Decreto legislativo - 19/08/2016 - n. 175 art. 3 - Tipi di societa' in cui e' ammessa la partecipazione pubblicaTipi di società in cui è ammessa la partecipazione pubblica
1. Le amministrazioni pubbliche possono partecipare esclusivamente a società, anche consortili, costituite in forma di società per azioni o di società a responsabilità limitata, anche in forma cooperativa. 2. Nelle società a responsabilità limitata a controllo pubblico l'atto costitutivo o lo statuto in ogni caso prevede la nomina dell'organo di controllo o di un revisore. Nelle società per azioni a controllo pubblico la revisione legale dei conti non può essere affidata al collegio sindacale. InquadramentoSi tratta di individuare i soggetti che possono essere coinvolti in una società pubbliche, sia dal punto di vista del socio che detiene una quota del relativo capitale sociale, sia dal punto di vista della società che può essere partecipata da un socio pubblico. I soggetti: le pubbliche amministrazioniLe amministrazioni pubbliche che possono partecipare ad una società sono, a norma dell'art. 2, lett. a), tutte le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, vale a dire tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende e le amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane ed i loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e le loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del servizio sanitario nazionale, l'agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le agenzie di cui al d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300. La norma, tuttavia, al fine di ampliare ancor di più la platea degli enti soggetti alla disciplina dettata dal d.lgs. n. 175, ha anche precisato che per amministrazioni pubbliche sono da considerarsi anche i consorzi e le associazioni per qualunque fine istituite dalle stesse amministrazioni citate, oltre che gli enti pubblici economici e le autorità portuali.
I soggetti e le societàLe pubbliche amministrazioni, come sopra individuate, possono acquisire una «partecipazione» in società, anche consortili, costituite in forma di società per azioni o di società a responsabilità limitata ovvero di società cooperativa. Deve escludersi, dunque, come si vedrà meglio in seguito (cfr. il commento agli artt. 4 e ss.), che la partecipazione possa riguardare una società di persone ovvero una società in accomandita per azioni. La partecipazione può essere diretta, quando l’ente pubblico acquista la titolarità di rapporti comportanti la qualità di socio in società o la titolarità di strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi, ovvero indiretta, quando la partecipazione in una società è detenuta da un’amministrazione pubblica per il tramite di società o altri organismi soggetti a controllo da parte della medesima amministrazione pubblica. La partecipazione, peraltro, può essere acquistata anche con la sottoscrizione, a norma dell’art. 2346, comma 6, c.c., di strumenti finanziari emessi dalla società e che attribuiscono al relativo titolare diritti amministrativi (art. 2 lett. f). Quando uno o più enti pubblici acquistano, direttamente o indirettamente, la titolarità di una quota di partecipazione al capitale sociale di una società per azioni, a responsabilità limitata o una cooperativa, tale società, per questo sol fatto, dev’essere qualificata come una «società a partecipazione pubblica», vale a dire, più precisamente, come chiarisce il comma 1 dell’art. 1, una società “a totale o parziale partecipazione pubblica, diretta o indiretta”. Le società a mera partecipazione pubblica sono pressoché esclusivamente assoggettate alle norme societarie di diritto comune. Il d.lgs. n. 175, infatti, si occupa delle società a mera partecipazione pubblica o per ribadire il loro assoggettamento alle norme societarie di diritto comune (come l’art. 12, comma 1, dove è stabilito che “i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali”, o l’art. 14, comma 1, dove è previsto che “le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza”), o per introdurre deroghe significative rispetto al comune modello societario ma pur sempre riconducibili al tradizionale trattamento normativo che tali società hanno ricevuto nel codice civile, come l’attribuzione al socio pubblico, ove previsto dallo statuto, del potere di nominare o di revocare direttamente uno o più amministratori o sindaci della società (art. 9, comma 7); limitandosi, per il resto, a prevedere norme meramente programmatiche (come l’art. 15) ovvero prive di sanzione, come la facoltà del socio pubblico, prevista dall’art. 11, comma 16, ove titolare di una partecipazione pubblica superiore al dieci per cento del capitale, di proporre agli organi societari l’introduzione di misure di contenimento in tema di compensi analoghe a quelle di cui ai commi 6 e 10. Le società a mera partecipazione di uno o più enti pubblici, quindi, sono assoggettate alle norme societarie comuni, salvo che per le deroghe previste dallo stesso decreto: a condizione, tuttavia, che non siano quotate. Le società quotate (e cioè le società a partecipazione pubblica che emettono azioni quotate in mercati regolamentati nonché le società che hanno emesso, alla data del 31 dicembre 2015, strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentati) e le società da esse partecipate, salvo che queste ultime siano, non per il tramite di società quotate, controllate o partecipate da amministrazioni pubbliche, infatti, sono assoggettate solo alle norme societarie comuni a tali società, trovando, per le stesse, applicazione le norme del TU solo se ciò è stato espressamente previsto, come, in particolare, accade nelle norme che disciplinano l’acquisto delle azioni (art. 8, comma 3) e la gestione delle partecipazioni da parte delle pubbliche amministrazioni (art. 9, comma 9). Le società quotate sono, di conseguenza, sottratte pressoché integralmente all’ambito di applicazione delle norme previste dal d.lgs. n. 175 cit.. L’esenzione accordata alle società quotate, ancorché a controllo pubblico o a partecipazione pubblica, è giustificata dal fatto che esse operano pienamente sul mercato e sono sottoposte, in regime di parità con qualsivoglia altra società quotata, al sistema di vigilanza disciplinato nel d.lgs. n. 58/1998, , ed, in particolare, ai poteri di controllo della CONSOB, preordinati ad assicurare la trasparenza del mercato, l’ordinato svolgimento delle negoziazioni e la tutela degli investitori. L’assoggettamento delle società quotate, pur se a partecipazione pubblica, ai limiti ed agli oneri stabiliti dal d.lgs. n. 175 cit., comporterebbe, quindi, l’alterazione dei principi di parità di trattamento tra imprese pubbliche e privata, se non altro perché, in tal modo, le società a partecipazione pubblica quotate risulterebbero soggette a sistemi di controllo, ulteriori rispetto a quelli già previsti dal d.lgs. n. 58 cit., idonei ad interferire sulla loro ordinaria attività e comunque di generare costi cui non sarebbero tenuti i concorrenti privati. L’esenzione dall’ambito di applicazione del d.lgs. n. 175 riguarda non solo le società con azioni quotate in mercati regolamentati, ma, secondo la definizione dell’art. 2, comma 1, lett. p), anche quelle che “alla data del 31 dicembre 2015" abbiano emesso "strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentati”, nonché, ai sensi dell’art. 1, comma 5, le “società da esse partecipate”, e cioè alle società partecipate da società quotate, a meno che le prime “siano, non per il tramite di società quotate, controllate o partecipate da amministrazioni pubbliche”. Ciò significa che la società di secondo livello, benché partecipata da una quotata, rimane a partecipazione pubblica ai sensi del d.lgs. n. 175 quando nel capitale sono presenti altresì pubbliche amministrazioni. In altri termini, l’esonero delle società controllate o partecipate da società quotate si verifica soltanto nelle ipotesi in cui la società quotata abbia l’intero capitale delle società oppure la restante quota di capitale sia detenuta da soci privati o da pubbliche amministrazioni ma per il tramite di società quotate. L’art. 26, ai commi 4 e 5, esonera, poi, dall’applicazione del d.lgs. n. 175, sia pur transitoriamente, e cioè fino al 23 settembre 2017, anche le società "quotande", purché le decisioni di quotazione (delle azioni o degli altri strumenti finanziari) siano (o siano state) prese ed i conseguenti procedimenti di quotazione siano avviati e vengano conclusi nel rispetto dei termini ivi indicati. Se poi tali conclusioni saranno positive, le società in questione assumeranno la veste di società quotate e saranno perciò escluse a tempo indeterminato dalla sfera applicativa del d.lgs. n. 175. Se una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo, la società a partecipazione pubblica si configura, più specificamente, come «società a controllo pubblico». A tali fini, il controllo sussiste in tutti i casi previsti dall’art. 2359 c.c. (v.), vale a dire tanto nei casi in cui le amministrazioni pubbliche dispongono della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria (art. 2359, comma 1, n. 1, c.c.), quanto nei casi in cui l’amministrazione dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria (art. 2359, comma 1, n. 2, c.c.). La norma, infine, comprende nei casi di controllo anche la fattispecie di cui al n. 3 dell’art. 2359, comma 1, c.c., quando, cioè, la società, pur in mancanza di una partecipazione di pubbliche amministrazioni al capitale, è sotto l’influenza dominante delle stesse in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa (c.d. controllo contrattuale). La norma, infine, ha esteso il concetto di controllo anche a quelle situazioni ove, in applicazione di una norma di legge, dello statuto societario o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale, è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo. Le società sono, dunque, a controllo pubblico quando l’ente o gli enti pubblici (non si limitano ad essere soci della società, come nelle società partecipate, ma) esercitano, in ordine alla stessa, poteri di controllo essendo in condizione di influenzare in modo determinate o l’assemblea ordinaria o la gestione strategica della società. E ciò, più precisamente, accade: - quando le amministrazioni pubbliche dispongono della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria (art. 2359, comma 1, n. 1, c.c.) ovvero dei voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria (art. 2359, comma 1, n. 2); - quando, come nei casi previsti dal n. 3 dell’art. 2359 c.c. e dall’art. 2 lett. b del d.lgs. n. 175, l’ente pubblico, a prescindere dalla misura della partecipazione al capitale, che può essere minoritaria, (e, forse, perfino in mancanza della partecipazione dell’ente pubblico al capitale sociale, è in condizione di esercitare, per effetto di una norma di legge o dello statuto societario ovvero dei vincoli discendenti da un patto parasociale o da un accordo contrattuale, un’influenza determinante in ordine all’assunzione, da parte degli amministratori della società, delle decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale (come, in particolare, nel caso, tipizzato dalla norma dell’art. 2 cit. ma da ritenersi non esclusivo, in cui l’assunzione di tali decisioni richiede, per accordo parasociale o contrattuale, il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo). Le società a controllo pubblico sono, di regola, assoggettate alle norme societarie comuni. Le deroghe previste, sul punto, dal d.lgs. n. 175 cit. sono, però, molto significative. Si pensi, in particolare, a quelle dettate da: - l’art. 3, comma 2: Nelle società a responsabilità limitata a controllo pubblico l’atto costitutivo o lo statuto in ogni caso prevede la nomina dell’organo di controllo o di un revisore. Nelle società per azioni a controllo pubblico la revisione legale dei conti non può essere affidata al collegio sindacale; - gli artt. 6, comma 2, e 14: Le società a controllo pubblico predispongono specifici programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale e ne informano l’assemblea con la conseguenza che, ove emergano, nell’ambito dei programmi di valutazione del rischio di cui all’articolo 6, comma 2, uno o più indicatori di crisi aziendale, l’organo amministrativo della società a controllo pubblico adotta senza indugio i provvedimenti necessari al fine di prevenire l’aggravamento della crisi, di correggerne gli effetti ed eliminarne le cause, attraverso un idoneo piano di risanamento; - l’art. 11, commi 2 e 3: L’organo amministrativo delle società a controllo pubblico è costituito, di norma, da un amministratore unico. L’assemblea della società a controllo pubblico, con delibera motivata con riguardo a specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa e tenendo conto delle esigenze di contenimento dei costi, può disporre che la società sia amministrata da un consiglio di amministrazione composto da tre o cinque membri, ovvero che sia adottato uno dei sistemi alternativi di amministrazione e controllo previsti dai paragrafi 5 e 6 della sezione VI-bis del capo V del titolo V del libro V del codice civile; - l’art. 13: Nelle società a controllo pubblico, in deroga ai limiti minimi di partecipazione previsti dall’articolo 2409 del codice civile, ciascuna amministrazione pubblica socia, indipendentemente dall’entità della partecipazione di cui è titolare, è legittimata a presentare denunzia di gravi irregolarità al tribunale. Il presente articolo si applica anche alle società a controllo pubblico costituite in forma di società a responsabilità limitata. Alcune delle esposte norme derogatorie, tuttavia, come quella in ordine alla applicazione dell’art. 2409 c.c. alle società a responsabilità limitata (art. 2477, ult. comma, c.c.) e alla doverosa predisposizione di assetti adeguati a prevenire e trattare le crisi d’impresa (art. 2086 c.c.), sono state, di recente, in tutto o in parte assorbite dalle riforme che hanno successivamente investito, sui punti in esame, le società di capitali. Se, invece, il controllo esercitato sulla società dall’ente o dagli enti pubblici soci è analogo a quello che gli stessi esercitano sui propri servizi, la società, così controllata, assume i caratteri tipici della cd. società in house(il cui modello è stato delineato dalla sentenza Teckal della Corte giustizia CE (18 novembre 1999, in causa C-107/98) per escludere la necessità di una gara nell’affidamento di un determinato contratto pubblico “… solo nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti locali che la controllano” (in senso conf., le successive sentenze della Corte giustizia CE Parkin Brixen del 13.10.2005 e Stadt Halle del 11 gennaio 2005). Si tratta, più precisamente, di società (costituite da uno o più enti pubblici di cui, almeno in linea di principio, soltanto gli enti pubblici possono essere soci, la cui attività è statutariamente riservata, in via esclusiva o comunque prevalente, in favore degli enti pubblici partecipanti) assoggettate, da parte di questi ultimi, ad un controllo analogo a quello che gli stessi esercitato sui propri uffici (in giurisprudenza, in tal senso Cass. S.U. n. 26283/2013; in precedenza, in tal senso Cass. S.U., n. 10299/2013, che però ne aveva escluso la sussistenza nel caso deciso; in seguito, in senso conf., Cass. S.U., n. 16622/2014; Cass. S.U., n. 16240/2014; Cass. S.U., n. 15943/2014 e Cass. S.U., n. 15942/2014; Cass. S.U. n. 15594/2014; Cass. S.U., n. 5491/2014; Cass. S.U., n. 7177/2014, secondo la quale “la verifica in ordine alla ricorrenza dei requisiti propri della società "in house", …, deve compiersi con riguardo alle previsioni contenute nello statuto della società al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita e non a quelle, eventualmente differenti, esistenti al momento in cui risulti proposta la domanda di responsabilità del P.G. presso la Corte dei conti”; Cass. S.U., n. 23306/2015, in motiv.; Cass. S.U., n. 5848/2015, per la quale sono in house solo le società “… le cui azioni non possono per statuto appartenere neppure in parte a soci privati, il cui oggetto sociale prevede un’attività da prestare prevalentemente in favore dell’ente pubblico partecipante e che, sempre in base ad apposite previsioni statutarie, sono assoggettate ad una minuziosa forma di controllo da parte del socio pubblico così da implicare una subordinazione dei suoi organi amministrativi alla volontà di quello al punto da renderle assimilabili ad una sua articolazione interna”), e che, proprio in quanto così controllate, ove ne sussistano le ulteriori condizioni prescritte dall’art. 16 del TU (e cioè l’assenza di soci privati con poteri di controllo o di veto o in grado di esercitare un’influenza dominante, e la devoluzione statutaria dell’attività sociale nella misura minima dell’80% del fatturato allo svolgimento dei compiti affidati ad essa dall’ente o dagli enti pubblici soci), possono essere affidatarie, da parte delle amministrazioni pubbliche controllanti, di contratti pubblici in via diretta (e cioè senza l’espletamento delle procedure di evidenza pubblica a tal fine prevista dalla legge in materia) In ordine al primo, il capitale sociale può anche far capo ad una pluralità di soci, purché si tratti di enti pubblici: nel passato, peraltro, si è ritenuto necessario non solo che i soci fosse tutti pubblici ma pure che lo statuto inibisse in modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici siano titolari (Cass. S.U. n. 7177/2014. Cass. S.U. n. 27992/2013); la società in house, quindi, non era configurabile nel caso in cui il capitale sia formato anche dalla partecipazione, sia pur minoritaria, di un socio privato o, più in generale, quando lo statuto sociale non lo vietasse inequivocamente (questa previsione può anche conseguire all’entrata in vigore di una successiva disposizione normativa imperativa con la conseguente nullità delle clausole statutarie incompatibili: Cass. S.U., n. 16622/2014, in motiv.). Il d.lgs. n. 175, invece, coerentemente a quanto disposto dalla direttiva 2014/24 UE, ha stabilito che alle società in house non partecipano capitali privati, con salvezza dei casi previsti da norme di legge e sempre che la partecipazione di capitali privati avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata (art. 16, comma 1). Il requisito della destinazione esclusiva o, comunque, prevalente dell’attività esercitata dalla società in favore dell’ente o degli enti soci, pur presentando innegabilmente un qualche margine di elasticità, postulava che, in ogni caso, l’attività accessoria (che era, quindi, possibile), oltre ad essere marginale, rivestisse una valenza meramente strumentale rispetto alla prestazione del servizio d’interesse economico generale svolto dalla società in via principale. Il d.lgs. n. 175, confermando tale principio, ha, tuttavia, quantificato la misura della destinazione dell’attività esercitata dalla società in favore dell’ente o degli enti soci, stabilendo che gli statuti di tali società devono prevedere che oltre l’ottanta per cento del loro fatturato sia effettuato nello svolgimento dei compiti a esse affidati dall’ente pubblico o dagli enti pubblici soci (art. 16, comma 3). Per i criteri di calcolo del fatturato si può far riferimento a quanto previsto dall’art. 12, comma 5, Direttiva 2014/24/UE, recepito, con identica formulazione, dall’art. 5, comma 7, del nuovo codice dei contratti pubblici: "per determinare la percentuale delle attività di cui al paragrafo 1, primo comma, lettera b), al paragrafo 3, primo comma, lettera b), e al paragrafo 4, lettera c), si prende in considerazione il fatturato totale medio, o una idonea misura alternativa basata sull’attività, quali i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice in questione nei campi dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto" (Fimmano – Occorsio, Atti e statuti delle società pubbliche alla luce della riforma “corretta”, in Not. 2017, 372 ss., 384, nt. 48; D’Orazio, La nozione, cit., 34) L’elemento caratterizzante di queste società è costituito, quindi, dal controllo analogo (che può essere anche “congiunto”, nel senso cioè “l’amministrazione esercita congiuntamente con altre amministrazioni su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi”) nel senso che, in ragione del potere giuridico che hanno di esercitare “un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata”, l’ente pubblico o gli enti pubblici partecipanti svolgono, sulla gestione sociale, “un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi”. E ciò può accadere in forza: 1) di specifiche clausole statutarie che, in deroga al principio dell’appartenenza esclusiva della gestione agli amministratori della società, fissato dagli artt. 2380-bis, 2409-novies c.c. (ma, a ben vedere, anche dall’art. 2475 c.c.), attribuiscano all’ente o agli enti pubblici soci il diritto (già contemplato nella società a responsabilità limitata dall’art. 2468, comma 4, c.c.) il potere di decidere direttamente, senza passare per l’organo amministrativo o per l’autorizzazione assembleare prevista dall’art. 2364 n. 5 c.c., gli atti di gestione più rilevanti dell’attività sociale (Fimmano – Occorsio, Atti e statuti, cit., 387, per i quali, infatti, in ambito statutario, per realizzare il controllo analogo non è sufficiente prevedere un sistema di autorizzazioni assembleari, ex art. 2364, n. 5, c.c., ovvero, per le società che abbiano adottato il sistema dualistico, di deliberazioni ex art. 2409-terdecies, comma 1, lett.f-bis), poiché permarrebbe in capo ai gestori, come osservato da GUERRERA, Autonomina statutaria, cit., 780, un “margine di discrezionalità incompatibile con la richiesta situazione di asservimento”, con la conseguente necessità di consentire clausole statutarie o parasociali che, in deroga alle disposizioni previste dagli artt. artt. 2380-bis, 2409-novies c.c., possono riguardare, oltre alla modalità di nomina degli amministratori, proprio le competenze dell’organo amministrativo, che deve condividere il potere gestorio con la pubblica amministrazione controllante), compresa l’introduzione di organi sociali atipici, variamente denominati (“organismi intercomunali di coordinamento”, “comitati tecnici di controllo", “organismi paritetici dei sindaci”, “comitati di controllo analogo”, ecc.), che provvedano, in luogo o insieme a quelli ordinari, ad assumere le deliberazioni in ordine a talune decisioni societarie (non trovando, dunque, applicazione, con riferimento alle società in house, l’art. 11, comma 9, lett. d), del d.lgs. n. 175, ai sensi del quale gli statuti delle società a controllo pubblico prevedono "il divieto di istituire organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in tema di società"); 2) di appositi patti parasociali (che, in deroga all’art. 2341-bis c.c., possono avere anche una durata superiore a 5 anni) o, si ritiene, con il contratto di affidamento del servizio (argomentando dal contratto di dominio previsto dall’art. 2497-septies c.c.), che attribuiscano all’ente o agli enti pubblici stipulanti il compito di autorizzare preventivamente il compimento di atti di gestione che gli amministratori della società avranno, in definitiva, solo il compito di proporre e di attuare ma non anche di decidere. Si tratta, com’è evidente, di strumenti (di origine statutaria, parasociale o contrattuale) che, direttamente o indirettamente, attribuiscano agli enti pubblici soci non semplicemente il potere fattuale (derivante dal controllo esercitato, in fatto o di diritto, sull’assemblea o sugli amministratori) di influenzare in modo determinante la gestione sociale, come accade nelle società a controllo pubblico, ma, più radicalmente, il potere giuridico (da esercitare, quindi, al verificarsi dei relativi presupposti, necessariamente) di assumere (insieme agli amministratori o in luogo degli amministratori) le decisioni più significative della società controllata in quanto funzionali al conseguimento dei suoi obiettivi strategici, di volta in volta, a seconda del modulo organizzativo previsto dallo statuto, approvando ovvero autorizzando, al di fuori dell’assemblea, gli atti di gestione degli amministratori oppure direttamente compiendo gli atti di gestione o alcuni di essi. Gli organi amministrativi di tale società, quindi, in corrispondenza al potere giuridico d’ingerenza attribuito all’ente pubblico che esercita il controllo analogo, sono, negli ambiti e le materie in cui tale potere può essere esercitato, privati del potere, ad essi di regola riservato, di gestione della società (Cass. S.U., n. 26283/2013; Cons. St. n. 1181/2014: “… è necessario che il consiglio di amministrazione della Società affidataria in house non abbia rilevanti poteri gestionali e che l’ente pubblico affidante …, eserciti, pur se con moduli societari su base statutaria, poteri di ingerenza e di condizionamento superiori a quelli tipici del diritto societario, che sono invece caratterizzati da un margine di rilevante autonomia della governance rispetto alla maggioranza azionaria”; Cons. St. n. 762/2013, per cui: “… secondo la giurisprudenza comunitaria il «controllo analogo» dei soci pubblici sulla società in house costituisce un «potere assoluto» di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, e che riguarda l’insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo”) L’ente pubblico socio, pertanto, lì dove esercita, in sede sociale o parasociale, il potere giuridico di gestione dell’ente, finisce per esercitare, sulla società, un potere di controllo ben più intenso rispetto sia all’influenza dominante che, nei casi previsti dall’art. 2359 c.c., il titolare della partecipazione maggioritaria o totalitaria è in grado di esercitare sull’assemblea della società e, di riflesso, sulla gestione degli amministratori della società o delle società controllate, sia al potere di direzione e coordinamento che il socio esercita sulla società per effetto del controllo ai sensi dell’art. 2359 c.c. o per effetto di particolari vincoli contrattuali, a norma degli artt. 2497 ss. c.c.. In tali ipotesi, il socio individua le linee strategiche dell’attività d’impresa della società controllata ma non è giuridicamente in condizione (salvo che, nella s.r.l., tali poteri non gli siano stati attributi a norma dell’art. 2468 c.c.) di compiere direttamente gli atti di gestione della società controllata, i cui amministratori, pertanto, conservano il potere di gestione esclusiva della società, in conformità dell’art. 2380-bis c.c., ed hanno, quindi, il dovere, se del caso, di discostarsi dalle direttive, ove illegittime, impartite dai soci. Nelle società in house, invece, gli amministratori, quanto meno per le materie riservate al potere d’ingerenza del socio o dei soci pubblici, sono privi del potere gestorio e si trovano, quindi, rispetto all’ente pubblico o agli enti pubblici che svolgono il controllo analogo, in una posizione di vera e propria subordinazione giuridica che non lascia spazio a possibili aree di autonomia decisionale né consente agli stessi di esprimere (salvo che con la rinuncia all’incarico) un eventuale motivato dissenso (come, in effetti, talvolta consentito da leggi speciali che prevedono l’adozione di direttive vincolanti: cfr. in tal senso, l’art. 1, comma 9, d.l. n. 168/2004, conv. in l. n. 191/2004 e l’art. 3, commi 12-16, della l. n. 244/2007). Le società in house, quindi, in ragione dei predetti connotati tipici, finiscono per avere della società di capitali solo la forma esteriore, mutuandone il “paradigma organizzativo”: nella realtà, esse si configurano come una mera articolazione operativa dell’ente pubblico da cui promanano, a guisa di un’azienda speciale, rispetto al quale, pertanto, non si pongono in termini di alterità soggettiva, con la conseguenza: - innanzitutto, che gli amministratori di tali società, in quanto preposti ad una struttura corrispondente ad un’articolazione interna dell’ente pubblico socio, sono, a differenza degli amministratori delle altre società a partecipazione pubblica, personalmente legati, all’ente partecipante, da un vero e proprio rapporto di servizio, non diversamente da quel che accade per i dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall’ente pubblico; in secondo luogo, che la distinzione tra il patrimonio dell’ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale ma non di distinta titolarità per cui il danno eventualmente inferto al patrimonio della società dagli amministratori della società è, a ben vedere, un danno che danneggia un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile a quest’ultimo: la natura erariale di tale danno attribuisce, pertanto, alla Corte dei conti la giurisdizione sui giudizi che riguardano la relativa responsabilità. Per ogni altro profilo, tuttavia, le società in house restano società private, come tali assoggettate, salvo che per le deroghe previste dallo stesso d.lgs. n. 175 (cui va aggiunta la possibilità di introdurre nello statuto organi sociali atipici), alle norme di diritto comune. In tal senso, in effetti, depongono, oltre all’art. 1, comma 3, cit., anche: - l’art. 12, per il quale (salva, appunto, “salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house”) “i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali”: - l’art. 14 il quale non solo stabilisce che “le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi”, ma, soprattutto, testualmente menziona, nell’ultimo comma, la "dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti", facendo così inequivoco riferimento proprio alle società in house, che, appunto, sono le società titolari di affidamenti diretti (art. 16, comma 1). Risultano, così, legislativamente confermate (ed, in effetti, la stessa Relazione illustrativa al decreto legislativo in commento spiega che "le osservazioni volte a sottrarre le società in house al diritto comune delle crisi d’impresa non sono state accolte") le conclusioni alle quali era ormai da tempo pervenuta la giurisprudenza di legittimità, la quale, per un verso, ha riconosciuto la sottoponibilità a fallimento delle società in house (Cass. n. 3196/2017) e, per altro verso, ha assoggettato amministratori e dipendenti delle società in house alla giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale (Cass. S.U., n. 26283/2013). Sono assoggettate alla disciplina generale, salvo che per le deroghe espressamente previste, anche le cd. società a partecipazione mista pubblico-privata, disciplinate dall’art. 17 del d.lgs. n. 175 cit., al cui commento si rinvia. BibliografiaV. sub art. 2249 |