Decreto legislativo - 19/08/2016 - n. 175 art. 11 - Organi amministrativi e di controllo delle societa' a controllo pubblicoOrgani amministrativi e di controllo delle società a controllo pubblico
1. Salvi gli ulteriori requisiti previsti dallo statuto, i componenti degli organi amministrativi e di controllo di società a controllo pubblico devono possedere i requisiti di onorabilità, professionalità e autonomia stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in Conferenza unificata ai sensi dell'articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Resta fermo quanto disposto dall'articolo 12 del decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39, e dall'articolo 5, comma 9, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 1351. 2. L'organo amministrativo delle società a controllo pubblico è costituito, di norma, da un amministratore unico. 3. L'assemblea della società a controllo pubblico, con delibera motivata con riguardo a specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa e tenendo conto delle esigenze di contenimento dei costi, può disporre che la società sia amministrata da un consiglio di amministrazione composto da tre o cinque membri, ovvero che sia adottato uno dei sistemi alternativi di amministrazione e controllo previsti dai paragrafi 5 e 6 della sezione VI-bis del capo V del titolo V del libro V del codice civile. La delibera è trasmessa alla sezione della Corte dei conti competente ai sensi dell'articolo 5, comma 4, e alla struttura di cui all'articolo 152. 4. Nella scelta degli amministratori delle società a controllo pubblico, le amministrazioni assicurano il rispetto del principio di equilibrio di genere, almeno nella misura di un terzo, da computare sul numero complessivo delle designazioni o nomine effettuate in corso d'anno. Qualora la società abbia un organo amministrativo collegiale, lo statuto prevede che la scelta degli amministratori da eleggere sia effettuata nel rispetto dei criteri stabiliti dalla legge 12 luglio 2011, n. 120. 5. Quando la società a controllo pubblico sia costituita in forma di società a responsabilità limitata, non è consentito, in deroga all'articolo 2475, terzo comma, del codice civile, prevedere che l'amministrazione sia affidata, disgiuntamente o congiuntamente, a due o più soci. 6. Con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze [, sentita la Conferenza unificata per i profili di competenza], previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, per le società a controllo pubblico sono definiti indicatori dimensionali quantitativi e qualitativi al fine di individuare fino a cinque fasce per la classificazione delle suddette società. Per le società controllate dalle regioni o dagli enti locali, il decreto di cui al primo periodo è adottato previa intesa in Conferenza unificata ai sensi dell'articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Per ciascuna fascia è determinato, in proporzione, il limite dei compensi massimi al quale gli organi di dette società devono fare riferimento, secondo criteri oggettivi e trasparenti, per la determinazione del trattamento economico annuo onnicomprensivo da corrispondere agli amministratori, ai titolari e componenti degli organi di controllo, ai dirigenti e ai dipendenti, che non potrà comunque eccedere il limite massimo di euro 240.000 annui al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del beneficiario, tenuto conto anche dei compensi corrisposti da altre pubbliche amministrazioni o da altre società a controllo pubblico. Le stesse società verificano il rispetto del limite massimo del trattamento economico annuo onnicomprensivo dei propri amministratori e dipendenti fissato con il suddetto decreto. Sono in ogni caso fatte salve le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono limiti ai compensi inferiori a quelli previsti dal decreto di cui al presente comma. Il decreto stabilisce altresì i criteri di determinazione della parte variabile della remunerazione, commisurata ai risultati di bilancio raggiunti dalla società nel corso dell'esercizio precedente. In caso di risultati negativi attribuibili alla responsabilità dell'amministratore, la parte variabile non può essere corrisposta3. 7. Fino all'emanazione del decreto di cui al comma 6 restano in vigore le disposizioni di cui all'articolo 4, comma 4, secondo periodo, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, e successive modificazioni, e al decreto del Ministro dell'economia e delle finanze 24 dicembre 2013, n. 166. 8. Gli amministratori delle società a controllo pubblico non possono essere dipendenti delle amministrazioni pubbliche controllanti o vigilanti. Qualora siano dipendenti della società controllante, in virtù del principio di onnicomprensività della retribuzione, fatto salvo il diritto alla copertura assicurativa e al rimborso delle spese documentate, nel rispetto del limite di spesa di cui al comma 6, essi hanno l'obbligo di riversare i relativi compensi alla società di appartenenza. Dall'applicazione del presente comma non possono derivare aumenti della spesa complessiva per i compensi degli amministratori. 9. Gli statuti delle società a controllo pubblico prevedono altresì: a) l'attribuzione da parte del consiglio di amministrazione di deleghe di gestione a un solo amministratore, salva l'attribuzione di deleghe al presidente ove preventivamente autorizzata dall'assemblea; b) l'esclusione della carica di vicepresidente o la previsione che la carica stessa sia attribuita esclusivamente quale modalità di individuazione del sostituto del presidente in caso di assenza o impedimento, senza riconoscimento di compensi aggiuntivi; c) il divieto di corrispondere gettoni di presenza o premi di risultato deliberati dopo lo svolgimento dell'attività, e il divieto di corrispondere trattamenti di fine mandato, ai componenti degli organi sociali; d) il divieto di istituire organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in tema di società. 10. E' comunque fatto divieto di corrispondere ai dirigenti delle società a controllo pubblico indennità o trattamenti di fine mandato diversi o ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva ovvero di stipulare patti o accordi di non concorrenza, anche ai sensi dell'articolo 2125 del codice civile. 11. Nelle società di cui amministrazioni pubbliche detengono il controllo indiretto, non è consentito nominare, nei consigli di amministrazione o di gestione, amministratori della società controllante, a meno che siano attribuite ai medesimi deleghe gestionali a carattere continuativo ovvero che la nomina risponda all'esigenza di rendere disponibili alla società controllata particolari e comprovate competenze tecniche degli amministratori della società controllante o di favorire l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento. 12. Coloro che hanno un rapporto di lavoro con società a controllo pubblico e che sono al tempo stesso componenti degli organi di amministrazione della società con cui è instaurato il rapporto di lavoro, sono collocati in aspettativa non retribuita e con sospensione della loro iscrizione ai competenti istituti di previdenza e di assistenza, salvo che rinuncino ai compensi dovuti a qualunque titolo agli amministratori. 13. Le società a controllo pubblico limitano ai casi previsti dalla legge la costituzione di comitati con funzioni consultive o di proposta. Per il caso di loro costituzione, non può comunque essere riconosciuta ai componenti di tali comitati alcuna remunerazione complessivamente superiore al 30 per cento del compenso deliberato per la carica di componente dell'organo amministrativo e comunque proporzionata alla qualificazione professionale e all'entità dell'impegno richiesto. 14. Restano ferme le disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi di cui al decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39. 15. Agli organi di amministrazione e controllo delle società in house si applica il decreto-legge 16 maggio 1994, n. 293, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 1994, n. 4444. 16. Nelle società a partecipazione pubblica ma non a controllo pubblico, l'amministrazione pubblica che sia titolare di una partecipazione pubblica superiore al dieci per cento del capitale propone agli organi societari l'introduzione di misure analoghe a quelle di cui ai commi 6 e 10. [1] Comma modificato dall'articolo 7, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. [2] Comma sostituito dall'articolo 7, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. [3] Comma modificato dall'articolo 7, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. [4] Per l'applicazione del presente comma vedi, l'articolo 1, comma 4-duodecies, del D.L. 7 ottobre 2020, n. 125, convertito con modificazioni dalla Legge 27 novembre 2020, n. 159. InquadramentoL'art. 2449 c.c. consente che, nelle società a partecipazione pubblica, lo statuto possa conferire allo Stato o all'ente pubblico, che, in quanto titolare di una partecipazione rilevante ai sensi dell'art. 2, lett. f), del d.lgs. n. 175, abbia assunto la qualità di socio, la facoltà di nominare uno o più amministratori e sindaci, in misura proporzionale alla loro partecipazione al capitale sociale. L'art. 2450 c.c., attribuendo allo Stato o agli enti pubblici la facoltà di nominare amministratori e sindaci pur in mancanza di una partecipazione azionaria, è stato, invece, abrogato, per violazione delle norme comunitarie, dall'art. 3, comma 1, del d.l. 15 febbraio 2007, n. 10, convertito con modificazioni dalla l. 6 aprile 2007, n. 46. La nomina e la revoca diretta degli amministratori e dei sindaci: la normativa in vigore.L'art. 2449 c.c., nel testo risultante dalle modifiche apportate (a seguito della pronuncia della Corte giustizia UE 6 dicembre 2007, in C-464/04) dall'art. 13 della l. 25 febbraio 2008, n. 34, disciplina sia le società per azioni partecipate che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (c.d. società chiuse), sia quelle che vi fanno ricorso (c.d. società aperte). Quanto alle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, la norma stabilisce che, se lo Stato o gli enti pubblici detengono azioni delle medesime, lo statuto può conferire ad essi la facoltà di nominare un numero di amministratori e sindaci proporzionale alla partecipazione del capitale sociale. La norma, inoltre, prevede che gli amministratori ed i sindaci nominati dallo Stato o dall'ente pubblico socio, nonostante abbiano gli stessi diritti e gli stessi obblighi di quelli nominati dall'assemblea, possano essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati. Quanto alle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, il quarto comma dell'art. 2449 c.c. richiama il sesto comma dell'art. 2346 c.c., il quale, a sua volta, prevede che la società possa emettere strumenti finanziari partecipativi. Il consiglio di amministrazione può, tuttavia, proporre all'assemblea che i diritti amministrativi previsti dallo statuto a favore dello Stato o degli enti pubblici partecipanti al capitale sociale siano rappresentati da una particolare categoria di azioni. La trasformazione delle azioni ordinarie in azioni di categoria richiede il consenso dello Stato o dell'ente pubblico a favore del quale i diritti amministrativi sono previsti. La disciplina è, poi, completata dall'art. 9 d.lgs. n. 175 il quale, in particolare, al comma 7, si occupa di regolare i riflessi sulla società degli atti di nomina o di revoca compiuti dal «socio pubblico» ai sensi dell'art. 2449 c.c., nei casi nei quali tale possibilità sia prevista dallo statuto della società, prevedendo che «i relativi atti sono efficaci dalla data di ricevimento, da parte della società, della comunicazione dell'atto di nomina o di revoca». La norma, inoltre, fa espressamente salva «l'applicazione dell'art. 2400, comma 2, del Codice civile». Il comma 8 dell'art. 9, infine, stabilisce che «la mancanza o invalidità dell'atto deliberativo interno di nomina o di revoca rileva come causa di invalidità dell'atto di nomina o di revoca anche nei confronti della società». L'art. 2449 c.c. consente che, nelle società (per azioni) a partecipazione pubblica, lo statuto possa conferire allo Stato o all'ente pubblico (che, in quanto titolare di una partecipazione rilevante ai sensi dell'art. 2, lett. f, d.lgs. n. 175, abbia assunto la qualità di) socio (e sia, quindi, come tale, specificamente e nominativamente indicato nell'atto costitutivo: artt. 2328, n. 1, 2463, n. 1 e 2521, n. 1, c.c.), la facoltà di nominare uno o più amministratori e sindaci, in misura proporzionale alla loro partecipazione al capitale sociale. La norma pone, quindi, due presupposti: il primo è che lo Stato o un ente pubblico siano titolari di una partecipazione (quale che ne sia la misura) al capitale sociale di una società per azioni (intendendosi come tale, ai sensi dell'art. 2, lett. f, d.lgs. n. 175, la titolarità di rapporti comportanti la qualità di socio in società o la titolarità di strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi); l'altro è che lo statuto della società abbia attribuito ad essi la facoltà di nominare uno o più amministratori e sindaci. La norma, presupponendo che l'ente pubblico sia socio della società, richiede che lo stesso sia titolare di una (diretta) partecipazione al capitale sociale della società, avendo acquistato o sottoscritto una o più delle relative azioni ovvero, come consentito dall'art. 2, lett. f, del d.lgs. n. 175, di strumenti finanziari che, a norma dell'art. 2346, comma 6, c.c., attribuiscono, tra i relativi diritti amministrativi, quello di procedere alla nomina e alla revoca diretta di amministratori e sindaci (cfr. l'art. 2351, ult. comma, c.c.. Non può, quindi, trovare applicazione per il caso in cui la partecipazione appartiene non all'ente pubblico ma ad una società controllata da un ente pubblico. La disposizione, per l'ampiezza del suo contenuto, trova applicazione per lo Stato e per tutti gli enti che possano configurarsi come enti pubblici, anche locali, con esclusione, quindi, di altre società a partecipazione pubblica, che, come detto, sono enti a carattere privato (Pericu, 1305). La norma, come detto, prescinde dalla misura della partecipazione posseduta e, quindi, non richiede la partecipazione posseduta dallo Stato o dall'ente pubblico sia di minoranza. La norma, quindi, si applica anche nel caso in cui lo Stato o l'ente pubblico siano titolari di una partecipazione azionaria di maggioranza o, comunque, tale da assicurare ad essi il controllo dell'assemblea della società.La ratio della norma è, infatti, non semplicemente di assicurare all'ente socio il potere di nominare amministratori e sindaci della società ma, più radicalmente, il potere di farlo in via diretta, sottraendo tali nomine al dibattito assembleare ed ai tempi e i modi del relativo procedimento. La norma, quindi, può trovare applicazione anche nella società a controllo pubblico anche se, in tali società, lo stesso, può provvedere alla nomina o alla revoca attraverso il capitale sociale posseduto in assemblea: - intanto, come detto, la norma è compatibile anche nei casi in cui la partecipazione pubblica sia maggioritaria e serve per assicurare al socio pubblico sia il potere di nomina che quello di revoca diretta sottraendo tali decisioni al dibattito assembleare; - d'altra parte, come visto, il controllo pubblico non presuppone necessariamente la maggioranza dell'assemblea ordinaria, sussistendo anche nei casi in cui ciò avvenga in via di mero fatto. La norma, come è evidente, contiene una deroga vistosa: - tanto al principio per cui la nomina (e la revoca) degli amministratori e dei sindaci spetta, in via esclusiva, ai sensi dell'art. 2364 n. 2 c.c., all'assemblea (ordinaria) dei soci (come, del resto, gli artt. 2383, comma 1, e 2400, comma 1, c.c. espressamente riconoscono); - quanto, e per l'effetto, al principio per cui la nomina degli amministratori e dei sindaci (salvi i primi, nominati nell'atto costitutivo e, quindi, con il consenso unanime dei soci stipulanti), proprio perché riservata alla competenza dell'assemblea ordinaria dei soci, richiede, a norma dell'art. 2368, comma 1, c.c. il consenso della maggioranza del capitale sociale (o la più elevata maggioranza richiesta per la nomina delle cariche sociali). Nell'ipotesi in esame infatti, l'ente pubblico socio, sia pure in (necessaria) proporzione alla partecipazione posseduta, provvede in via diretta alla nomina e alla revoca di amministratori e sindaci, senza che sia necessario che gli atti di nomina o revoca, per essere efficaci verso la società, siano, poi, trasfusi in una delibera assembleare (Minervini, 42; Cavalli, 9; Rordorf, 427 ss.; Magnani, 136), la quale, se adottata, avrebbe carattere meramente dichiarativo o ricognitivo (Cass. n. 4139/1982; App. Milano 18 maggio 2001, Giur. it. 2002, 123). La nomina (e la revoca) operata dall'ente pubblico socio è, quindi, efficace di per sé e si impone, dunque, alla società ed ai soci, con l'introduzione (o la rimozione) dall'organo amministrativo e di controllo dell'amministratore o del sindaco nominato (o revocato), a prescindere dal consenso degli altri soci, a far data (come ha chiarito l'art. 9, comma 7, del d.lgs. n. 175) dal ricevimento, da parte della società, della comunicazione del relativo atto. Naturalmente, nulla vieta che, per previsione statutaria o in via di fatto, l'esercizio della facoltà di nomina o di revoca possa esplicarsi nell'ambito di un procedimento assembleare: fermo restando, però, che, anche in tal caso, l'assemblea dei soci è solo il contesto spazio-temporale in cui il socio pubblico esercita la facoltà attribuitagli dallo statuto, senza che sia, pertanto, necessaria che, per essere efficace, la nomina (o la revoca) siano trasfuse nella delibera dell'assemblea ma, al più, solo nel verbale che ne documento lo svolgimento e le decisioni assunte. Non è chiaro, peraltro, se lo statuto possa riconoscere non semplicemente all'ente pubblico socio il diritto di procedere alla nomina e alla revoca diretta di amministratori e sindaci ma, addirittura, che le azioni possedute dagli enti pubblici incorporino, ai sensi dell'art. 2348, comma 2, c.c., il particolare diritto alla nomina (e alla revoca) di amministratori e sindaci: (Salafia, 773; sulla norma e sui limiti che la stessa pone in ordine alla possibilità di prevedere clausole statutarie dirette ad istituire categorie di azioni dotate del potere di nomina di determinate percentuali dei componenti degli organi sociali, v. Abriani, 324 ss; per la illegittimità della clausola statutaria che attribuisca la facoltà di nomina di amministratori e sindaci ad un ente pubblico attraverso una particolare categoria di azioni, Trib. Cassino 12 aprile 1991, Riv. not. 1992, II, 1432) La norma prevista dall'art. 2449 c.c., come visto, può trovare applicazione in tutte le società a partecipazione pubblica. Se, però, la società partecipata è assoggettata, nei modi esposti, al controllo dell'ente pubblico, essa dev'essere coordinata con la norma dell'art. 11, la quale prevede che, in tali società, l'organo amministrativo è costituito, di regola, da un amministratore unico salvo che non sussistano le condizioni per la scelta, da parte dell'assemblea, di un organo amministrativo costituito da un consiglio di amministrazione composto da tre a cinque membri. In quest'ultimo caso, e cioè quando l'organo amministrativo è costituito da un consiglio di amministrazione composto da tre a cinque membri il criterio della proporzionalità non incontra ostacoli particolari. Nel caso in cui, invece, la società sia amministrata da un amministratore unico, non è chiaro in che modo la norma possa trovare applicazione. Anche in tali ipotesi, tuttavia, non sembra che possa escludersi l'operatività della norma e, quindi, la validità della relativa clausola statutaria: a condizione, però, che la partecipazione dell'ente pubblico che pretenda di esercitare il relativo potere sia maggioritaria, dovendo, altrimenti, proprio in applicazione del criterio della proporzionalità alle azioni possedute dal socio pubblico, necessariamente soccombere rispetto alla pretesa della maggioranza del capitale di procedere alla nomina assembleare dell'amministratore unico. Il potere di nomina e di revoca che, in tale ipotesi, spetta allo Stato o all'ente pubblico socio ha carattere esclusivo. L'assemblea dei soci non può, quindi, sostituirsi all'ente pubblico che non abbia esercitato il potere di nomina o di revoca attribuitogli in via esclusiva dall'art. 2449 c.c., con la conseguenza che la delibera di nomina o di revoca eventualmente assunta dai soci è viziata da nullità (App. Milano 18 maggio 2001, in Giur. it., 2002, 123; Trib. Milano 2 febbraio 2000, in Giur. it., 2001, 1683; Pericu, 1311; in senso contrario, Mignoli e Nobili, 151, con riferimento al caso in cui l'ente pubblico non provveda alla revoca degli amministratori nominati nonostante la giusta causa, ammettendo, quindi, che, in tal caso, possano essere revocati dall'assemblea dei soci; Bonelli, 2004, 100, 101). L'eventuale inerzia o il ritardo dell'ente pubblico nel procedere alla nomina (o alla revoca) di sua spettanza, pur a fronte dei relativi presupposti (quali, ad esempio, la sussistenza di una giusta causa: artt. 2383, comma 3, e 2400, comma 2, c.c.), non consente, quindi, alla società (e, per essa, all'organo assembleare) a provvedere altrimenti, a meno che lo statuto della società espressamente lo consenta (Rordorf, 427 ss.). La sistematica inerzia dei soci pubblici nell'esercizio di tale facoltà non è, di per sé, causa di scioglimento della società (Minervini, 43), sempre che, naturalmente, ciò non determini l'impossibilità di conseguimento dell'oggetto sociale o, di riflesso, l'impossibilità di funzionamento dell'assemblea dei soci (art. 2484, n. 2 e n. 3, c.c.). Deve escludersi che lo Stato o l'ente pubblico socio possano designare direttamente il presidente del consiglio di amministrazione o il presidente del collegio sindacale, spettando tali nomine, rispettivamente, al consiglio di amministrazione o all'assemblea (art. 2380, ult. comma, c.c.) ovvero esclusivamente all'assemblea (art. 2398 c.c.: è stata, del resto, abrogata la norma prevista dall'art. 2450 c.c., il cui comma 2 prevedeva che «qualora uno o più sindaci siano nominati dallo Stato, il presidente del collegio sindacale deve essere scelto tra essi»): «con riferimento alle società alle quali partecipa prevalentemente o totalmente la Regione, quest'ultima, a norma dell'art. 2458 c.c., può godere della facoltà, purché sia prevista dall'atto costitutivo, di nominare uno o più amministratori o sindaci», ma non può «sostituirsi al consiglio di amministrazione della società nella nomina del presidente della stessa» (Corte cost. n. 35/1992). Per le stesse ragioni, deve escludersi che lo Stato o l'ente pubblico socio possano designare direttamente, salvo che una norme di legge non preveda espressamente il contrario, l'amministratore o gli amministratori delegati o i componenti del comitato esecutivo (Pericu, 1307). Non è chiaro se lo statuto possa attribuire allo Stato o agli enti pubblici soci la facoltà di nominare tutti gli amministratori o tutti i sindaci della società. La soluzione negativa (già sostenuta in dottrina da Minervini, 43, 44; in senso contrario, Franzoni, 28) sembra imporsi alla luce della nuova formulazione della norma dell'art. 2449, comma 1, c.c., la quale – anziché ad «uno o più amministratori o sindaci» – fa testuale riferimento alla facoltà di nominare «un numero di amministratori e sindaci... proporzionale alla partecipazione al capitale sociale». La norma dell'art. 2449 c.c., comunque, se letta in relazione all'art. 2542, ult. comma, c.c., che, nelle cooperative, riserva all'assemblea la nomina della maggioranza degli amministratori, consente senz'altro allo Stato o all'ente pubblico socio di una società per azioni di nominare (e, quindi, di revocare), ove tale potere sia loro attribuito dallo statuto, la maggioranza degli amministratori e dei sindaci (Minervini, 43; Pericu, 1308 e nt. 69). La norma, infine, facendo esclusivo riferimento agli amministratori ed ai sindaci, non consente allo statuto di riservare allo Stato o all'ente pubblico socio la nomina di componenti di organi sociali diversi, come il direttore generale ovvero i liquidatori. Quanto ai criteri della scelta che lo Stato o gli altri enti pubblici soci devono fare con la nomina, trova, in materia, applicazione l'art. 11, comma 4, d.lgs. n. 175, a norma del quale, da un lato, «nella scelta degli amministratori delle società a controllo pubblico, le amministrazioni assicurano il rispetto del principio di equilibrio di genere, almeno nella misura di un terzo, da computare sul numero complessivo delle designazioni o nomine effettuate in corso d'anno» e, dall'altro, «gli amministratori delle società a controllo pubblico non possono essere dipendenti delle amministrazioni pubbliche controllanti o vigilanti». La stessa norma ha previsto che, con salvezza degli ulteriori requisiti previsti dallo statuto, i componenti degli organi amministrativi e di controllo di società a controllo pubblico devono possedere i requisiti di onorabilità, professionalità e autonomia stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in Conferenza unificata ai sensi dell'art. 9 d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, e che resta fermo quanto disposto dall'art. 12 del d.lgs. 8 aprile 2013, n. 39 (che stabilisce l'incompatibilità tra li incarichi dirigenziali, interni e esterni, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico di livello regionale e la carica di presidente e amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico da parte della regione) e dall'art. 5, comma 9, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 135 (che vieta alle pubbliche amministratori di attribuire ai soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo degli enti e società da esse controllati, salvo che l'incarico non sia attribuito a titolo gratuito). L'art. 11, comma 8, infine, dispone che gli amministratori delle società a controllo pubblico non possono essere dipendenti delle amministrazioni pubbliche controllanti o vigilanti. L'art. 2449 c.c. disciplina espressamente la durata dell'incarico di amministratore e sindaco attributi con la nomina diretta, stabilendo che gli amministratori, al pari di quelli nominati dall'assemblea (art. 2383, comma 1, c.c.), non possono essere nominati per un periodo superiore a tre esercizi e scadono alla data dell'assemblea convocata per l'approvazione del bilancio relativo all'ultimo esercizio della loro carica, mentre i sindaci, al pari del componenti del consiglio di sorveglianza, restano in carica, come quelli di nomina assembleare (art. 2400, comma 1, c.c.), per tre esercizi e scadono alla data dell'assemblea convocata per l'approvazione del bilancio relativo al terzo esercizio della loro carica. La norma non chiarisce, invece, se gli amministratori e i sindaci possano essere, o meno, nuovamente nominati, come, invece, consentito, salva diversa disposizione statutaria, per gli amministratori e i sindaci di nomina assembleare. Al riguardo, l'equiparazione tra gli amministratori e i sindaci di nomina pubblica con quelli nominati dall'assemblea, operata dall'art. 2449, comma 2, c.c., induce a ritenere che, con salvezza di una differente disposizione normativa, gli amministratori e i sindaci nominati dallo Stato o da un ente pubblico socio sono rieleggibili, a meno che lo statuto non disponga diversamente. In caso di scadenza del termine di durata, gli amministratori di nomina pubblica erano assoggettati, in virtù del combinato disposto degli artt. 3, comma 1, e 6, comma 1, della l. n. 444/1994 (che trova applicazione agli amministratori delle persone giuridiche a prevalente partecipazione pubblica, quando alla nomina dei componenti di tali organi concorrono lo Stato o gli enti pubblici) ad un prorogatio che, in deroga a quella prevista dall'art. 2385, comma 2, c.c., è pari a quarantacinque giorni, con la conseguenza che, ove non sostituiti, decadevano automaticamente e gli atti compiuti erano nulli. Il d.lgs. n. 175, all'art. 11, comma 15, ha, tuttavia, stabilito che tale norma si applica solo alle società in house, per cui gli amministratori di nomina pubblica di società diverse da queste ultime sono assoggettati, in caso di scadenza del termine di durata dell'incarico, al regime di prorogatio di diritto comune. La revoca diretta degli amministratori e dei sindaci nominati dallo Stato o dell'ente pubblico spetta esclusivamente a chi li ha designati: : art. 2449, comma 2, c.c. La norma, quindi, esclude non solo che l'assemblea dei soci possa procedere alla delibera di revoca di tali amministratori e sindaci, pur in caso di giusta causa (artt. 2383, comma 3, e 2400, comma 2, c.c.), ma pure che all'ente pubblico socio possa essere conferito solo il potere di procedere alla nomina ovvero solo il potere di procedere alla revoca dell'amministratore e del sindaco: una volta che lo statuto ritenga di attribuire tale potere, esso comprende necessariamente tanto il potere di nomina, quanto il potere di revoca. La disciplina del rapporto conseguente alla nomina pubblica direttaLa nomina diretta degli amministratori e dei sindaci da parte dello Stato o dell’ente pubblico socio non modifica la disciplina del rapporto che ne consegue, né altera il normale funzionamento degli organi, salvo che per le deroghe che lo stesso d.lgs. n. 175 contiene con riferimento agli organi di amministrazione e di controllo delle società a partecipazione pubblica. Gli amministratori di nomina pubblica, quindi, una volta designati con efficacia nei confronti della società, compongono l’organo amministrativo (per lo più collegiale), con tutti i diritti (come, ad es., quello al compenso, nei limiti previsti, se si tratta di società a controllo pubblico, dall’art. 11, o quello di ricevere informazioni dagli organi delegati sulla gestione della società a norma dell’art. 2381, ult. comma, c.c.) e tutti gli obblighi che ne conseguono (come quello di agire informati): che sono, appunto, come l’art. 2449 c.c. chiarisce, gli stessi diritti e gli stessi obblighi degli amministratori nominati dall’assemblea. Nello stesso modo, il sindaco di nomina pubblica, una volta designato, compone il collegio sindacale, con tutti le prerogative e i doveri che, secondo le regole ordinarie, ne derivano. Gli amministratori di nomina pubblica, quindi, possono senz’altro essere designati, secondo le regole ordinarie, amministratori delegati o componenti del comitato esecutivo. Nello stesso modo, il sindaco di nomina pubblica può essere nominato, secondo le regole ordinarie, presidente del collegio sindacale. Il problema è se, per gli amministratori ed i sindaci di nomina pubblica, possano, o meno, trovare applicazione le ipotesi di revoca previste per gli amministratori ed i sindaci nominati dall'assemblea, quali, in particolare, la revoca giudiziale prevista dall'art. 2409 c.c. e la revoca automatica prevista dall'art. 2393, comma 5, c.c. (e, nel caso di sistema dualistico, dall'art. 2409-decies, comma 2, c.c.). A quest'ultimo proposito, escluso, come si vedrà in seguito, che l'atto di nomina da parte dello Stato o dell'ente pubblico soci abbia la natura giuridica del provvedimento amministrativo, con la conseguente intangibilità dei suoi effetti tanto da parte della società, quanto da parte del giudice ordinario, deve ritenersi, anche in forza della norma prevista dall'art. 2449, comma 3, c.c. (per la quale gli amministratori ed i sindaci nominati dallo Stato o da enti pubblici «hanno i medesimi diritti e gli obblighi dei membri nominati dall'assemblea»), per un verso, che la delibera con la quale l'assemblea decide di promuovere l'azione sociale di responsabilità, ove adottata con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale sociale, determini (al pari dell'analoga delibera del consiglio di sorveglianza, adottata con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti) la revoca automatica dell'amministratore incolpato pur se nominato dallo Stato o da altro ente pubblico, al quale, naturalmente, spetta il potere di provvedere alla sua sostituzione (Ferri, 536, 537; in senso contrario, Rordorf, 429; Pericu, 1310, 1311), e, per altro verso, che, in caso di gravi irregolarità amministrative, il tribunale può revocare, a norma dell'art. 2409 c.c., anche gli amministratori ed i sindaci nominati dallo Stato o da un ente pubblico (Pericu, 1311 ss.; Rordorf, 444; Bonelli, 2004, 101; in senso contrario, Tedeschi, 298). La potestà di revoca che il legislatore ha inteso riservare allo Stato o all'ente pubblico costituisce, palesemente, il rovescio della potestà di nomina spettante ai medesimi soggetti; e come quella potestà di nomina si pone in termini di eccezione rispetto alla regola che altrimenti attribuisce all'assemblea (o ai soci costituenti in sede di prima nomina) la competenza a designare i componenti degli organi sociali, così la riserva di revoca in favore del soggetto pubblico, da cui la nomina promana, vale a sottrarre all'assemblea il corrispondente potere che altrimenti ad essa farebbe capo. Del tutto diversa è, però, l'ipotesi di revoca giudiziale ex art. 2409, che prescinde da ogni attribuzione assembleare di competenza in ordine alla designazione degli organi sociali e si pone su un piano lato sensu cautelare, consentendo l'immediata rimozione, ad opera di un giudice terzo, di situazioni potenzialmente dannose mediante provvedimenti provvisori il più grave dei quali può consistere, appunto, nella revoca degli amministratori (ed, eventualmente, dei sindaci) e nella nomina per il tempo necessario di un amministratore giudiziario. Negare che, in situazioni di tal fatta, il tribunale possa revocare anche gli amministratori (ed eventualmente i componenti degli organi di controllo) di nomina pubblica equivarrebbe a rendere di fatto impraticabile la nomina dell'amministratore giudiziario, la cui competenza ed i cui poteri non si saprebbe come far coesistere con quelli dell'amministratore non revocato: si finirebbe perciò col sancire l'irrevocabilità anche degli altri amministratori di nomina assembleare. Ma in questo modo, per i soci di minoranza delle società a partecipazione pubblica legittimati ad esperire il ricorso ai sensi dell'art. 2409 c.c., si verrebbe a determinare una situazione di minorata tutela, rispetto ai soci di altre società private che versino in analoga situazione, non facilmente giustificabile sul piano della ragionevolezza (così, Rordorf, 444). La revoca diretta da parte dello Stato o dell'ente pubblico socio non esclude, tuttavia, con riguardo ai sindaci, l'applicabilità dell'art. 2400, comma 2, c.c., che richiede l'approvazione della revoca del sindaco da parte del tribunale, come definitivamente chiarito dall'art. 9, comma 7, d.lgs. n. 175: il quale, infatti, nel richiamare l'art. 2449 c.c., fa espressamente «salva l'applicazione dell'art. 2400, secondo comma, del codice civile». Di conseguenza, la facoltà del socio pubblico di revocare il sindaco, oltre che la sussistenza di una giusta causa (sulla necessità della giusta causa ai fini della legittimità della revoca dei sindaci, Minervini, 280; Pericu, 1310; Rordorf, 445), richiede, per essere efficace, l'approvazione da parte del tribunale prevista dall'art. 2400, comma 2, c.c. (nel passato, per l'inapplicabilità dell'art. 2400, comma 2, c.c., v. Cavalli, 56; in giurisprudenza, in tal senso, Trib. Bologna 5 giugno 2001, in Soc., 2001, 948, che ha escluso l'applicazione della norma sul rilievo che la stessa richiede una deliberazione dell'assemblea). La norma, nella parte in cui ha previsto che la revoca dei sindaci da parte dello Stato o dell'ente pubblico socio che li ha nominati, debba essere approvata dal tribunale ai sensi dell'art. 2400, comma 2, c.c., ed è, quindi, subordinata alla sussistenza di una «giusta causa», ha definitivamente chiarito che il potere di nomina e di revoca diretta degli amministratori e dei sindaci, da parte dello Stato o dell'ente pubblico socio, deroga solo alla ordinaria competenza che, in materia, spetterebbe all'assemblea dei soci ma non anche alla sussistenza dei presupposti normalmente richiesti per la nomina o la revoca degli amministratori e dei sindaci da parte dell'assemblea dei soci. Ciò significa, da un lato, che gli amministratori ed i sindaci (nonché i componenti del consiglio di sorveglianza e del comitato per il controllo sulla gestione) nominati in via diretta dallo Stato o dall'ente pubblico socio devono rivestire i requisiti di eleggibilità e di permanenza in carica richiesti per quelli nominati dall'assemblea dagli artt. 2382,2387,2397,2399,2409-duodecies, 2409-septiesdecies e 2409-octiesdecies c.c. (Rordorf, 427; Bonelli, 63, 64, nt. 65), dall'altro lato, che la revoca degli amministratori da parte dello Stato o degli enti pubblici che l'hanno nominati richiede la sussistenza di una giusta causa (art. 2383, comma 3, c.c.), sicché, in difetto, la società (e non anche o solo l'ente che ha provveduto alla revoca: App. Milano 5 aprile 2016, Soc., 2016, 1252 ss., in motiv.) è tenuta al risarcimento dei conseguenti danni (Bonelli, 2004, 101, nt. 132; Pericu, 1309, 1310; in senso contrario, Minervini, 46; Cass. n. 4139/1982, per la quale la norma dell'art. 2383 c.c., nella parte in cui prevede che l'amministratore revocato senza giusta causa abbia il diritto al risarcimento dei danni, non è invocabile dall'amministratore nominato da un ente pubblico, in quanto la norma postula una delibera di revoca dell'amministratore da parte dell'assemblea ed un sindacato, con riferimento alla sussistenza della giusta causa, inibito al giudice ordinario per la natura pubblica e discrezionale dell'atto di revoca; Cirenei, 43 ss., 49). La giusta causa, naturalmente, dev'essere valutata non già facendo riferimento all'eventuale rottura del rapporto fiduciario tra l'ente designante ed il designato, bensì unicamente con riguardo a fatti rilevanti nell'ordinamento societario (Rordorf, 427; Ranucci, 1252 ss., 462 ss; App. Milano 5 aprile 2016, in Soc. 2016, in motiv., per la quale «l'esercizio del potere di revoca, se non motivato da ragioni che esplicitino le eventuali carenze dimostrate dagli amministratori nell'amministrare la società non appare sorretto da giusta causa»; in senso contrario, App. Milano 5 maggio 2010, in Soc., 2011, 262, per la quale, invece, «il pactum fiduciae non può essere ricondotto al rapporto tra amministratore e società, dal momento che a quest'ultima è comunque preclusa la revoca del primo, se l'ente non concorda. Quindi, esistenza e permanenza del menzionato pactum vanno piuttosto ravvisati nei rapporti tra ente (pubblico) e amministratore. Questi, a sua volta, è uno di formazione e area ben individuate; la sua designazione, lui consenziente, avviene in base (e comunque non può prescindere dalla sua attitudine a fungere da strumento per la realizzazione delle finalità perseguite dall'ente pubblico, secondo la valutazione propria (quanto a obiettivi, priorità e modalità) delle forze politiche (che si succedono alla guida dell'ente)», al punto da aver considerato il mutamento della maggioranza politica che ha provveduto alla nomina come giusta causa di revoca; Rossi, 1265, 1268), a meno che la società non abbia il carattere della società in house, a fronte, in quest'ultimo caso, del totale assoggettamento degli amministratori al potere gerarchico dell'ente pubblico socio (Ranucci, 464). Una volta revocato, il sindaco è sostituito, in via automatica, da quello, tra i supplenti, che è stato nominato dall'ente stesso, in deroga rispetto a quanto disposto dall'art. 2401, comma 1, c.c., in mancanza del quale lo Stato o l'ente pubblico titolari del relativo potere, dovranno provvedere ad una nuova designazione (Cavalli, 67; Magnani, 152, 153; Pericu, 1313, per il quale dovrà prevedersi, in tal caso, che il numero dei sindaci supplenti sia pari a quello degli effettivi). Quanto agli amministratori, la norma riserva allo Stato o all'ente pubblico socio la nomina dell'amministratore in sostituzione di quello revocato, con la conseguente esclusione del meccanismo di cooptazione previsto dall'art. 2386, comma 1, c.c. (Minervini, 44; Rordorf, 427; Pericu, 1312; Ghezzi, 254). È legittima, invece, la clausola simul stabunt simul cadent, ferma restando l'esclusiva competenza dello Stato o dell'ente pubblico socio di nominare il sostituto di quello che aveva nominato e che, in conseguenza della predetta clausola, sia automaticamente decaduto (Bonelli, 2004, 63, 64, nt. 65; Pericu, 1312, nt. 96; Ghezzi, 266, nt. 60). La revoca da parte dello Stato o dell'ente pubblico socio riguarda unicamente gli amministratori ed i sindaci che, rispettivamente, ciascuno di essi abbia provveduto a nominare: «il potere di revoca degli amministratori di società per azioni, che l'art. 2458, secondo comma, c.c. attribuisce allo Stato e agli enti pubblici aventi partecipazioni azionarie, è strettamente correlato al potere di nomina previsto dal primo comma del medesimo art. 2458», sicché «il presidente della Regione può disporre la revoca e la sostituzione dei soli amministratori che siano stati nominati dall'ente regionale» (Corte cost. n. 35/1992). Trovando applicazione le norme comuni, in mancanza di norme che dispongano in modo diverso, gli atti di nomina e revoca diretta devono essere iscritti nel registro delle imprese, ai sensi e per gli effetti previsti dagli artt. 2383, comma 4, 2385, ult. comma, e 2400, comma 3, c.c. Prima della riforma del diritto societario, introdotta dal d.lgs. n. 6/2003, si è sostenuto che la disposizione in esame trovasse applicazione anche alle società a responsabilità limitata, argomentando, essenzialmente, sulla base del rilievo che la disciplina di tali ultime compagini sociali era ricalcata, come si desume dagli artt. 2487,2383, comma 1, 2488 e 2400 c.c., su quella delle società per azioni (per tale conclusione, Salafia, 774). La riforma del diritto societario ha, tuttavia, mutato il quadro normativo, avendo delineato la società a responsabilità limitata come un modello completamente autonomo, per ciò che riguarda la disciplina, rispetto alla società per azioni, con la conseguenza che, in mancanza di ogni richiamo, la norma in questione non trova applicazione al tipo sociale regolamentato dagli artt. 2462 ss. (Rordorf, 425). Un effetto analogo può, comunque, essere ottenuto applicando l'art. 2468, comma 3, c.c. il quale fa salva la possibilità che l'atto costitutivo preveda l'attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l'amministrazione della società (Cossu, 2008, 630), compresa, evidentemente, la possibilità (peraltro espressamente prevista per le società a responsabilità limitata in house dall’art. 16 del TU) di attribuire, in sede statutaria, all’ente pubblico socio il potere di procedere, in via diretta, alla nomina o alla revoca di uno o più amministratori o sindaci. La natura meramente pattizia di tale clausola, però, esclude che la stessa sia assoggettata ai limiti previsti dall’art. 2449 c.c., come la necessaria attribuzione sia del potere di nomina che di quello di revoca e il criterio di proporzionalità nonché la natura esclusiva dei relativi poteri, potendosi, in particolare, ammettere che l’assemblea possa, ad esempio, procedere alla revoca per giusta causa dell’amministratore che il socio pubblico ha nominato e che omette di revocare. L’attribuzione statuaria del potere di revoca, peraltro, avrebbe l’effetto di evitare al socio pubblico, per ottenere la revoca, di dover agire in giudizio per ottenere, a norma dell’art. 2476, comma 3, c.c., la revoca cautelare dell’amministratore dimostrando la sussistenza di gravi irregolarità di gestione a lui imputabili. L'art. 2542, ult. comma, c.c., sebbene non richiamato dall'art. 9 del d.lgs. n. 175, continua a trovare applicazione nelle società cooperative di cui lo Stato o un ente pubblico siano soci, con la conseguenza che lo statuto può attribuire ad essi la nomina diretta di uno o più amministratori o sindaci, ferma restando la riserva all'assemblea della nomina della maggioranza degli amministratori. Per i profili non regolati, trovano applicazione analogica, nei limiti della compatibilità, l'art. 2449 c.c. e l'art. 9, commi 7 e 8, d.lgs. n. 175, con la conseguenza che gli amministratori e i sindaci della società cooperativa pubblica hanno degli stessi diritti e gli stessi obblighi di quelli nominati dall'assemblea e che lo Stato o l'ente pubblico che li ha designati può anche revocarli. L'art. 2449 c.c. prevede che, nelle società che fanno ricorso al capitale di rischio, si applicano le disposizioni del sesto comma dell'art. 2346 c.c., il quale prevede che la società può emettere strumenti finanziari partecipativi, e che il consiglio di amministrazione può proporre all'assemblea, che delibera con le maggioranze previste per l'assemblea ordinaria, che i diritti amministrativi previsti dallo statuto a favore dello Stato o degli enti pubblici siano rappresentati da una particolare categoria di azioni. La prima parte della norma si spiega in ragione della disciplina transitoria introdotta dall'art. 13 della l. n. 34/2008, la quale prevede, in particolare, che il consiglio di amministrazione, nelle società che ricorrono al mercato del capitale di rischio nelle quali sia prevista la nomina di amministratori ai sensi dell'art. 2449 c.c., ha l'onere di adeguare lo statuto, entro otto mesi dall'entrata in vigore della norma, prevedendo che i diritti amministrativi siano rappresentati da strumenti finanziari non trasferibili e condizionati alla persistenza della partecipazione dello Stato o dell'ente pubblico, a norma dell'art. 2346, comma 6, c.c.: scaduto tale termine, le disposizioni statutarie non conformi alle disposizioni dell'art. 2449 c.c., nella nuova formulazione introdotta dalla predetta legge, perdono efficacia, con la conseguenza, in definitiva, che, all'esito, i diritti di nomina consentiti dall'art. 2449 c.c. sono incorporati in strumenti finanziari, ai sensi dell'art. 2346, comma 6, c.c., salvo, appunto, che gli stessi non siano rappresentati da un particolare categoria di azioni. Nel primo caso, quando, cioè, i diritti di nomina sono rappresentati da strumenti finanziari non trasferibili, non è chiaro se il rinvio all'art. 2346, comma 6, c.c. comporti l'applicazione dell'intera disciplina relativa agli strumenti finanziari partecipativi: escluso, in ogni caso, che ciò possa comportare l'onere dello Stato o dell'ente pubblico di corrispondere un apporto, la risposta positiva a tale interrogativo imporrebbe l'applicazione dell'art. 2351, ult. comma, c.c. e, quindi, la riserva del potere di nomina di un solo amministratore indipendente, pur se ciò non dovesse corrispondere al criterio di proporzionalità con la partecipazione posseduta, che, in effetti, la norma in questione non richiama espressamente. Nel secondo caso, quando, cioè, i diritti nomina diretta siano rappresentati da una particolare categoria di azioni, la norma, per un verso, richiede il consenso dello Stato o dell'ente pubblico a favore del quale quei diritti sono previsti e, per altro verso, che la relativa delibera sia adottata dall'assemblea (evidentemente straordinaria), su proposta del consiglio di amministrazione, con le maggioranze (sia ai fini costitutivi, che deliberativi) previste per l'assemblea ordinaria. Anche in questa ipotesi, il criterio di proporzionalità non è richiamato ed è, quindi, possibile che le azioni attribuite non siano proporzionali alla partecipazione azionaria del socio pubblico. Nell'uno e nell'altro caso, i diritti di nomina e revoca sono esercitati nell'assemblea speciale degli azionisti appartenenti alla categoria in questione e dei titolari degli strumenti finanziari partecipativi (art. 2376 c.c.). L'applicazione dell'art. 2449 c.c. ai sistemi alternativi di amministrazione e controllo.L'art. 2449 c.c., pur non contenendo alcun espresso riferimento al sistema gestorio c.d. “monistico”, trova applicazione anche nel caso in cui la società adotti tale modello organizzativo. Lo statuto, quindi, può prevedere che sia riservata allo Stato o all'ente pubblico, oltre alla nomina di uno o più amministratori, anche la nomina diretta di uno o più componenti del comitato per il controllo sulla gestione; in tal senso, del resto, depone l'art. 223-septies, comma 1, disp. att. c.c., in virtù del quale le norme del codice civile che fanno riferimento agli amministratori ed ai sindaci trovano applicazione, in quanto compatibili, anche ai componenti del consiglio di amministrazione e ai componenti del comitato in questione per le società che abbiano adottato il sistema monista (Petrazzini, 1696; Ghezzi, 259, 260, dove rileva che la nomina, e la revoca, dei componenti del comitato per il controllo sulla gestione spetta, a norma dell'art. 2409-octiesdecies c.c., al consiglio di amministrazione e non all'assemblea, ritenendo, dunque, che «i componenti indicati dai soggetti pubblici... siano da considerarsi membri di diritto del predetto comitato, ma che tale nomina debba essere formalmente deliberata dal consiglio di amministrazione», a meno che lo statuto non abbia scelto per la nomina la competenza dell'assemblea, escludendo, in tal caso, la ratifica della nomina compiuta dall'ente pubblico). Quanto al sistema dualistico, l'art. 2449 c.c. prevede espressamente che lo statuto della società possa attribuire allo Stato o all'ente pubblico socio la facoltà di nominare «componenti del consiglio di sorveglianza» (ma non il presidente del consiglio di sorveglianza: Breida, 1165, 1166). Non è, invece, chiaro se la norma trovi applicazione anche per il consiglio di gestione. In senso positivo può, tuttavia, invocarsi l'art. 2409-novies, comma 3, c.c., il quale prevede che la nomina (e la revoca) dei componenti del consiglio di gestione spetta al consiglio di sorveglianza, salvo quanto disposto, tra gli altri, dall'art. 2449 c.c. Del resto, a norma dell'art. 2380, comma 3, c.c. (e dell'art. 223-septies, comma 1, disp. att. c.c.), le disposizioni che si riferiscono agli amministratori trovano applicazione, salvo che non sia diversamente stabilito, anche ai componenti del consiglio di gestione (per la soluzione positiva, v. Petrazzini, 1696; Ghezzi, 62; in senso contrario, Breida, 1127). La nomina e la revoca dirette: natura giuridica e giurisdizione.La natura giuridica della nomina e della revoca diretta, da parte dell'ente pubblico socio, degli amministratori e dei sindaci della società, è da tempo discussa. Tre sono state le ricostruzioni prospettate in dottrina e giurisprudenza: la teoria pubblicistica, la teoria del doppio rapporto e la teoria privatistica. Secondo la prima ricostruzione (sostenuta, tra gli altri, da Roversi Monaco, I, 258 ss.; più di recente, Ambrosini, 880, 881), l'ente pubblico socio che provvede alla nomina o alla revoca diretta degli amministratori e dei sindaci esercita una funzione pubblicistica e, quindi, pone in essere un vero e proprio provvedimento amministrativo. L'atto di nomina è «un vero e proprio provvedimento amministrativo» sicché il potere di revocare l'amministratore è il «potere di revocare, in senso tecnico, un provvedimento amministrativo» (Roversi Monaco, 264). L'amministratore, in tale ricostruzione, ha l'obbligo giuridico di dare esecuzione alle direttive dell'ente nominante, obbligo che «trova la naturale sanzione nel potere di revoca» (Roversi Monaco, 265). Gli atti di nomina e di revoca, quindi, in quanto provvedimenti amministrativi, sono sindacabili, per vizi di legittimità, solo innanzi al giudice amministrativo ma non anche innanzi al giudice ordinario, per mancanza di giusta causa ai sensi dell'art. 2383, comma 3, c.c. (Cirenei, 50). A tale ricostruzione ha mostrato di aderire la Corte di cassazione con la sentenza del 15 luglio 1982, n. 4139, ritenendo che la nomina, al pari della revoca, dev'essere configurata come un «atto amministrativo», e ciò «a causa della provenienza da un ente pubblico, nell'esercizio di un suo potere previsto e regolato per il perseguimento dei fini pubblici attribuitigli», con la conseguenza che, essendo la revoca un «atto amministrativo discrezionale», non può trovare applicazione l'art. 2383 c.c., «in quanto ... la revoca disposta con atto amministrativo trova fondamento in interessi pubblicistici che superano quelli della società e che sono insindacabili dal giudice ordinario», sicché «la valutazione della giusta causa da parte del medesimo costituirebbe sindacato di un'attività discrezionale della pubblica amministrazione». L'amministratore revocato può impugnare l'atto di revoca innanzi al giudice amministrativo, per conseguire il sindacato di legittimità, mentre non può impugnarlo, in via principale e diretta, innanzi al giudice ordinario, per stimolare la verifica della giusta causa, né a siffatta conclusione osta la norma di parificazione tra amministratori di nomina pubblica e amministratori di nomina assembleare, «in quanto tale disposizione vale per i rispettivi diritti e obblighi verso la società, ma non incide sui menzionati poteri dell'ente (per i quali non è richiesta l'esistenza della giusta causa)». In tale ricostruzione, peraltro, il giudice ordinario può solo disapplicare l'atto, se illegittimo, ma non può interferire con i relativi effetti giuridici, specie se si considera che, a seguito della nomina, gli amministratori ed i sindaci possono essere revocati solo dall'ente pubblico socio che li ha nominati, il quale ha anche il potere di nominarne i sostituti. Ciò comporta che il giudice ordinario non può, ai sensi dell'art. 2409 c.c., procedere alla revoca degli amministratori e dei sindaci nominati dall'ente pubblico né sostituirli con l'amministratore giudiziario (Tedeschi, 298), né, per le stesse ragioni, la revoca dei sindaci dev'essere approvata dal tribunale, ai sensi dell'art. 2400, comma 2, c.c. (Cavalli, 56) La teoria pubblicistica (smentita dalle norme sopravvenute con la riforma (che, come visto, con riguardo alla revoca dei sindaci, richiedono espressamente l’approvazione del tribunale ai sensi dell’art. 2400 c.c. e la sussistenza della giusta causa) non tiene, tuttavia, conto della norma (contenuta dapprima nell'art. 2458, comma 3, c.c., nel testo in vigore della prima della riforma del diritto societario, e poi nell'art. 2449, comma 2, c.c., nel testo attualmente in vigore) per la quale gli amministratori ed i sindaci nominati in via extra assembleare dall'ente pubblico, hanno gli stessi diritti e gli stessi obblighi di quelli nominati dall'assemblea: ivi compreso, pertanto, quello di non dare esecuzione alle direttive dei soci ove importino l'inadempimento da parte degli amministratori ai doveri che hanno nei confronti della società e dei suoi creditori (artt. 2392, 2394 e 2403, 2407 c.c.) e (fermo restando il potere di revoca diretta in capo al socio pubblico) il diritto di non essere revocati dal chi li ha nominati se non in presenza di una giusta causa (artt. 2383 e 2400 c.c.). La teoria del doppio rapporto (sostenuta, tra gli altri, da Verucci, 35, 40; Franzoni, 29) ha tentato, quindi, una diversa ricostruzione, nel senso che l’amministratore ed il sindaco designato ai sensi dell’art. 2449 c.c. è, in realtà, parte di due distinti rapporti giuridici: uno pubblicistico, che potrebbe definirsi di servizio, con l’ente che lo ha nominato, e che impone all’amministratore di osservarne, a pena di revoca diretta, le direttive volte al conseguimento delle finalità istituzionali dell’ente designante, e l’altro privatistico, di carattere contrattuale, con la società, nel quale, appunto, l’amministratore, al pari del sindaco, assume i diritti ed i doveri che gravano normalmente sugli amministratori ed i sindaci di nomina assembleare (come il diritto a non essere revocati se non per giusta causa e il dovere di amministrare o controllare la società con la dovuta diligenza pena, in difetto, l’obbligo di risarcire alla società i danni arrecati al suo patrimonio). In tale ricostruzione, gli atti relativi al rapporto pubblicistico con l’ente pubblico, a partire da quelli di nomina e di revoca, in quanto provvedimenti amministrativi, sono sindacabili per vizi di legittimità (come la mancanza di motivazione) solo dal giudice amministrativo. Al contrario, gli atti inerenti al rapporto contrattuale con la società, avendo natura negoziale, sono deducibili innanzi al giudice ordinario. Si pensi, in particolare, all'inadempimento da parte dell'amministratore o del sindaco designati a norma dell'art. 2449 c.c. ai doveri inerenti alla carica verso la società, i quali possono fondare azioni ordinarie, innanzi al giudice ordinario, per il risarcimento dei danni cagionati alla società e/o al socio (artt. 2392 ss. c.c.) o per la revoca degli amministratori e dei sindaci (art. 2409 c.c.). Tale ricostruzione prospetta la coesistenza di due rapporti giuridici, uno pubblicistico tra l'amministratore e l'ente e l'altro privatistico tra l'amministratore e la società (in tal senso, di recente, App. Milano 5 aprile 2016, in Soc., 2016, 1252, in motiv., per la quale «in ragione dell'atto di nomina o revoca diretta dell'amministratore di società di capitali da parte del socio pubblico, nei confronti dell'amministratore di società si instaura un duplice rapporto: da un lato, con l'ente nominante o revocante, regolato secondo le regole pubblicistiche che tutelano il soggetto rispetto all'interesse legittimo di vedersi notificare un atto amministrativo connotato dei necessari requisiti di legittimità formale e sostanziale sotto il profilo amministrativo; dall'altro con la società, diverso e autonomo dal primo, retto dalle norme di diritto comune societario che regolano i diritti e doveri degli componenti degli organi sociali nei confronti della società ...»), senza, tuttavia, fornire una soluzione adeguata per i casi, tutt'altro che rari, in cui i doveri giuridici conseguenti a tali rapporti possono confliggere, come nel caso in cui il dovere dell'amministratore di dare esecuzione alle direttive dell'ente che l'ha nominato contrasti con il dovere di non danneggiare il patrimonio della società, con la conseguenza che, inadempiendo al primo dovere, l'amministratore rischia di essere revocato in via diretta dall'ente, mentre, inadempiendo al secondo, rischia di essere revocato dal giudice a norma dell'art. 2409 c.c. E non solo: la coesistenza dei due rapporti comporta inevitabilmente la possibilità di un'interferenza tra le relative discipline, come, in particolare, nel caso in cui l'ente provveda, in via autoritativa, alla revoca dell'amministratore designato: a parte la tutela riveniente dal potere di chiedere al giudice amministrativo l'annullamento dell'atto, ove illegittimo, deve escludersi, in tale prospettiva, che l'amministratore revocato senza giusta causa possa agire innanzi al giudice ordinario per i danni, a norma dell'art. 2383 c.c. trattandosi, appunto, di vicenda relativa al rapporto pubblicistico con l'ente e non a quello privatistico con la società nell’ambito del quale, invece, avrebbe diritto, al pari degli amministratori, al risarcimento dei danni.. La teoria privatistica, infine, ritiene che la nomina dell'amministratore (e del sindaco) da parte dell'ente pubblico determina solo la costituzione, in luogo della ordinaria delibera assembleare, di un rapporto giuridico privatistico, di natura (anche se non di fonte) contrattuale, tra l'amministratore designato (e del sindaco designato) e la società, così come la revoca ne determina la risoluzione. L'ente, però, nell'uno e nell'altro caso, non opera quale autorità amministrativa, a mezzo di provvedimenti amministrativi, ma quale organo della società (Minervini, 712) che, in sostituzione dell'assemblea, costituisce o risolve, con atti meramente privatistici (Rordorf, 427), il rapporto giuridico tra amministratore e sindaco designati e la società, che è, e resta, solo ed esclusivamente di natura contrattuale e regolato dalle norme ordinarie, come, in effetti, dimostrato dalle norme (artt. 2449 e 2351 c.c.) che, come visto, stabiliscono che tale l'amministratore e il sindaco designato dall’ente pubblico ha i diritti e gli obblighi di tutti gli altri amministratori e di tutti gli altri sindaci. In tale ricostruzione, l'unico rapporto giuridico che viene in rilievo, almeno nei confronti della società e dei suoi soci, è quello privatistico che intercorre tra l'amministratore (o il sindaco) così designato e la società, per cui, da un lato, le direttive che l'ente nominante dovesse impartire agli amministratori che ha designato, se del caso a norma degli artt. 2497 ss. c.c., non sono vincolanti, al pari delle direttive che, nelle società private, il socio o i soci di maggioranza dovessero impartire agli amministratori che hanno designato con delibera assembleare o nell'atto costitutivo (Bonelli, 14; Cossu, 2013, 270 ss, ritenendo che «l'interesse pubblico è ... ad ogni effetto un interesse extrasociale (salvo che una legge speciale non lo qualifichi diversamente)»; Cass. n. 23381/2013, con riguardo all'«inesistenza della soggezione degli amministratori alle direttive del Comune quale socio di maggioranza») mentre, dall'altro lato, tutte le vicende e gli atti inerenti al rapporto, l'unico che rileva, di natura privatista tra amministratore e società, sono deducibili, non diversamente da quelle che riguardano gli altri amministratori, innanzi al giudice ordinario: non solo nel senso che gli atti inerenti al rapporto con la società, in quanto meri atti o comportamenti di diritto privato, sono deducibili innanzi al giudice ordinario, come nel caso dell'inadempimento da parte dell'amministratore o del sindaco ai doveri inerenti alla carica verso la società (che può fondare azioni ordinarie, innanzi al giudice ordinario, per il risarcimento dei danni cagionati alla società e/o al socio ovvero per la revoca giudiziale degli amministratori e dei sindaci), ma anche nel senso che gli atti di nomina e di revoca dell'ente pubblico, quali meri atti privatistici, non sono impugnabili davanti al giudice amministrativo, neppure per l'invalidità degli atti deliberativi prodromici, la cui rilevanza non eccede la sfera interna della pubblica amministrazione (Mazzarelli, 135), ma sono sindacabili dal giudice ordinario secondo le regole ordinarie, con la conseguenza, ad esempio, che la revoca dell'amministratore da parte dell'ente pubblico, se priva di giusta causa, consente all'amministratore di agire per i danni a norma dell'art. 2383 c.c. come se fosse stata assunta dall'assemblea (Scognamiglio, 569, per la quale la revoca, al pari della nomina, non è un provvedimento amministrativo bensì un negozio, e non è soggetta, quindi, alla giurisdizione del giudice amministrativo, ma alla giurisdizione del giudice ordinario, al quale, peraltro, spetta unicamente la valutazione circa la sussistenza della giusta causa, ai fini del risarcimento dei danno ai sensi dell'art. 2383 c.c.; Oppo, 158; così anche Nazzicone, 80 e 94) mentre la revoca del sindaco è priva di effetti (art. 2400, comma 2, c.c.). In altri termini, la norma dell'art. 2449, comma 2, c.c. si limita a consentire all'ente pubblico di provvedere alla nomina diretta, e cioè extra assembleare, dell'amministratore: il rapporto che ne deriva tra amministratore e società, però, una volta costituito, resta assoggettato alle norme ordinarie, fatta salva soltanto la possibilità di una sua revoca altrettanto diretta. Ne consegue, da un lato, che la revoca diretta da parte dell'ente pubblico è assoggettata, quanto ai presupposti e alle conseguenze, alle stesse norme che troverebbero applicazione se fosse stata decisa dall'assemblea, come il diritto ai danni in caso di mancanza di giusta causa, e, per altro verso, che gli amministratori e i sindaci sono suscettibili di revoca giudiziale negli stessi casi in cui è consentita nei confronti degli amministratori e sindaci di nomina assembleare (art. 2409 c.c.). La teoria privatista è stata condivisa innanzitutto dalla giurisprudenza amministrativa. Il Consiglio di Stato, in particolare, con la sentenza del 13 giugno 2003, n. 3346, a fronte dell'impugnazione dell'atto di revoca e sostituzione degli amministratori di nomina municipale in una società mista a capitale pubblico maggioritario, ha declinato la giurisdizione del giudice amministrativo in favore della giurisdizione del giudice ordinario. Individuata la fonte del potere di designazione del socio pubblico, anziché nella legge soltanto, nel «combinato disposto dell'art. 2458 c.c. e della coerente previsione statutaria», il Consiglio di Stato, mostrando di aderire esattamente alle concezioni privatistiche dell'ente pubblico come organo di nomina della società, ha affermato che «la facoltà in oggetto deve intendersi attribuita agli enti pubblici nella loro qualità di soci, risolvendosi nell'esercizio diretto di un potere altrimenti riservato all'assemblea (pure formata dai soci), e non nella loro veste di pubbliche amministrazioni, il cui solo carattere soggettivo di organismi preposti alla cura dell'interesse pubblico resta del tutto irrilevante ai fini della configurazione normativa delle modalità di esercizio dei diritti del socio (quando questo sia anche un ente pubblico)». La definizione civilistica degli atti di nomina e revoca, posti in essere dal socio pubblico, viene fondata essenzialmente sulla matrice della corrispondente potestà, la quale «non risulta costituita in capo agli enti pubblici direttamente dall'art. 2458 c.c. (che contempla la sola possibilità che tale potestà venga attribuita a quel tipo di soci in sede statutaria), ma dalla conforme (e libera) determinazione costitutiva della società», in modo tale che «la genesi pattizia e convenzionale del potere nella specie esercitato impone, in definitiva, di negare qualsiasi suo carattere pubblicistico ed impedisce, al contempo, di ravvisare nella relativa determinazione gli estremi della cura dell'interesse generale, che esigono la diretta finalizzazione del provvedimento al perseguimento di un bisogno pubblico». La controversia, dunque, non riguarda la legittimità di un atto amministrativo, che si prospetti lesivo di un interesse legittimo del destinatario, ma attiene – in linea con la teoria dell'organo di nomina – «al corretto esercizio di una facoltà del socio di una società di capitali e, quindi, alla validità di una determinazione per molti versi assimilabile, nel suo contenuto dispositivo, alla delibera dell'assemblea dei soci e, quindi, ad un atto tipicamente societario». La posizione dell'amministratore revocato, sebbene non equiparata al diritto soggettivo, come negli atti paritetici, è ricondotta, comunque, nella sfera di cognizione del giudice ordinario, attraverso il richiamo alla categoria degli interessi legittimi di diritto privato. Invero, «a fronte della riscontrata natura privata del potere nella specie esercitato, la posizione di soggezione del soggetto che subisce gli effetti dell'esercizio di quella potestà (in qualche modo assimilabile a quella dell'interesse legittimo), pur non essendo qualificabile come diritto soggettivo, non vale ad escludere, di per sé, la sussistenza della giurisdizione ordinaria, non potendosi dubitare di quest'ultima in tutte le ipotesi (quali, ad esempio, quella del lavoratore soggetto al potere disciplinare del datore di lavoro o quella del socio nei riguardi delle delibere assembleari) in cui il rapporto controverso si caratterizza per l'esistenza di una potestà privata in capo ad una parte e per la relativa posizione passiva dell'altra (che si risolve, sul piano della tutela, nella possibilità di denunciare lo scorretto esercizio di quel potere, in analogia solo schematica con il giudizio amministrativo impugnatorio)». Sono fatte salve, naturalmente, le ipotesi in cui ricorra una speciale deroga legislativa, come nel caso delle c.d. società legali o società di diritto singolare, come evidenziato dal Consiglio di Stato con la sentenza Cons. St. n. 122/2013. Anche le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con sentenza del Cass. S.U., n. 7799/2005, hanno aderito a tale ricostruzione, rilevando come «rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia che ha ad oggetto la domanda di annullamento di provvedimenti comunali di non approvazione del bilancio e conseguente revoca degli amministratori di società per azioni di cui il Comune sia socio unico, costituendo gli atti impugnati espressione non di potestà amministrativa, ma dei poteri conferiti al Comune dagli artt. 2383,2458 e 2459 c.c., nella specie, trasfusi nello statuto della società per azioni, cosicché la posizione soggettiva degli amministratori revocati – che non svolgono né esercitano un pubblico servizio – è configurabile in termini di diritto soggettivo ed è, quindi, tutelabile dinanzi al giudice ordinario». La Suprema Corte, in particolare, ha ritenuto che «la facoltà attribuita all'ente pubblico ... è ... sostitutiva della generale competenza dell'assemblea ordinaria, trovando la sua giustificazione nella peculiarità di quella tipologia di soci, e deve essere qualificata estrinsecazione non di un potere pubblico, ma essenzialmente di una potestà di diritto privato, in quanto espressiva di una potestà attinente ad una situazione giuridica societaria, restando esclusa qualsiasi sua valenza amministrativa». Nel medesimo senso si è espressa l' ordinanza delle Sezioni Unite del 31 gennaio 2015, n. 1237, per la quale, in tema di società per azioni partecipata da ente locale, la revoca dell'amministratore di nomina pubblica, ai sensi dell'art. 2449 c.c., può essere da lui impugnata presso il giudice ordinario, non presso il giudice amministrativo, trattandosi di atto uti socius, non jure imperii, compiuto dall'ente pubblico “a valle” della scelta di fondo per l'impiego del modello societario, ogni dubbio essendo risolto a favore della giurisdizione ordinaria dalla clausola ermeneutica generale in senso privatistico di cui all'art. 4, comma 13, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 135, sicché l'amministratore revocato dall'ente pubblico, come l'amministratore revocato dall'assemblea dei soci, può chiedere al giudice ordinario solo la tutela risarcitoria per difetto di giusta causa, a norma dell'art. 2383 c.c., non anche la tutela “reale” per reintegrazione nella carica, in quanto l'art. 2449 c.c. assicura parità di status tra amministratori di nomina assembleare e amministratori di nomina pubblica. Tali principî sono stati deliberatamente estesi alla controversia riguardante l'impugnazione della deliberazione della giunta comunale recante la nomina del rappresentante del comune nel consiglio di amministrazione di una società per azioni interamente partecipata da enti locali (Cass. S.U., n. 19676/2016; conf. Cass. S.U., n. 21299/2017), alla revoca diretta di un sindaco (Trib. Napoli 7 agosto 2015, Giur.comm. 2016, II, 639 ss., che ha, quindi, ritenuto applicabile l'art. 2400, comma 2, c..), nonché alle azioni concernenti la nomina o la revoca, ai sensi dell'art. 2449 c.c., di amministratori e sindaci di una società costituita secondo il modello dell'in house providing (Cass. S.U., n. 24591/2016). E non solo. Le Sezioni Unite hanno affermato non soltanto che spettano alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «le controversie aventi ad oggetto l'attività unilaterale “prodromica” alla vicenda societaria, considerata dal legislatore di natura pubblicistica, con cui un ente pubblico delibera di costituire una società (provvedendo anche alla scelta del socio), o di parteciparvi, o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della società medesima, o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita della stessa società» e che, invece, «sono attribuite alla giurisdizione del Giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto gli atti societari “a valle” della scelta di fondo di utilizzazione del modello societario, le quali restano interamente soggette alle regole del diritto commerciale proprie del modello recepito, dal contratto di costituzione della società alla successiva attività della compagine societaria partecipata con cui l'ente esercita, dal punto di vista soggettivo e oggettivo, le facoltà proprie del socio (azionista), fino al suo scioglimento», ma pure che «nell'ambito di quest'ultima categoria, rientrano le controversie volte ad accertare l'intero spettro delle patologie e inefficacie negoziali, siano esse inerenti alla struttura del contratto sociale, ovvero estranee e/o alla stessa sopravvenute e derivanti da irregolarità-illegittimità del procedimento amministrativo “a monte”, perciò comprendenti le fattispecie sia di radicale mancanza del procedimento di evidenza pubblica (o di vizi che ne inficino singoli atti), sia di successiva mancanza legale provocata dall'annullamento del provvedimento di aggiudicazione, ivi compresi i profili di illegittimità degli atti consequenziali compiuti dalla società già istituita, i quali costituiscono espressione non di potestà amministrativa, bensì del sistema della invalidità-inefficacia del contratto sociale che postula una verifica, da parte del giudice ordinario, di conformità alla normativa positiva delle regole in base alle quali l'atto negoziale è sorto ovvero è destinato a produrre i suoi effetti tipici» (Cass. S.U ., n. 1237/ 2015). In precedenza, in effetti, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 30167/2011, avevano ritenuto che «I) spettano alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto l'interesse legittimo delle parti ai corretto svolgimento della fase procedimentale relativa al perfezionamento di un atto negoziale ad evidenza pubblica (già devolute dalla normativa antecedente all'art. 33 d.lgs. 80/1998 alla giurisdizione di legittimità), nonché í provvedimenti di natura autoritativa, preliminari e funzionali rispetto alle successive deliberazioni societarie, con cui gli enti locali esprimono la funzione di indirizzo e di governo rispetto agli organismi preposti alla produzione, gestione ed erogazione dei servizi pubblici di loro pertinenza...: e quindi in concreto l'attività unilaterale prodromica ad una vicenda societaria, considerata dal legislatore di natura pubblicistica, con cui un ente pubblico delibera di costituire una società, o di parteciparvi, o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della società medesima; II) vi rientrano altresì specifici atti e provvedimenti di natura pubblicistica con cui il legislatore consente all'ente pubblico di interferire con la vita della società: ...; III) per converso tutti i successivi atti societari a valle della scelta di fondo di utilizzo del modello societario – dal contratto di costituzione della società, alla successiva attività della compagine societaria partecipata con cui l'ente esercita dai punto di vista sia soggettivo che oggettivo le facoltà proprie del socio (azionista), fino al suo scioglimento – restano interamente soggetti alle regole del diritto commerciale proprie del modello recepito; con conseguente loro attribuzione alla giurisdizione ordinaria; IV) nell'ambito di quest'ultima categoria rientrano le controversie rivolte ad accertare l'intero spettro delle patologie ed inefficacie negoziali, siano esse inerenti alla struttura del contratto sociale, siano esse estranee ... e/o alla stessa sopravvenute e derivanti da irregolarità-illegittimità della procedura amministrativa a monte: perciò comprendenti sia le fattispecie di radicale mancanza del procedimento di evidenza pubblica (o di vizi che ne affliggono singoli atti), sia quella di successiva mancanza legale provocata dall'annullamento del provvedimento di aggiudicazione .... E vi rientrano a fortiori i profili di illegittimità degli atti consequenziali compiuti dalla società già istituita, costituendo gli stessi espressione non di potestà amministrativa, bensì del sistema delle invalidità-inefficacia del contratto sociale e delle relative conseguenze, che postula una verifica, da parte del giudice, di conformità alla normativa positiva delle regole in base alle quali l'atto negoziale è sorto ovvero è destinato a produrre i suoi effetti tipici». Si tratta di conclusioni che il d.lgs. n. 175 ha pienamente confermato. Ed infatti, l'art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 175, ha, per un verso, stabilito che, per tutto quanto non derogato dalle disposizioni contenute nello stesso decreto, «si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali del diritto privato» (come, del resto, confermato dall'art. 9, comma 7, il quale, infatti, nel richiamare l'art. 2449 c.c., fa espressamente salva, quanto alla revoca diretta dei sindaci, «l'applicazione dell'art. 2400, secondo comma, del codice civile», vale a dire la necessità, al pari della revoca di un sindaco di nomina assembleare, di una giusta causa e dell'approvazione del tribunale): con la conseguenza che, in mancanza di norme che depongano in senso diverso, la revoca diretta degli amministratori richiede la sussistenza di una giusta causa (art. 2383, comma 3, c.c.) e che, in difetto, l'amministratore revocato può agire, innanzi al giudice ordinario, per ottenere la condanna della società a risarcimento dei relativi danni; e, dall'altro verso, ha disposto, all'art. 9, comma 8 (che, in parte qua, deroga il principio stabilito dallo stesso art. 9, comma 6), che, nel caso di cui lo statuto della società partecipata preveda, ai sensi dell'art. 2449 c.c., la facoltà del socio pubblico di nominare o revocare direttamente uno o più amministratori e sindaci, la mancanza o l'invalidità dell'atto deliberativo dell'ente pubblico di nomina o di revoca è causa di invalidità dell'atto di nomina o di revoca anche nei confronti della società (con la conseguente applicazione delle norme che, in generale, regolano l'invalidità degli atti di nomina e di revoca degli amministratori e dei sindaci e gli adempimenti pubblicitari inerenti alla conseguente assunzione e cessazione dei relativi incarichi, specie ai fini della opponibilità ai terzi: cfr. gli artt. 2383, ult. comma, 2385, ult. comma, e 2400, comma 3, c.c.), in tal modo ribadendo la forza del principio, affermato dalle Sezioni Unite, della rilevanza, ai fini della validità della delibera societaria, del mancato rispetto delle regole pubblicistiche che disciplinano il procedimento deliberativo dell'ente pubblico titolare della partecipazione, pur devolvendone la cognizione al giudice ordinario. Ed infatti, come detto, le Sezioni Unite, nell'ordinanza n. 1237/2015, hanno distinto le controversie relative all'attività unilaterale prodromica alla vicenda societaria espletata dall'ente pubblico, considerata di natura pubblicistica ed appartenenti alla giurisdizione del giudice amministrativo [«l'attività unilaterale “prodromica” alla vicenda societaria, considerata dal legislatore di natura pubblicistica, con cui un ente pubblico delibera di costituire una società (provvedendo anche alla scelta del socio), o di parteciparvi, o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della società medesima, o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita della stessa società», dalle controversie relative agli atti societari “a valle” (come quelli, aventi natura privatistica, con i quali l'ente pubblico, nell'esercizio di una facoltà concernente la qualità di socio, provvede alla nomina e alla revoca diretta di amministratori e sindaci), le quali, invece, restano interamente regolate dalle norme relative al tipo societario prescelto, comprendendovi «le controversie volte ad accertare l'intero spettro delle patologie e inefficacie negoziali, siano esse inerenti alla struttura del contratto sociale, ovvero estranee e/o alla stessa sopravvenute e derivanti da irregolarità-illegittimità del procedimento amministrativo “a monte”» (prima del d.lgs. n. 175, per l'affermazione dell'irrilevanza del rispetto delle regole pubblicistiche che disciplinano l'attività dell'ente ai fini della validità delle delibere della società, v., tuttavia, Martucci, 1057-1060, dove ha concluso nel senso, all'epoca, dell'irrilevanza della vicenda pubblicistica prodromica alla nomina, «non potendo ... l'eventuale vizio che inficiasse la prima essere fatto valere in funzione dell'invalidità della seconda...»). La struttura degli organi amministrativi e di controlloLa novità principale della disciplina posta, in tema di amministrazione delle società pubbliche, dal d.lgs. n. 175, è costituita – in linea con il trend legislativo degli ultimi anni (cfr., in particolare, l'art. 1, comma 465, della l. n. 296/2006, l'art. 4, commi 4 e 5, del d.l. 95/2012 e l'art. 16 del d.l n. 90/2014) – dalla espressa previsione, contenuta nell'art. 11, comma 2, secondo la quale l'organo amministrativo delle (sole) società a controllo pubblico, così come definite dall'art. 2, lett. m), è formato, di norma, da un amministratore unico. La norma ha invertito il criterio precedentemente in vigore previsto, da ultimo, nell'art. 4, commi 4 e 5, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, conv., con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 35, in cui l'opzione per l'amministratore unico era consentita, ma residuale. L'art. 11, comma 3, nella sua originaria formulazione, prevedeva che, in deroga al principio della struttura monocratica dell'organo amministrativo, un apposito decreto del Presidente del Consiglio, da emanarsi entro sei mesi dall'entrata in vigore del decreto legislativo (e, quindi, entro il 23 marzo 2017), avrebbe dovuto enucleare i criteri secondo i quali «per specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa», sarebbe stato possibile optare per un consiglio di amministrazione – composto da un minimo di tre a un massimo di cinque membri – ovvero per i sistemi dualistico o monistico. L'art. 7 del d.lgs. n. 100 ha integralmente sostituito il comma 3 dell'art. 11, il quale, nella sua attuale versione, stabilisce che «l'assemblea della società a controllo pubblico, con delibera motivata con riguardo a specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa e tenendo conto delle esigenze di contenimento dei costi, può disporre che la società sia amministrata da un consiglio di amministrazione composto da tre o cinque membri, ovvero che sia adottato uno dei sistemi alternativi di amministrazione e controllo previsti dai paragrafi 5 e 6 della sezione VI-bis del capo V del titolo V del libro V del codice civile. La delibera è trasmessa alla sezione della Corte dei Conti competente ai sensi dell'articolo 5, comma 4, e alla struttura di cui all'articolo 15». L'assemblea dei soci della società a controllo pubblico può, quindi, disporre – con delibere che, in deroga rispetto alle norme generali sulla formazione della volontà assembleare, devono essere «motivate» con riguardo a specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa e tenendo conto delle esigenze di contenimento dei costi, e trasmesse alla sezione della Corte dei conti competente ai sensi dell'art. 5, comma 4, nonché alla struttura, prevista dall'art. 15, per il monitoraggio e l'attuazione del decreto legislativo in esame – che la società sia amministrata da un consiglio di amministrazione, composto da tre o cinque membri, ovvero che sia adottato uno dei sistemi alternativi di amministrazione e controllo previsti dai paragrafi 5 e 6 della sezione VI-bis del capo V del titolo V del libro V del codice civile, vale a dire il sistema monistico ovvero quello dualistico, con riferimento ai quali, peraltro, non opera il limite del numero massimo dei componenti. Nel quadro attuale, dunque, la scelta per un sistema di amministrazione a struttura collegiale (ovvero per i modelli di amministrazione e controllo dualistico o monistico), è interamente rimessa all'assemblea dei soci, i quali, però, devono giustificare l'opzione svolta, non solo per ragioni di adeguatezza organizzativa, connesse alle esigenze connesse alle dimensioni della società ovvero alla natura della sua attività, ma anche «tenendo conto delle esigenze di contenimento dei costi», nel senso, cioè, che la scelta compiuta comunque non deve comportare un irragionevole aggravio di spese a carico della società. Non è chiaro, peraltro, se tali deliberazioni debbano essere adottate dall'assemblea ordinaria ovvero dall'assemblea straordinaria. Sembra, tuttavia, che, ove non sia imposto dalla necessità di modificare lo statuto della società, la delibera spetti all'assemblea ordinaria. La norma dell'organo monocratico potrebbe essere di difficile applicazione non solo nelle società in house nelle quali la partecipazione pubblica totalitaria sia ripartita tra più enti che dovrebbero esercitare un controllo analogo congiunto, ma anche, e soprattutto, nelle società a capitale misto nelle quali solo la presenza di un organo amministrativo pluripersonale consente di assicurare l'equilibrio fra la componente pubblica e quella privata, consentendo tanto ai soci pubblici, quanto ai soci privati la nomina di almeno un amministratore. L'art. 26 stabilisce, al comma 1, che le società già costituite, entro la data del 31 luglio 2017, devono adeguare i propri statuti alle norme del d.lgs. n. 175, compresa, dunque, quella che, in linea di principio, impone, nelle società a controllo pubblico, la composizione monocratica dell'organo amministrativo. La disposizione, tuttavia, prevede solo il termine per l'adeguamento dello statuto ma non disciplina le conseguenze per il caso in cui la società non adegui affatto il proprio statuto nel termine stabilito. Al riguardo, la soluzione più convincente è nel senso che, se la società non adegua il proprio statuto nel termine fissato, gli amministratori decadono automaticamente dalla carica (Corte conti, sez. controllo per la Regione Lombardia, parere del 18 ottobre 2007, n. 46). Con la conseguenza, per un verso, che gli amministratori decaduti non hanno il diritto al risarcimento dei danni previsto dall'art. 2383 c.c., trattandosi di un effetto previsto dalla legge (FIORANI, 712) e, per altro verso, che gli amministratori decaduti restano in carica in regime di prorogatio, applicabile anche all'ipotesi della decadenza (Cass. n. 28/2013: la prorogatio imperii, prevista dall'art. 2385 c.c. ed avente la finalità di assicurare la contestualità tra cessazione e sostituzione dell'amministratore, è applicabile in ogni caso in cui la società rimanga privata dell'opera dell'amministratore, e, pertanto, non solo nei casi di scadenza del termine, decadenza o dimissioni, ma anche nei casi di revoca o di annullamento per illegittimità della relativa delibera di nomina), ai sensi dell'art. 2385 c.c. (Ranucci, 448), con la conseguente validità degli atti dagli stessi compiuti (Fimmanò-Occorsio, 379). Si tenga, tuttavia, presente che, per gli organi di amministrazione e di controllo delle società in house, trovano applicazione, ai sensi dell'art. 11, comma 15, del d.lgs. n. 175 in esame, le norme previste dal d.l. 16 maggio 1994, n. 293, conv. con modif. dalla l. 15 luglio 1994, n. 444, in virtù delle quali, una volta scaduto il termine di durata dell'incarico, la proroga è limitata, differentemente da quanto stabilisce la norma contenuta nell'art. 2385, comma 2, c.c., a quarantacinque giorni, successivamente ai quali gli organi decadono e gli atti compiuti sono nulli. In caso di adozione del sistema dualistico, il comma 3 dell'art. 11 prevedeva l'attribuzione al consiglio di sorveglianza, a prescindere da una espressa previsione statutaria, dei poteri previsti dall'art. 2409-terdecies, comma 1, lett. f-bis, c.c., vale a dire le deliberazioni relative alle operazioni strategiche ed ai piani industriali e finanziari della società predisposti dal consiglio di gestione, il quale, peraltro, rimane responsabile per gli atti compiuti. La norma, sottraendo allo statuto la facoltà di assegnare al consiglio di sorveglianza il potere di deliberare in ordine alle suddette operazioni ed ampliando il suo potere-dovere di coinvolgimento nella gestione strategica, con la corrispondente riduzione delle decisioni adottabili autonomamente dagli amministratori e la sottoposizione delle stesse all'approvazione del consiglio di sorveglianza, finiva per consentire un'ingerenza diretta nella gestione da parte del consiglio di sorveglianza, che è un organo di diretta espressione dell'assemblea. In questa prospettiva, il vincolo posto dalla disposizione citata sembrava particolarmente idoneo per realizzare l'assetto organizzativo che caratterizza le cosiddette società in house (art. 16, comma 4, lett. a), contribuendo, in particolare, a realizzare il controllo analogo richiesto per l'affidamento in house. Su tale aspetto, tuttavia, è intervenuto il d.lgs. n. 100/2017 che, sopprimendo la citata disposizione, ha lasciato libere le stesse società a controllo pubblico di prevedere, secondo le regole generali, l'attribuzione statutaria al consiglio di sorveglianza dei poteri di cui all'art. 2409-terdecies, comma 1, lett. f-bis, c.c. Sempre in ordine alla composizione, il comma 4 dell'art. 11 si occupa della parità di genere, disponendo che, nella scelta degli amministratori delle società a controllo pubblico, le pubbliche amministrazioni socie devono assicurare il rispetto del principio di equilibrio di genere, almeno nella misura di un terzo, da computare, tuttavia, non sul numero complessivo dei membri di ogni consiglio d'amministrazione e controllo della singola società, ma su quello delle designazioni o nomine effettuate dall'ente pubblico socio in corso d'anno (v. Nazzicone, 2016, 5). Inoltre, qualora la società abbia un organo amministrativo collegiale, lo statuto deve prevedere che la scelta degli amministratori da eleggere sia effettuata nel rispetto dei criteri stabiliti dalla l. n. 120/2011, che ha introdotto specifiche disposizioni volte a garantire l'equilibrio di genere nella composizione degli organi di amministrazione e controllo delle società quotate. In effetti, la l. n. 120/2011 imponeva il rispetto della parità di genere anche per il collegio sindacale (art. 1, comma 3). L'art. 11 del d.lgs. n. 175, invece, si limita a disciplinare l'organo amministrativo senza nulla disporre in ordine al collegio sindacale. Sembra, tuttavia, preferibile la tesi (espressa da Fimmanò-Occorsio, 380) per la quale, poiché la l. n. 120 non rientra tra le disposizioni abrogate ai sensi dell'art. 28 del d.lgs. n. 175, le relative disposizioni rimangono in vigore, con la conseguenza che anche per l'organo di controllo deve essere rispettata la proporzione di un terzo a favore del genere meno rappresentato. Le regole sulla composizione numerica degli organi di amministrazione delle società a controllo pubblico si chiudono con il comma 5, in virtù del quale, quando si tratti di una società a responsabilità limitata, non è consentito, in deroga all'art. 2475, comma 3, c.c., prevedere che l'amministrazione sia affidata, disgiuntamente o congiuntamente, a due o più soci. Pertanto, anche nel caso in cui l'organo di amministrazione sia composto da più soci, non sarà possibile l'affidamento a due o più di essi, congiuntamente o disgiuntamente, dell'amministrazione della società. Le norme che precedono si applicano soltanto alle società a controllo pubblico e non anche alle società meramente partecipate, nelle quali, mancando una posizione di controllo dell'amministrazione pubblica, non si giustifica la soggezione a così forti restrizioni relative alla struttura e alla composizione dell'organo amministrativo. Il comma 1 dell'art. 11 prescrive che, salvi gli ulteriori requisiti previsti dallo statuto, i componenti degli organi amministrativi e di controllo delle società a controllo pubblico devono possedere i requisiti di onorabilità, professionalità ed autonomia stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze. Non è chiaro, peraltro, se la norma, nella parte in cui richiede oltre ai requisiti di onorabilità e professionalità, anche quello di autonomia, trovi, o meno, applicazione anche per le società in house, caratterizzate, piuttosto, secondo la giurisprudenza (cfr. Cass. S.U. n. 26283/2013 cit.), dal fatto che i relativi amministratori sono assoggettati al potere gerarchico dell'ente pubblico socio e sono, come tali, privi di sostanziale autonomia. Infine, nelle società di cui le amministrazioni pubbliche detengono il controllo indiretto, non è consentito nominare, nei consigli di amministrazione o di gestione, amministratori della società controllante, a meno che a questi ultimi siano attribuite deleghe gestionali a carattere continuativo ovvero che la nomina risponda all'esigenza di rendere disponibili alla società controllata particolari e comprovate competenze tecniche degli amministratori della società controllante o di favorire l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento Il comma 1 dell'art. 11 mantiene fermo quanto disposto dall'art. 12 del d.lgs. n. 39/2013, che detta le regole in materia di «incompatibilità tra incarichi dirigenziali interni e esterni e cariche di componenti degli organi di indirizzo nelle amministrazioni statali, regionali e locali», e dall'art. 5, comma 9, del d.l. n. 95/2012, conv. con l. n. 135/2012, in base al quale alle amministrazioni pubbliche è fatto divieto di conferire, a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza, incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle società da esse controllate. La prima parte del secondo periodo del comma si rivela sostanzialmente superflua, alla luce non solo dell'applicabilità diretta delle disposizioni poste dal decreto legislativo in materia di inconferibilità ed incandidabilità, ma anche dall'espresso richiamo, effettuato dal successivo comma 14, dell'intero testo del decreto n. 39 cit. L'art. 11, comma 9, del d.lgs. n. 175 – confermando in sostanza la disciplina introdotta dall'art. 3, comma 12, della l. n. 244/2007 – dispone che «gli statuti delle società a controllo pubblico prevedono altresì: a) l'attribuzione da parte del consiglio di amministrazione di deleghe di gestione a un solo amministratore, salva l'attribuzione di deleghe al presidente ove preventivamente autorizzata dall'assemblea; b) l'esclusione della carica di vicepresidente o la previsione che la carica stessa sia attribuita esclusivamente quale modalità di individuazione del sostituto del presidente in caso di assenza o impedimento, senza riconoscimento di compensi aggiuntivi». L'art. 11, comma 9, infine, dispone che gli statuti delle società a controllo pubblico prevedano il divieto di istituire organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in tema di società. La norma, come si è visto in precedenza, non trova applicazione nelle società in house. L’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 175, relativamente alle sole società a controllo pubblico stabilisce che: «nelle società a responsabilità limitata a controllo pubblico l’atto costitutivo in ogni caso prevede la nomina dell’organo di controllo o di un revisore»; «nelle società per azioni a controllo pubblico la revisione legale dei conti non può essere affidata al collegio sindacale», in tal modo imponendo una soluzione organizzativa più rigorosa rispetto alle società di diritto comune. Ed infatti, nelle società a responsabilità limitata non assoggettate a controllo pubblico (compresa, quindi, la società a mera partecipazione pubblica), l’art. 2477 c.c. impone la nomina dell’organo di controllo (di regola, a composizione monocratica) o di un revisore quando, per almeno due esercizi consecutivi, siano superati due dei parametri dimensionali stabiliti dall’art. 2477, comma 3, lett. c. ovvero nei casi in cui la società sia tenuta alla redazione del bilancio consolidato o eserciti il controllo su società obbligate alla revisione legale dei conti. L’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 175, invece, in deroga rispetto a quanto stabilito dall’art. 2447 c.c., stabilisce che, nelle sole società a responsabilità limitata a controllo pubblico (comprese quelle in house che ne costituiscono una species), l’atto costitutivo in ogni caso prevede la nomina dell’organo di controllo o di un revisore. La necessarietà del controllo si collega probabilmente con l’obbligo del socio pubblico (degli enti locali) di redigere il bilancio consolidato (d.lgs. n. 118/2011). In tal senso, del resto, si era già espressa la Corte dei conti, ad avviso della quale, in particolare, per il prospetto debiti-crediti con le partecipate «l’asseverazione da parte dell’organo di revisione degli enti strumentali e delle società controllate e partecipate è sempre necessaria» (C. conti sez. autonomie n. 2 del 19 gennaio 2016). La norma è, dunque, diretta a porre rimedio a quelle situazioni, pure frequenti nella prassi, in cui società a responsabilità limitata a partecipazione pubblica, facendo leva sulla mera facoltatività dell’istituzione del controllo, hanno operato senza che al loro interno vi fosse un organo di controllo societario ovvero un revisore che vigilassero sulla gestione e sulla contabilità sociale. La deviazione rispetto al diritto comune consiste è limitata solo alla deroga rispetto al regime ordinario di facoltatività del controllo previsto dall’art. 2477, comma 1, c.c., imponendo, nelle società a responsabilità limitata a controllo pubblico, un ulteriore presupposto di obbligatorietà della nomina dell’organo di controllo o di un revisore, senza però modificare la disposizione codicistica, la quale, pertanto, in mancanza di norme che ma depongano in senso contrario, trova applicazione per ogni altro aspetto. In particolare, ove lo statuto non disponga nulla al riguardo, l’organo di controllo è costituito da un solo membro effettivo, scelto tra i revisori legali iscritti nell’apposito registro, e, come dispone l’art. 2477, comma 5, c.c. all’organo di controllo, anche monocratico, si applicano le disposizioni sul collegio sindacale previste per le società per azioni. Nel caso della società per azioni a controllo pubblico, l’art. 3 del d.lgs. n. 175 dispone che la revisione legale dei conti non può essere affidata al collegio sindacale, in deroga rispetto all’art. 2409-bis c.c., per il quale, invece, nelle società per azioni che adottano il sistema tradizionale di amministrazione e controllo e che non siano tenute alla redazione del bilancio consolidato, lo statuto può prevedere che la revisione legale dei conti può essere affidata al collegio sindacale: in tal caso, peraltro, l’intero collegio deve essere costituito da revisori legali dei conti, iscritti nell’apposito registro. Nelle società per azioni a controllo pubblico, invece, pur quando ricorrano le condizioni previste dall’art. 2409-bis, comma 2, c.c., la funzione di revisione legale non può essere affidata al collegio sindacale, dovendosi necessariamente nominare un revisore esterno. I compensi spettanti agli amministratori ed ai titolari e componenti degli organi di controllo.L'art. 11, comma 6, riproducendo l'analoga disposizione dettata dall'art. 1, comma 672, della l. n. 208/2015, abrogato dall'art. 28, comma 1, lett. v), prevede che, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti (e, per le società controllate dalle regioni o dagli enti locali, previa intesa in Conferenza unificata ai sensi dell'art. 9 del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281), siano definiti, per le società a controllo pubblico, indicatori dimensionali, quantitativi e qualitativi, al fine di individuare fino a cinque fasce di classificazione. Per ciascuna fascia è determinato, in proporzione, il limite dei compensi massimi al quale gli organi di dette società devono fare riferimento, secondo criteri oggettivi e trasparenti, per la determinazione del trattamento economico annuo onnicomprensivo da corrispondere «agli amministratori, ai titolari e componenti degli organi di controllo, ai dirigenti e ai dipendenti». Tali emolumenti non possono, comunque, eccedere il limite massimo di euro 240.000 annui, al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del beneficiario, come prescritto dall'art. 13 del d.l. n. 66/2014, conv. dalla l. n. 89/2014, tenuto conto anche dei compensi corrisposti da altre pubbliche amministrazioni o da altre società a controllo pubblico. La norma ha aggiunto che il decreto stabilisce anche i criteri di determinazione della parte variabile della remunerazione, commisurata ai risultati di bilancio raggiunti dalla società nel corso dell'esercizio precedente e che, in caso di risultati negativi attribuibili alla responsabilità dell'amministratore, la parte variabile non può essere corrisposta. La disposizione estende, in quest'ultima parte, a tutte le società partecipate da enti pubblici (salvo quelle quotate in borsa o emittenti strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati), l'analogo precetto introdotto, per le società partecipate da enti locali, dall'art. 1, comma 725, della l. 27 dicembre 2006, n. 296, abrogato dal d.lgs. n. 175, in base al quale «resta ferma la possibilità di prevedere indennità di risultato solo nel caso di produzione di utili». Quest'ultima disposizione aveva posto alcuni problemi interpretativi, specie nell'ipotesi in cui la mancata produzione di utili fosse conforme al mandato conferito all'amministratore da parte dei soci (per esempio, erogazione di un predeterminato servizio a prezzi politici, magari imposti per legge), che in quelle nelle quali tale assenza è connaturata alla natura della società (per esempio, società mista, costituita per la realizzazione di un'opera pubblica con un contratto di concessione di costruzione e gestione, nel corso degli esercizi di realizzazione dell'infrastruttura). La nuova formulazione della norma cerca di risolvere le citate distorsioni applicative, collegando il divieto di erogazione della parte accessoria della retribuzione sia alla presenza di «risultati negativi» che alla loro imputabilità «alla responsabilità dell'amministratore». Si tratta di un inciso che, da un lato, permette alla società e, in particolare, alle amministrazioni socie di valutare, nel concreto, come si è determinato il risultato della gestione e se quest'ultimo, ove negativo, sia effettivamente attribuibile al comportamento degli amministratori ovvero discenda da fattori indipendenti o aventi fonte in scelte pregresse, mentre, dall'altro lato, rischia di favorire decisioni opportunistiche atte ad erogare la parte accessoria della retribuzione anche in caso di risultato negativo attribuibile effettivamente agli amministratori. Il comma 7 dell'art. 11 in esame introduce una regola di diritto intertemporale, specificando che, fino all'emanazione del predetto decreto, restano in vigore le disposizioni previste dall'art. 4, comma 4, secondo periodo, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 135, e successive modificazioni, e al decreto del Ministro dell'economia e delle finanze del 24 dicembre 2013, n. 166, valevole per gli amministratori delle società controllate dal predetto dicastero. L'art. 11, comma 9, inoltre, alla lett. c), prevede il divieto di corrispondere gettoni di presenza o premi di risultato deliberati dopo lo svolgimento dell'attività, e il divieto di corrispondere trattamenti di fine mandato, ai componenti degli organi sociali. Infine, l'art. 11, comma 12, dispone che coloro che hanno un rapporto di lavoro con società a controllo pubblico e che sono al tempo stesso componenti degli organi di amministrazione della società con cui è instaurato il rapporto di lavoro, siano collocati in aspettativa non retribuita, con sospensione della loro iscrizione ai competenti istituti di previdenza e di assistenza, salvo che rinuncino ai compensi dovuti a qualunque titolo agli amministratori. Il problema si era, in precedenza, posto con riguardo alla coesistenza del doppio incarico di amministratore delegato e direttore generale, la cui incompatibilità derivava dall'art. 12 del d.lgs. n. 39/2013, il quale dispone, al comma 1, che gli incarichi dirigenziali, interni ed esterni, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico sono incompatibili con l'assunzione ed il mantenimento, nel corso dell'incarico, della carica di componente dell'organo di indirizzo nella stessa amministrazione o ente pubblico che ha conferito l'incarico, ovvero di presidente e amministratore delegato nello stesso ente di diritto privato in controllo pubblico che ha conferito l'incarico. Il d.lgs. n. 175, da un lato, estende le ipotesi di incompatibilità, ritenendo sufficiente, quale presupposto, la presenza di un mero rapporto di lavoro (anche non dirigenziale) con la società a controllo pubblico, e, come incarico non permesso, anche solo quello di componente dell'organo di amministrazione della società, senza richiedere la nomina a presidente o l'incarico di amministratore delegato, ma, dall'altro, permette di proseguire il rapporto di lavoro (con il conseguente status normativo ed economico) in caso di espressa rinuncia «ai compensi dovuti a qualunque titolo agli amministratori». 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