s.r.l. si applica in via analogica relativamente alla posizione dei soli soci a responsabilità limitata, attesa la permanenza delle esigenze di garanzia dei creditori terzi soddisfatta dalla normativa richiamata; con la conseguenza che i prestiti erogati dai soci accomandanti o dal socio di società semplice limitatamente responsabile ex art. 2267 c.c. sono postergati in sede di liquidazione della società, non rilevando a tal fine neppure la perdita della qualità di socio successiva all'erogazione del prestito.

Parimenti, si afferma che in difetto di espresse disposizioni normative e di qualunque affinità di tipo sociale, la regola della postergazione dei finanziamenti dei soci di s.r.l. di cui all'art. 2467 non può essere applicata estensivamente alle società cooperative, i cui principî cardine, primo tra tutti quello dello scopo mutualistico, sono estranei a quelli delle società lucrative (Cass. n. 10509/2016).

Postergazione, aumento di capitale e compensazione.

È, oramai, pacifico in dottrina ed in giurisprudenza che l'obbligo del socio di conferire in danaro il valore delle azioni sottoscritte in occasione di un aumento del capitale sociale è un debito pecuniario che può essere estinto per compensazione con un credito pecuniario vantato dal medesimo socio nei confronti della società (Cass. n. 6711/2009; Cass. n. 4236/1998; Cass. n. 936/1996; nonché, nella giurisprudenza di merito, App. Napoli, 17 marzo 2008; Trib. Milano, 9 febbraio 1995; App. Roma, 3 settembre 2002). D'altra parte, appare del tutto evidente che l'aumento di capitale sottoscritto attraverso l'estinzione per compensazione di un debito del socio non è contrario all'interesse della società o dei terzi, comportando, comunque, l'estinzione del debito della società nei confronti del socio e, in definitiva, un aumento della garanzia patrimoniale generica offerta dalla società ai creditori.

Si precisa, inoltre, che la possibilità di compensare il debito da aumento con il credito vantato dal socio opera anche in mancanza di espressa disposizione della deliberazione di aumento: tale compensazione, qualora sia legale e abbia quindi ad oggetto debiti certi, liquidi ed esigibili ai sensi dell'art. 1243 c.c., non richiede il consenso della società, nemmeno nel momento in cui viene eseguita la sottoscrizione (Consiglio notarile Milano, massima 125). L'assemblea dei soci, tuttavia, potrebbe statuire l'esclusione della compensabilità tra credito da restituzione e debito da aumento di capitale.

Costituisce oggetto di dibattito se la compensabilità tra detti crediti sia possibile allorquando il credito vantato dal socio sia soggetto alla regola della postergazione.

La prassi notarile tende ad ammettere tale possibilità. Si afferma che, fermo restando che è sempre possibile liberare l'aumento di capitale sottoscritto mediante compensazione con un credito del socio da finanziamento, anche nel caso in cui il termine per il rimborso non sia ancora scaduto, non osta a tale operazione neppure il fatto che ricorrano le condizioni per la postergazione dei crediti dei soci stabilite dall'art. 2467, posto che la conversione del credito da finanziamento in capitale di rischio concorre alla protezione degli interessi dei creditori terzi tutelati da tale disposizione. Secondo tale impostazione, l'operazione appare tutelare proprio la posizione dei creditori della società in quanto l'effetto della compensazione è quello di rendere definitivamente inesigibile (dato che il rimborso del capitale è l'ultima delle fasi della liquidazione) quel credito che invece lo sarebbe solo transitoriamente per l'operare della postergazione (Consiglio notarile dei distretti riuniti di Firenze, Pistoia e Prato, massima 23; in dottrina, ammette l'operazione, Abriani, 341).

La giurisprudenza, invece, è di contrario avviso. In particolare, essa muove dal presupposto che la postergazione legale, ponendosi come condizione sospensiva del diritto al rimborso, impone l'inesigibilità da parte del socio del credito e l'obbligo per gli amministratori di non procedere al rimborso. In questa prospettiva, non è condivisibile la conclusione che, con la compensazione in argomento, si ottiene la conversione del credito da finanziamento in capitale di rischio perché, attraverso l'estinzione (mediante compensazione) del debito del socio derivante dall'aumento di capitale, l'operazione in argomento, complessivamente riguardata, implica necessariamente una impropria restituzione del finanziamento stesso. In altre parole, la compensazione costituisce una forma di «restituzione» del finanziamento contraria alla norma di cui all'art. 2467 (Trib. Roma, 6 febbraio 2017, in Banca, borsa, tit. cred., 2018, II, 374 e in Giur.it., 2017, 1139; contra, ma in assenza di particolare motivazione, Cass. n. 3946/2018).

La disciplina in caso di fallimento.

L'art. 2467 prevede ancora che se il rimborso è avvenuto nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento le somme rimborsate devono essere restituite alla società e, quindi, alla massa.

La dottrina si è interrogata sulla natura dell'obbligazione restitutoria. La maggioranza degli autori riconduce la disposizione in argomento nell'ambito del sistema revocatorio, deponendo in tal senso, la circostanza che tale sistema svolge la funzione di porre rimedio agli atti compiuti dal fallito che possano recare pregiudizio alle ragioni dei creditori e non potendo dubitarsi che il rimborso del finanziamento è idoneo a pregiudicare i creditori esterni della società in quanto altera l'ordine di priorità stabilito a loro favore dall'art. 2467 (così, esattamente, Prestipino, 134; Locoratolo, 69). Inoltre, sembra comune al sistema revocatorio la circostanza che il pagamento debba essere intervenuto in un periodo sospetto.

Il socio è tenuto a restituire alla massa quanto ricevuto: si tratta di una conseguenza automatica del fallimento, senza che si debba dimostrare la conoscenza dell'insolvenza da parte del socio al momento del pagamento in suo favore, mentre la sussistenza del presupposto obiettivo di squilibrio patrimoniale deve essere vigente al momento dell'erogazione del finanziamento e va fornita dal curatore (Rubino de Ritis, 287; Paolucci, 301, secondo la quale sarà il curatore a dovere provare tanto l'esistenza dei presupposti della postergazione quanto che la restituzione è intervenuta entro l'anno dal fallimento).

Una volta restituite alla massa le somme costituenti il rimborso del finanziamento, il socio è legittimato a domandare l'ammissione al passivo come creditore postergato ai sensi dell'art. 70 l. fall. secondo la quale colui che, per effetto della revoca prevista dalle disposizioni precedenti, ha restituito quanto aveva ricevuto è ammesso al passivo per il suo eventuale credito (Prestipino, 137).

Si segnala che l'art. 383, comma 1 d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 ha disposto la soppressione delle parole «e, se avvenuto nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito». Tale disposizione, ai sensi dell'art. 389, comma 1 entra in vigore decorsi diciotto mesi dalla data della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (intervenuta in data 14 febbraio 2019).

Bibliografia

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