Codice Civile art. 2634 - Infedeltà patrimoniale (1).Infedeltà patrimoniale (1). [I]. Gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale, sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni. [II]. La stessa pena si applica se il fatto è commesso in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi, cagionando a questi ultimi un danno patrimoniale. [III]. In ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo. [IV]. Per i delitti previsti dal primo e secondo comma si procede a querela della persona offesa. (1) V. nota al Titolo XI. InquadramentoTra le novità di maggior rilievo introdotte dalla riforma del diritto penale societario ad opera dell'art. 1 d.lgs. 11 aprile 2002 n. 61, in attuazione dell'art. 11, comma 1, lett. a), n. 12 della legge di delega n. 366 del 3 ottobre 2001, merita senz'altro attenzione particolare la figura dell'infedeltà patrimoniale (Foffani, 345; Lionetti, 229). La previsione dell'art. 2634 c.c. – com'è stato esplicitamente riconosciuto nella Relazione governativa al d.lgs. n. 61/2002 – risponde all'esigenza di colmare una lacuna del precedente impianto normativo in merito alla tutela del patrimonio sociale contro il proliferare degli abusi perpetrati dagli amministratori e dagli altri soggetti investiti di poteri di disposizione di beni sociali (Alessandri, 602 ss.). Prima della riforma del 2002, l'ordinamento italiano non prevedeva una generale fattispecie incriminatrice posta a diretta tutela del patrimonio altrui contro gli abusi dei soggetti investiti di poteri di amministrazione, né una disposizione che reprimesse le condotte di gestione infedele nell'ambito societario e/o nei gruppi di società. Un precedente significativo si rinveniva nel settore dell'intermediazione finanziaria ed era costituito dall'art. 38 d.lgs. 23 luglio 1996 n. 415, successivamente sostituito dall'art. 167 TUF, a fronte del quale era radicata la convinzione che la protezione del patrimonio sociale offerta dal Titolo XI del Libro V del codice civile fosse del tutto insufficiente secondo una verità inconfutabile (Antolisei, 299). Erano, inoltre, «attinenti» alla tematica in questione quattro figure criminose, formulate con la cosiddetta tecnica del rinvio ai precetti civilistici di riferimento, ritenute di scarsa capacità repressiva, per l'eccessiva formalizzazione delle modalità comportamentali: e segnatamente le fattispecie di cui agli artt. 2622 (divulgazione di notizie sociali riservate), 2624 (prestiti e garanzie della società), 2630, comma 2, n. 1 (violazione di obblighi incombenti agli amministratori) e 2631 c.c. Il previgente art. 2631 c.c., in particolare, nell'ambito delle fattispecie indicate, era considerato centrale ed essenziale per la tipizzazione dei comportamenti abusivi degli amministratori, in contrasto con gli obblighi di fedeltà patrimoniale (Bellacosa, 63), così recitando sotto la rubrica «conflitto d'interessi»: «l'amministratore, che, avendo in una determinata operazione per conto proprio o di terzi un interesse in conflitto con quello della società, non si astiene dal partecipare alla deliberazione del consiglio o del comitato esecutivo relativa all'operazione stessa, è punito con la multa da 206 euro a 2.065 euro. Se dalla deliberazione o dall'operazione è derivato un pregiudizio alla società, si applica, oltre la multa, la reclusione fino a tre anni». Con tale norma veniva sanzionata, dunque, la condotta dell'amministratore che, avendo in una determinata operazione per conto proprio o di terzi un interesse in conflitto con quello della società, non si era astenuto dal partecipare alla deliberazione del consiglio di amministrazione o del comitato esecutivo, relativa all'operazione stessa ed il legislatore, sanzionando la mera partecipazione al voto in una situazione di conflitto di interessi, anticipava dunque la tutela dell'interesse patrimoniale della società alla soglia della messa in pericolo, prescindendo dal fatto che dalla condotta ne fosse derivato un pregiudizio economico (Lionetti, 231). Secondo un primo indirizzo (cosiddetto formalistico), sviluppatosi nella giurisprudenza di legittimità, in relazione al previgente art. 2631 c.c., tale reato era da inquadrarsi nell'ambito di un reato di pericolo presunto, la cui previsione era finalizzata a tutelare – mediante la garanzia della correttezza formale delle deliberazioni adottate dai suoi amministratori – la società dalle possibili commistioni dei suoi interessi con interessi ad essa estranei; per la sussistenza del reato, pertanto, non era necessario il verificarsi del danno, dovendo il comportamento dell'agente essere sanzionato anche nel caso in cui dalla delibera la società tragga vantaggio (Cass. pen. V, n. 6899/2000). Era sufficiente, in particolare, la formale contrapposizione tra gli interessi dell'amministratore e quelli della società e non la modalità con cui in concreto questi avesse gestito il conflitto in parola, eventualmente assicurando la prevalenza degli interessi sociali a discapito dei propri. Per un opposto orientamento (cd. sostanzialistico) il conflitto d'interessi doveva caratterizzarsi – così come avveniva nella prospettiva civilistica con riferimento alla fattispecie di cui all'art. 2391 c.c. – per la presenza dei requisiti della patrimonialità, oggettività, effettività ed attualità. Si doveva cioè trattare di un conflitto tra oggettivi interessi patrimoniali, emergente dal contenuto della singola deliberazione che veniva in considerazione (Lionetti, 232). La norma andava interpretata quale reato di pericolo concreto e il delitto doveva ritenersi inesistente ogniqualvolta la partecipazione dell'amministratore alla delibera, pur se in una situazione di conflitto di interessi, fosse risultata inidonea a respingere la soluzione favorevole agli interessi sociali (Romano, 150). Due erano gli argomenti posti a fondamento di tale ultima interpretazione. In primo luogo, per quanto concerneva il dato letterale della norma, qualora si fosse configurato il primo comma come reato di pericolo presunto ed il secondo comma come reato di danno, si sarebbe determinata una irragionevole barriera tra la prima e la seconda parte della fattispecie. In secondo luogo, un'interpretazione sostanzialistica avrebbe scongiurato il rischio di configurare la fattispecie dell'art. 2631 c.c. come un reato di mero sospetto, privo di lesività sostanziale, in difformità al principio di necessaria offensività dell'illecito. Nonostante la lettura in chiave sostanzialistica dell'art. 2631 c.c., la fattispecie di conflitto di interessi non è, comunque, riuscita in passato ad assicurare un'adeguata repressione della infedeltà gestoria. In particolare, sfuggivano alla possibilità di incriminazione sia i comportamenti infedeli degli amministratori, incentrati sul compimento di diretti atti di disposizione dei beni sociali, senza alcun passaggio in consiglio e, quindi, senza alcun controllo di una formale delibera, sia le ipotesi in cui l'amministratore fosse unico o delegato, e nonostante la situazione di conflitto, avesse in autonomia deciso o compiuto direttamente l'operazione (Bellacosa, 65 ss.). Il reato si è, quindi, rivelato una mera «norma manifesto» sostanzialmente disapplicata dalla giurisprudenza (Militello, 389). La giurisprudenza di legittimità aveva individuato nel delitto di appropriazione indebita di cui all'art. 646 c.p., aggravato dalla circostanza di cui all'art. 61 n. 11 c.p., lo strumento in grado di consentire un diretto sindacato in ordine a determinate condotte di gestione delle società, volte, in particolare, alla creazione di fondi occulti, spesso da impiegare per finalità illecite (Cass. pen. V, n. 1245/1998). In particolare, secondo la Suprema Corte «sussiste il delitto di appropriazione indebita nel fatto dell'amministratore di società che costituendo riserve di danaro extrabilancio, con gestione occulta, le distragga in favore di terzi per finalità illecite ed estranee all'oggetto sociale e alle finalità aziendali, così procurando agli stessi un ingiusto profitto» (Cass. pen. S.U. , n. 9863/1989; Cass. pen. V, n. 5136/1997). In proposito, era stata, tuttavia, evidenziata l'incapacità strutturale di tale fattispecie a ricomprendere gli abusi del potere di amministrazione, stante l'inconciliabilità delle condotte di appropriazione e di distrazione. Ed invero, l'appropriazione, a differenza della distrazione, presuppone l'interversione del possesso, con conseguente negazione dell'altruità della cosa posseduta. Diversamente, la condotta infedele dell'amministratore che dispone dei beni sociali in una situazione di conflitto di interessi, è una condotta distrattiva e non appropriativa, tenuto conto che lo stesso non agisce uti dominus rispetto a tali beni, ma ne riconosce e ne rispetta il dominio da parte della società (Bellacosa, 61). L'atteggiamento giurisprudenziale di cui si è dato conto ha rappresentato la controprova della necessità, a lungo sottolineata dalla dottrina, di introdurre una generale fattispecie, volta a sanzionare l'infedeltà patrimoniale, anche al fine di armonizzare la legislazione penale nel contesto europeo. Invero, il nostro ordinamento non conosceva una siffatta figura incriminatrice, presente invece in altri ordinamenti, nei quali è possibile individuare due modelli di riferimento: quello tedesco in cui l'infedeltà patrimoniale – contemplata dal § 266 StGB (Untreue) – rappresenta una fattispecie comune di reato contro il patrimonio; quello francese – seguito, tra gli altri, dal codice penale spagnolo e dall'ordinamento lussemburghese – che prevede invece una figura specifica collocata nell'ambito del diritto penale societario (abuse de biens, du crédit, des pouvoirs et des voix). Con la riforma del diritto penale societario del 2002 nasce, dunque, il reato di infedeltà patrimoniale, reato proprio degli amministratori, direttori generali e liquidatori, di evento, posto a tutela del patrimonio sociale, a dolo specifico, procedibile a querela. In tema di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario, l'art. 223, comma 2, n. 1, l. fall., ha riprodotto tra i fatti-reato che possono essere causa o concausa di dissesto societario, quelli di cui all'art. 2634 c.c. La giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come, in tema di reati societari, non sussista continuità normativa tra il reato di indebita concessione di prestiti e garanzie ad amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società commerciali (art. 2624 c.c.) e il reato di infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c., introdotto con il d.lgs. n. 61 del 2002), in quanto, dall'esame delle fattispecie incriminatrici, emerge un'irriducibile divergenza degli elementi strutturali. Infatti, mentre il delitto di cui al previgente art. 2624 c.c. è reato di mera condotta e di pericolo presunto, quello di cui al vigente art. 2634 c.c. è reato di evento, richiedendo la sussistenza di un danno patrimoniale, intenzionalmente arrecato alla società, che deve essere, pertanto, previsto e legato alla condotta da un rapporto di diretta ed immediata causalità. Diverso è, inoltre, l'elemento soggettivo richiesto dalle due fattispecie, dolo specifico per il reato di cui all'art. 2634 e dolo generico per il previgente art. 2624. Ne deriva che, stante la radicale novità introdotta dall'art. 2634, è applicabile l'art. 2, comma secondo, c.p., in forza della sopravvenuta, integrale abrogazione della previgente norma incriminatrice (Cass. pen. V, n. 29268/2007). Ai fini della configurabilità del reato di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 c.c., è necessario che ricorrano i seguenti presupposti: a) un interesse dell'amministratore in conflitto con quello della società; b) la "deliberazione" di un "atto di disposizione" di beni sociali; c) un evento di danno patrimoniale intenzionalmente cagionato alla società amministrata; d) il fine specifico, in capo all'agente, di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio (Cass. pen. V, n. 40446/2019). Bene giuridico tutelatoCoerentemente all'indirizzo generale assunto dalla riforma dei reati societari, la fattispecie di infedeltà patrimoniale, lungi dal rappresentare un modello repressivo di pericolo astratto, è posta a tutela del patrimonio sociale (Musco, 206). In particolare, la norma in esame, incentrata sulla realizzazione dell'evento naturalistico del «danno patrimoniale», costituisce, nelle intenzioni del legislatore del 2002, la principale figura di tutela dell'integrità del patrimonio sociale. Nella stessa relazione di accompagnamento al decreto legislativo n. 61/2002 – al punto 1.2 – è stato precisato, infatti, che la norma nasce dall'esigenza di protezione del patrimonio sociale contro gli abusi posti in essere dai titolari dei poteri gestori (Bellacosa, 87-89). Premesso che il concetto di patrimonio muta in rapporto all'istituto giuridico o al settore normativo, di volta in volta interessato, giova evidenziare che, a fronte della teoria cd. giuridica del patrimonio, che lo identifica nel complesso dei diritti soggettivi e dei rapporti giuridici di contenuto patrimoniale appartenenti ad un soggetto (prescindendo dal fatto che le cose oggetto dell'azione criminosa rivestano o meno un valore economico), e della concezione cd. economica che, al contrario, definisce il patrimonio quale somma dei beni economicamente rilevanti facenti capo ad un soggetto (così prescindendo dal rapporto che lega il soggetto al bene, ossia che la vittima vanti o meno un diritto soggettivo), la dottrina maggioritaria ha accolto la concezione cd. mista (o economica-giuridica). Quest'ultima, pur essendo legata ai valori economici di scambio, esclude che debbano essere tutelate penalmente tutte le posizioni dotate di rilevanza patrimoniale. In particolare, a seconda della sottoteoria che si accoglie, si attribuisce rilevanza a posizioni talvolta ricollegabili allo schema del diritto soggettivo, talaltra a quelle che trovano espresso riconoscimento nell'ordinamento o, ancora, a quelle da esso non disapprovate. Analizzato in tale ultima prospettiva, dunque, il reato di cui all'art. 2634 c.c. sembra riservare la tutela penale ai soli beni che presentino un obiettivo valore economico, con la conseguenza che se il bene sociale oggetto della disposizione patrimoniale è privo di un valore economico di scambio, il reato non potrà dirsi configurato (Benussi, 111-113). Ad oggi, non vi è alcun dubbio in ordine all'inserimento della figura criminosa in esame nel novero dei delitti che offendono il patrimonio. Tuttavia, durante i lavori preparatori lo stesso legislatore sembrava aver valutato la possibilità di includere nell'oggetto di tutela, oltre al patrimonio sociale, anche il dovere di correttezza dei titolari del potere gestorio; correttezza, che, intesa in termini oggettivi, si tradurrebbe nel dovere di fedeltà degli amministratori verso la società. L'eventualità di elevare la fedeltà a rango di bene giuridico protetto dalla norma è stata, però, sin da subito abbandonata. Invero, come anticipato, la scelta manifestata nella Relazione governativa è quella di orientare la tutela verso il patrimonio sociale, piuttosto che alla salvaguardia del solo dovere di fedeltà degli amministratori. La fedeltà non può assurgere ad oggetto di tutela, nemmeno in termini di bene strumentale, e ciò sia perché consiste in un concetto normativo che esprime il contenuto di un dovere – e come tale, tendendo alla tutela di un interesse per cui è stata configurata, non può essere considerata essa stessa interesse – sia in quanto entità non afferrabile in modo tangibile, a causa della sua essenza spirituale (Bellacosa, 88-89). Quanto ai titolari del bene giuridico tutelato, è stato evidenziato come la tutela del patrimonio sia circoscritta al solo ente societario, nell'ambito del quale si è verificato l'episodio criminoso. La dottrina, pressoché unanime, ritiene, infatti, che nell'ipotesi descritta al primo comma, l'interesse tutelato è quello della società alla conservazione ed all'incremento del proprio patrimonio, ossia l'interesse all'ottimizzazione, secondo i criteri di efficienza ed economicità, della gestione delle proprie risorse patrimoniali. È il patrimonio della società gestita ad essere leso dal compimento, o dal concorso nella delibera di atti di disposizione di beni sociali e non quello dei soci che, invece, ricevono solo una tutela indiretta, in ragione del loro diritto di partecipare al patrimonio derivante dalla liquidazione (Musco, 206). Ragionando diversamente si finirebbe per determinare una inaccettabile commistione tra i concetti di danneggiato e di persona offesa dal reato (Musco,207) Di contrario avviso, invece, la giurisprudenza di legittimità la quale, pur riconoscendo che la nuova fattispecie penale della infedeltà patrimoniale, di cui all'art. 2634 c.c., è posta a tutela del patrimonio sociale – e che, quindi, parte lesa di tale reato è la società – ha precisato che in realtà la condotta dell'amministratore infedele è diretta a danneggiare principalmente i soci o i quotisti della stessa, i quali a causa di tale infedele attività, vedono depauperarsi il proprio patrimonio. Ne consegue, dunque, la legittimazione alla proposizione della querela, per il reato di infedeltà patrimoniale dell'amministratore, prevista dal vigente testo dell'art. 2634 c.c., introdotto dal d.lgs. n. 61 del 2002, spetta non solo alla società nel suo complesso, ma anche – e disgiuntamente – al singolo socio (Cass. pen. V, n. 37033/2006). In particolare, ha evidenziato la S.C., che, nel caso di obbligazioni sorte nel periodo in cui le azioni risultano essere appartenute ad una sola persona, questa risponde illimitatamente e se il legislatore ha giustamente ritenuto che l'unico azionista di una società a responsabilità limitata dovesse avere dei profili di responsabilità specifici e peculiari correlati alla sua posizione di dominus assoluto della società, è doveroso riconoscere all'unico azionista poteri specifici anche quando è necessario difendere la società da aggressioni altrui. Inoltre, sarebbe davvero incomprensibile sostenere che in una fattispecie quale quella di cui all'articolo 2634 c.c., contestata, il diritto di querela spetti esclusivamente all'amministratore della società, legale rappresentante della stessa, quando proprio della sua infedeltà si deve discutere. Le successive pronunce si collocano nella medesima scia e segnatamente confermando il principio, secondo cui la legittimazione alla proposizione della querela per il reato di infedeltà patrimoniale spetta, oltre che alla società, anche – e disgiuntamente – al singolo socio (Cass. pen. II, n. 24824/2009; Cass. pen. V, n. 35080/2014), con la precisazione che deve essere senz'altro esclusa la qualifica di persona offesa dal reato ai creditori sociali (Cass. pen. V, n. 39506/2015). Quanto, invece, all'interesse protetto dalla fattispecie di cui al secondo comma dell'art. 2634 c.c. – ossia di infedeltà sui patrimoni gestiti – persona offesa del reato deve, invece, intendersi il terzo danneggiato al quale, pertanto, spetterà il diritto di querela (Musco, 207). In tal caso, infatti, la condotta delittuosa va ad incidere solo sul bene del terzo, mentre il patrimonio della società che possiede o amministra detti beni non riceve un pregiudizio diretto dalla condotta infedele dei soggetti apicali. La società potrà ricevere un pregiudizio diretto solo nei limitati casi in cui i predetti beni dei terzi da essa posseduti siano di natura fungibile e non individuabile, come ad esempio il danaro (Foffani, 356). I soggetti attiviL'infedeltà patrimoniale, così come gran parte dei reati societari, è costruita come reato proprio. Essa richiede, infatti, nel soggetto destinatario del precetto penale il possesso di determinate qualifiche connesse a specifiche posizioni (e funzioni) collocate al vertice della struttura aziendale. La selezione dei soggetti attivi – amministratori, direttori generali e liquidatori di società – risponde alla scelta legislativa di circoscrivere la repressione penale alle forme di abuso del patrimonio sociale commesse nell'ambito di poteri gestori, e dunque, da soggetti che, in misura più o meno ampia, hanno la concreta possibilità di disporre dei beni sociali. Proprio in tale ottica si spiega l'esclusione dal novero dei soggetti attivi dei sindaci, i quali, non potendo disporre dei beni sociali, potranno essere chiamati a rispondere di infedeltà patrimoniale solo a titolo di concorso (Antolisei, 303). Oltre ai possibili concorrentiex art. 110 c.p., la sfera dei potenziali destinatari del reato in commento ricomprende, tra l'altro, anche i soggetti che sono tenuti a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata (ossia i componenti del consiglio di gestione, nelle società di capitali con sistema dualistico, ovvero i componenti del consiglio di amministrazione nelle società con sistema monistico), o chi, in assenza di un formale atto di nomina, valido ed efficace, esercita di fatto, in modo continuativo e significativo, i poteri di gestione dell'impresa. Ciò alla luce della clausola di «equiparazione generale» di cui al riformato art. 2639 c.c. in tema di «estensione delle qualifiche soggettive» (Bellacosa, 82). Per l'individuazione della portata dei due requisiti della «continuità» e «significatività» dell'esercizio in fatto dei poteri gestori dell'impresa, vanno richiamate le nozioni elaborate dalla giurisprudenza di legittimità in tema di amministratore di fatto. Sul punto, la Suprema Corte ha evidenziato che la «significatività» e «continuità» non comportano necessariamente l'esercizio di «tutti» i poteri propri dell'organo di gestione, ma richiedono l'esercizio di un'apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale, concetti questi che richiedono, in definitiva, l'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti, ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare. L'accertamento degli elementi sintomatici di tale gestione o cogestione societaria costituisce oggetto di apprezzamento di fatto che è insindacabile in sede di legittimità, se sostenuto da motivazione congrua e logica (Cass. pen. V, n. 22413/2013; Cass. pen. V, n. 8479/2016). La presenza di un amministratore di fatto, in particolare, non esclude la responsabilità dell'amministratore di diritto, il quale risponderà a titolo di concorso ex art. 110 c.p., ove abbia agito in accordo con l'amministratore di fatto, ai sensi dell'art. 40 cpv. c.p., omettendo di vigilare sul concreto operato di quest'ultimo, consentendogli di perpetrare il delitto (Benussi, 152). Va, inoltre, rilevato che la previsione della duplice ed alternativa condotta tipizzata dal reato in commento – comprensiva sia del compimento di atti di disposizione di beni sociali, che del concorso nella deliberazione di tali atti – permette di annoverare nella cerchia dei soggetti attivi anche la figura dell'amministratore unico. L'estensione dell'incriminazione a tale soggetto colma un vuoto di tutela rispetto al previgente art. 2631 c.c. che, senza alcuna apparente, valida motivazione, non risultava applicabile nei confronti dell'amministratore unico o delegato (Musco, 216). Quanto alla configurabilità della responsabilità penale di quei soggetti che hanno agito all'interno dell'organo collegiale, concorrendo a deliberare l'atto di disposizione pregiudizievole, si evidenzia che la fattispecie di infedeltà patrimoniale, richiedendo una partecipazione diretta ed intenzionale dell'amministratore (che versi in una situazione di conflitto) al compimento dell'atto deliberativo, potrà ritenersi integrata dal singolo componente dell'organo collegiale solo nei casi in cui l'atto di disposizione collegialmente deliberato sia stato il risultato di una scelta consapevole ed intenzionalmente mirata a provocare gli eventi dannosi che ne sono derivati. Diversamente, la responsabilità va esclusa nelle ipotesi di mera partecipazione alla delibera, o per omesso impedimento dell'evento dannoso. È, dunque, necessario che colui che esprime il voto nel collegio voglia intenzionalmente procurare il danno patrimoniale alla società, e che l'evento si sia effettivamente verificato a seguito della delibera. Ne consegue, pertanto, che se per taluno dei componenti dell'organo collegiale manca o non vi è prova della sussistenza del requisito della volontà intenzionale, egli non risponderà del reato (Benussi 161). Giova inoltre evidenziare che, essendo l'infedeltà patrimoniale un reato monosoggettivo, ai fini della sua integrazione non è necessaria alcuna forma di partecipazione del destinatario o beneficiario dell'atto di disposizione. Tuttavia, qualora tale soggetto, consapevole del rapporto conflittuale dell'autore dell'illecito con la società da lui gestita, abbia determinato, istigato o agevolato l'esecuzione del reato, potrà rispondere a titolo di concorso (Santoriello, 254). Lo schema del concorso dell'extraneus nel reato proprio potrebbe poi essere utilizzato anche per dare rilevanza alla condotta di colui che abbia amministrato di fatto la società, ma in difetto dei due requisiti richiesti per l'operatività della clausola di estensione della punibilità, ossia la «continuità» e la «significatività» (Paliero, 41). La giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come, ai fini della configurabilità del concorso dell' extraneus nel reato «proprio» di cui all'art. 2634 c.c., non sia sufficiente che la condotta di questi sia stata anche solo lato sensu ausiliatrice rispetto all'azione dell'autore qualificato, ma occorre che in essa sia ravvisabile un quid pluris, ricavabile dalle modalità e circostanze del fatto, ovvero dai rapporti personali intercorsi con le parti, che dimostri concretamente il raggiungimento di un'intesa con il concorrente qualificato o, quanto meno, una pressione diretta a sollecitarlo o persuaderlo al compimento dell'atto illecito (Cass. pen. III, n. 35767/2017). L'operatività della norma sull'infedeltà patrimoniale è, poi, limitata alla gestione delle società commerciali. Tale scelta allontana, dunque, la figura criminosa in commento da quella rispettivamente prevista nell'ordinamento tedesco che, al contrario, conosce una fattispecie generale inserita nel più ampio contesto dei reati codicistici contro il patrimonio (Militello, 916). Sul punto, la S.C. ha riconosciuto la possibilità che il reato di infedeltà patrimoniale si applichi anche alle società cooperative, in mancanza di una esplicita disposizione di senso contrario. In particolare, è stato evidenziato, come la giurisprudenza di legittimità si fosse già espressa in tal senso, sebbene con riferimento all'ambito di applicazione dell'illecito amministrativo previsto dall'art. 2631 c.c. (Cass. pen. V, n. 6189/2012). Il presupposto della condotta: il conflitto di interessi.Il conflitto di interessi rappresenta il nucleo intorno al quale gravita la fattispecie di infedeltà patrimoniale. Nonostante la situazione conflittuale assuma rilevanza centrale nella delineazione delle modalità di lesione del bene tutelato, l'infedeltà patrimoniale non costituisce un reato volto a sanzionare un mero comportamento infedele di chi agisca in situazione di conflitto d'interessi, bensì è diretto a tutelare il patrimonio sociale, la cui lesione costituisce l'evento del reato. La situazione conflittuale costituisce il mero presupposto della condotta (Aldrovandi, 187). Con l'esplicita previsione della necessaria sussistenza di un conflitto di interessi, il Legislatore ha voluto evitare che ad essere represso fosse qualunque atto dispositivo compiuto dai soggetti apicali rivelatosi ex post dannoso per gli interessi della società (o, nella fattispecie di cui al comma 2, per gli interessi dei terzi proprietari dei beni gestiti dalla società). Si è, al contrario, preferito limitare l'intervento penale ai soli comportamenti che traggono significato da una preesistente ed obiettiva situazione di conflittualità, costituendo questa forma di abuso quella più pericolosa fra le condotte di infedeltà (Benussi, 176). Il conflitto di interessi quale presupposto della condotta illecita, risponde all'esigenza di circoscrivere il fatto punibile entro i limiti di conformità ai principî di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, delimitando a priori i comportamenti tipici ed al contempo esprimendone il disvalore (Bellacosa, 93-94). Più specificamente il conflitto di interessi costituisce, secondo altra parte della dottrina, un elemento dell'infedeltà patrimoniale che assolve un ruolo fondamentale nell'equilibrio strutturale dell'intera figura delittuosa (Lionetti, 237). All'interno della fattispecie, infatti, il conflitto di interessi rappresenta l'unico elemento di natura meramente oggettiva in grado di attribuire un disvalore alla fattispecie incriminatrice. Ed invero, sia la condotta di disposizione del patrimonio della società o di terzi, che l'evento di danno patrimoniale, non esprimono di per sé alcun contenuto lesivo, essendo essi riconducibili alla fisiologica gestione dell'impresa. Il disvalore trova, per il resto, i suoi dati caratterizzanti in elementi di natura soggettiva, quali, da una parte, il fine di ingiusto profitto o vantaggio e, dall'altra, l'intenzionalità del danno patrimoniale (Aldrovandi, 187). Parte della dottrina estende alla fattispecie in commento gli stessi risultati interpretativi raggiunti con riferimento all'abrogato delitto di conflitto di interessi, atteso che la formula impiegata nell'art. 2634 per la descrizione della situazione di conflitto («avendo un interesse in conflitto con quella della società»), coincide con quella già presente nel previgente art. 2631 c.c. Il dato di partenza ancora oggi valido è che il conflitto si compone di due diversi interessi collidenti tra loro, che si trovano in una situazione di obiettivo antagonismo e che non possono essere pienamente e contestualmente soddisfatti. Trattasi, da un lato, dell'interesse sociale, che secondo la teoria c.d. contrattualistica consiste nell'interesse comune dei soci al conseguimento di un profitto da dividere, e dall'altro dell'interesse extrasociale, corrispondente, invece, in quello degli amministratori, direttori generali e liquidatori, ovvero di terzi, al conseguimento di una propria utilità. Quanto alla natura di tali interessi, mentre alcun dubbio vi è sulla circostanza che quello sociale debba essere necessariamente patrimoniale (l'art. 2634, infatti, richiede la causazione del danno patrimoniale), non del tutto pacifica risulta essere la natura dell'interesse extrasociale. Infatti, alla luce della nuova disposizione di cui all'art. 2634 – che per la composizione del dolo specifico fa esplicito riferimento alla finalità di «altro vantaggio», oltre che a quella di «ingiusto profitto» – la dottrina maggioritaria è giunta ad ammettere la possibilità che i soggetti attivi agiscano per il perseguimento di utilità di carattere anche non economico (Foffani, 367). Ai fini della sussistenza del conflitto di interessi è, poi, necessario che vi siano ulteriori elementi individuati dalla dottrina in relazione all'abrogato art. 2631 c.c., ma estendibili alla fattispecie de qua. Si tratta di quegli «indici tipici» consistenti nell' obiettività (che impedisce di attribuire rilevanza a quei conflitti di carattere meramente psicologico e soggettivo), effettività (che impone di prendere in considerazione la natura e le modalità del singolo e concreto atto di disposizione patrimoniale), ed attualità (la quale impone che il conflitto di interessi sussista al momento in cui viene posta in essere la condotta tipica in modo da non attribuire rilievo a conflitti verificatisi successivamente) (Lionetti, 238). Presupposto necessario ai fini della configurabilità del delitto è, in definitiva che il soggetto attivo abbia un interesse (extrasociale) in conflitto con quello della società, avente contenuto economico oggettivamente valutabile, attuale, effettivo, suscettibile di ripercuotersi in una prospettiva di vantaggio patrimoniale (Antolisei, 307). In ordine ai rapporti tra il conflitto di interessi – quale presupposto, ovvero elemento della condotta criminosa punita dall'art. 2634 – ed il previgente art. 2631 c.c., va evidenziato che per effetto della riforma della disciplina delle società di capitali di cui al d.lgs. n. 6/2003, il conflitto di interessi non rappresenta più, come avveniva in passato, il nucleo caratterizzante anche la tutela civilistica apprestata dall'art. 2391. Attualmente, infatti, la norma citata (rubricata «interessi degli amministratori» in luogo di «conflitto d'interessi») impone all'amministratore l'obbligo «di dare notizia» non dell'eventuale «interesse in conflitto con quello della società», bensì, più in generale, «di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società», precisandone la natura, i termini, l'origine e la portata; nel caso si tratti di amministratore delegato, invece, è previsto che lo stesso dovrà altresì astenersi dal compiere l'operazione, investendone l'organo collegiale (Adrovandi, 187). Nella nuova fattispecie, inoltre, non vi è l'espressione riferita al conflitto d'interessi «per conto proprio o di terzi». In proposito, è stato evidenziato che la soppressione della locuzione sembra trovare la propria spiegazione nella necessità di evitare una superflua ripetizione alla luce della struttura del dolo specifico, il quale, potendo essere rivolto a perseguire il profitto o il vantaggio di un terzo, chiarisce con evidenza che anche la situazione di conflitto d'interessi, dalla quale prende le mosse la condotta del soggetto attivo, può riguardare il terzo (Musco, 213). La giurisprudenza di legittimità, sul punto, ha evidenziato che la fattispecie previgente disciplinante il conflitto di interessi non è stata riprodotta, a seguito dell'introduzione del d.lgs. n. 61/2002, nel vigente art. 2631 c.c. («omessa convocazione dell'assemblea»), ed è stata solo in parte riprodotta dal vigente art. 2634 che incrimina la condotta di infedeltà patrimoniale (Cass. pen. V, n. 8673/2003). La nuova fattispecie di reato si colora, dunque, dell'indispensabile «nesso di causalità» che deve intercorrere tra l'atto dispositivo, il danno alla società e l'ingiusto profitto o vantaggio del disponente o di altri, derivante dalla condotta gestoria, finalisticamente orientata a soddisfare un interesse antagonista a quello della società, nesso questo, in mancanza del quale, non vi sarà delitto. In tal modo risulta mutata la natura giuridica del reato: da reato di pericolo a quello di evento di danno. L'infedeltà patrimoniale tipizza, in sostanza, la necessaria relazione tra un preesistente conflitto di interessi, con i caratteri dell'attualità e dell'obiettiva valutabilità, e le finalità di profitto o altro vantaggio dell'atto di disposizione, finalità che si qualificano in termini di ingiustizia per la proiezione soggettiva del preesistente conflitto (Cass. pen. II, n. 40921/2005). In sostanza, il legislatore ha creato un sistema caratterizzato da un doppio livello di selettività: a monte, ancorando la pericolosità dei comportamenti alla sussistenza di una situazione di conflitto di interessi e, a valle, richiedendo che dalla specifica operazione compiuta sia derivato un danno patrimoniale alla società. Il perno intorno al quale ruota l'incriminazione è oggi costituito dall'atto di disposizione patrimoniale dannoso per l'interesse sociale e dunque il reato, sotto il profilo oggettivo, richiede non più solo l'esistenza del conflitto di interessi tra soggetto attivo e società (occorre che esso sia oggettivamente valutabile, effettivo e reale, nonché attuale), ma appunto il compimento di un atto di disposizione dei beni sociali da parte dell'agente, dannoso per la società. In proposito, il legislatore ha rinunciato a punire in via anticipata l'esistenza di una situazione di conflitto, con la conseguenza che è penalmente rilevante solo la disposizione del patrimonio attuata in modo svantaggioso e quindi contrario all'interesse della società (Cass. pen. V, n. 22495/2015). Da quanto detto consegue che nell'ipotesi in cui il reato contestato all'imputato sia quello di cui al previgente art. 2631 c.c. e non siano ravvisabili gli estremi della fattispecie criminosa di cui al vigente art. 2634, il giudice dovrà assolvere il predetto e non potrà ordinare la trasmissione degli atti all'Autorità amministrativa (Cass. pen. V, n. 8673/2003). Ai fini della configurabilità del reato di infedeltà patrimoniale ex art. 2634 c.c., è necessario un antagonismo di interessi effettivo, attuale e oggettivamente valutabile tra l'amministratore agente e la società, a causa del quale il primo, nell'operazione economica che deve essere deliberata, si trova in una posizione antitetica rispetto a quella dell'ente, tale da pregiudicare gli interessi patrimoniali di quest'ultimo, non essendo sufficienti situazioni di mera sovrapposizione o commistione di interessi scaturenti dalla considerazione di rapporti diversi ed estranei all'operazione deliberata per conto della società (Cass. pen. II n. 55412/2018). La condotta esecutiva e la nozione di «atto di disposizione»La condotta esecutiva punita dal delitto di infedeltà patrimoniale può estrinsecarsi nel compimento di atti di disposizione dei beni sociali o, alternativamente, nella partecipazione alla deliberazione relativa ai medesimi atti dispositivi. È evidente, dunque, che il reato può ritenersi configurato sia a carico di un soggetto monocratico (quale l'amministratore unico) che di un organo collegiale. Ciò a differenza di quanto previsto dalla previgente fattispecie delittuosa di cui all'art. 2631 c.c. la quale, incentrandosi sulla mancata astensione della partecipazione alle delibere del consiglio o del comitato esecutivo, era applicabile nei soli confronti degli organi collegiali (Masullo, 1307). Il Legislatore non ha inserito fra gli elementi del fatto tipico del reato di cui all'art. 2634, «l'abuso dei poteri» (Musco, 216), ma la mancata espressa menzione nella formulazione della norma dell'abuso di potere, non impedisce di incentrare il disvalore del fatto proprio sull'abuso della posizione personale che lega il soggetto apicale alla società; le condotte punite dalla disposizione, infatti, delineano proprio lo sviamento a danno della società dell'esercizio del potere di gestire il patrimonio del soggetto passivo (Lionetti, 239). Quanto alla nozione di «atto di disposizione», essa ricomprende la condotta con la quale gli amministratori, i direttori generali ed i liquidatori, esercitano il potere di disporre giuridicamente delle cose, nei limiti dei poteri stabiliti dalla legge e dall'autonomia negoziale. Non rileva, dunque, in che modo venga mutata la funzione economica della res, e cioè se mediante la costituzione di un nuovo rapporto, mediante il trasferimento, la modifica o l'estinzione di un rapporto già esistente, o se mediante la semplice dispersione del bene. Ad assumere rilevanza è, infatti, l'atto di disposizione deliberato dal soggetto apicale, determinante un'effettiva diminuzione del patrimonio sociale – a prescindere dalla sua forma (che può essere la più disparata) e dalla rilevanza civilistica – e che sia contrassegnato, a monte, dalla sussistenza di un conflitto di interessi fra l'agente e la società da lui gestita (Benussi, 208). Secondo la giurisprudenza di legittimità integra il delitto di infedeltà patrimoniale la condotta dell'amministratore unico di una società, il quale venda un bene di proprietà di quest'ultima ad un soggetto in relazione al quale sussiste conflitto di interessi (nella specie, il padre) rispetto al reale valore di mercato del bene (Cass. pen. V, n. 22495/2015). patrimoniale a carico del presidente del consiglio di amministrazione di una società a partecipazione pubblica che aveva acquistato, a titolo personale, un podere a condizioni particolarmente vantaggiose dalla controparte dell'operazione commerciale deliberata per conto della società (Cass. pen. II n. 55412/2018). E' stata esclusa, altresì, la configurabilità del reato in questione nei confronti di amministratori di fatto di una società le cui condotte materiali, piuttosto che concretizzarsi in uno specifico "atto di disposizione" di beni sociali, si erano sostanziate nella reiterata e sistematica distrazione di crediti e di incassi, peraltro non annotati nelle scritture contabili (Cass. pen. V, n. 40446/2019). Controversa è la questione relativa alla possibilità di annoverare tra gli atti di disposizione dei beni sociali anche l'assunzione di obbligazioni o oneri a carico del patrimonio sociale: in proposito una parte della dottrina, pur riconoscendo che una simile possibilità avrebbe l'effetto di colmare un vuoto di tutela, sostiene la soluzione negativa sul rilievo che tale estensione si tradurrebbe in un'inammissibile applicazione analogica della norma, la quale, al contrario, con l'espressione «atti di disposizione» intende fare riferimento ai soli atti direttamente dispositivi di determinati beni sociali e non anche a quelli dai quali possono derivare conseguenze sull'intero patrimonio sociale (Aldrovandi, 193). Di contrario avviso, invece, è l'orientamento dottrinario che accoglie la soluzione positiva, osservando che, poiché il patrimonio sociale deve sopportare il relativo costo, tali obbligazioni, sia pur indirettamente, si traducono pur sempre in una disposizione di beni sociali (Militello, 915). Sicché, l'assunzione di un'obbligazione, oltre a poter esporre la società ad un pregiudizio economico, nella grande maggioranza dei casi costituisce l'imprescindibile strumento giuridico per il compimento di un atto di disposizione. Questa interpretazione, inoltre, risulta coerente con lo stesso scopo dell'incriminazione, introdotta dal legislatore proprio per colmare il vuoto di tutela che il delitto di appropriazione indebita lasciava scoperto: alla nozione di appropriazione, infatti, non sempre potevano essere ricondotte quelle operazioni di gestione infedele poste in essere da amministratori in conflitto di interesse, mediante atti distrattivi realizzati attraverso l'assunzione di obbligazioni a carico del patrimonio sociale (Benussi, 212). Altra questione dibattuta è quella relativa alla possibilità di configurare il reato in commento, mediante condotte infedeli di natura omissiva che, però, abbiano cagionato un danno alla società. La dottrina maggioritaria (tra gli altri, Musco, 217), accogliendo un'interpretazione restrittiva della norma, esclude la rilevanza penale di queste condotte ai fini dell'integrazione della fattispecie di cui all'art. 2634 c.c. Tale orientamento giunge alla suddetta conclusione anche sulla scorta delle seguenti argomentazioni. In primo luogo, si evidenzia sia la portata letterale della norma che fa indiscutibilmente riferimento ad una condotta attiva, sia la circostanza che la varietà e la genericità degli obblighi di condotta gravanti sui destinatari del precetto impongono di non ampliare i limiti di operatività della fattispecie; in secondo luogo, si invoca il raffronto con la disposizione di cui all'art. 2635 c.c., che sanziona espressamente, sia il compimento di atti di disposizione, sia la loro omissione (Bellacosa, 102). Al contrario, secondo un altro orientamento, l'atto di disposizione può essere compiuto dall'amministratore anche astenendosi dal realizzare comportamenti dovuti, necessari per incrementare il patrimonio sociale. Tale indirizzo fa leva sul significato letterale della formula «compimento di atti di disposizione», rilevando come essa non possieda alcuna pregnanza di significato tale da risultare compatibile con le sole condotte attive (Zannotti, 264); inoltre, in considerazione della clausola di equivalenza di cui all'art. 40 cpv. c.p., si osserva come omettere di agire in presenza di un obbligo di impedire un pregiudizio all'interesse societario, equivalga a concorrere a realizzare il pregiudizio vietato qualora si partecipi alla realizzazione dannosa (Santoriello, 260). Secondo la giurisprudenza di legittimità ai fini della configurabilità del reato di infedeltà patrimoniale ex art. 2634, può assumere, invece, rilievo anche l'inerzia dell'amministratore, quando sia tale da determinare la compromissione dell'integrità del patrimonio sociale (Cass. pen. V, n. 37932/2017). Controversa è, infine, la possibilità di ricomprendere tra gli «atti di disposizione» di cui all'art. 2634 c.c., quelli che incidono sull'organizzazione della società, quali aumento di capitale, fusione o scissione societaria. All'orientamento che sostiene che simili operazioni non rientrino della descrizione della condotta tipica in quanto non hanno alcuna incidenza sul patrimonio sociale (Bellacosa, 240; Aldrovandi, 194), si contrappone quella dottrina che, al contrario, rileva come nella prassi possono configurarsi ipotesi nelle quali le suddette operazioni sociali vengono intraprese dagli amministratori per il perseguimento di un interesse extrasociale e conflittuale (Foffani, 352). In merito alla interpretazione della nozione «atti di disposizione» di cui all'art. 2634, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che la tesi secondo cui debba considerarsi estranea alla fattispecie del delitto di infedeltà patrimoniale l'assunzione di obbligazioni gravanti sul patrimonio societario e, specificamente, il rilascio di garanzia personale a favore di terzi, è il risultato di una lettura eccessivamente formalistica dell'inciso «atto di disposizione dei beni sociali». Tale inciso, descrivendo la condotta illecita sottesa all'art. 2634, contiene notazione che, soprattutto se riguardata con la finalità perseguita dal legislatore, allude ad ogni atto di restrizione della sfera patrimoniale e, pertanto, qualsiasi atto negoziale foriero di pregiudizio, anche se privo di immediati effetti. Ai fini della configurabilità del reato di bancarotta impropria da reato societario ex art. 2634 c.c. è necessario che gli atti di frode ai creditori siano espressione del potere di amministrazione, sia pure esercitato in una situazione di conflitto con l'interesse della società e con le finalità descritte dalla norma, mentre, invece, deve ritenersi sussistente il diverso reato di cui all'art. 223, comma primo, legge fall. quando siano realizzati atti di disposizione dei beni societari caratterizzati, secondo una valutazione "ex ante", da manifesta ed intrinseca fraudolenza, in assenza di qualsiasi interesse per la società amministrata (Cass. pen V, n. 2517/2020). Restano, quindi, al di fuori della sfera punitiva dell'art. 2634 gli atti non riconducibili ai poteri di gestione dell'esponente societario (ricadenti piuttosto, con il concorso degli ulteriori requisiti, nella sfera punitiva dell'art. 646 c.p.) e dunque non soltanto gli atti meramente predatori del patrimonio sociale ma anche quelli che sono estranei all'oggetto sociale, inteso quest'ultimo non già soltanto nella sua formale previsione statutaria, ma quale programma imprenditoriale capace di perseguire l'attività sociale prescelta e concordata dai soci. È stato ritenuto integrante il delitto di appropriazione indebita, e non quello di infedeltà patrimoniale previsto dall'art. 2634, l'erogazione di denaro compiuta dall'amministratore di una società di capitali in violazione delle norme organizzative di questa e per realizzare un interesse esclusivamente personale, in assenza di una preesistente situazione di conflitto d'interessi con l'ente, senza che possa rilevare l'assenza di danno per i soci (Cass. pen. II, n. 3397/2012). Inoltre, poiché integrano il reato di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 c.c. gli atti dispositivi posti in essere dall'agente in conflitto d'interessi con la società e idonei a cagionare un danno per quest'ultima, non possono essere riqualificate nel reato di infedeltà patrimoniale le condotte di peculato poste in essere dall'amministratore di una società incaricata della riscossione dei tributi, trattandosi di appropriazioni intrinsecamente illecite e contrarie all'interesse societario, non riconducibili alla nozione di conflitto di interesse richiesto dall'art. 2634 c.c. (Cass. pen. VI, n. 50795/2019). Quanto alla condotta di chi concorra a deliberare atti di disposizione, la struttura complessiva della fattispecie impone di interpretare la locuzione riferendola esclusivamente a chi apporti un contributo causale effettivo all'adozione della delibera. Sono state criticate, infatti, quelle interpretazioni formalistiche elaborate in relazione al previgente art. 2631 c.c., che attribuivano rilevanza alla mera partecipazione, anche se con voto contrario, alla delibera. L'utilizzo del verbo «concorrere», infatti, se da un lato richiama la necessità di un contributo positivo all'adozione della delibera, dall'altro rinvia alla nozione di «contributo concorsuale», sviluppata in relazione al concorso eventuale di persone, in forza del quale ad assumere rilevanza è ogni comportamento che abbia agevolato l'adozione della delibera dell'atto dispositivo, qual è in particolare il voto a favore della stessa, anche se non sia però risultato decisivo. Si osserva, infine, che tra l'atto di disposizione compiuto individualmente o la delibera, da una parte, e il danno patrimoniale patito dalla società, dall'altra, dovrà intercorrere un vero e proprio nesso di causalità condizionale, da accertare con i criteri elaborati da dottrina e giurisprudenza in relazione ai reati di evento (Aldrovandi, 195). L'oggetto materiale della condotta: i beni socialiL'oggetto materiale della condotta di cui al primo comma dell'art. 2634, è rappresentato dai beni sociali, e cioè dai beni dell'ente collettivo (mobili o immobili, materiali o immateriali), suscettibili di valutazione economica e inseriti nello stato patrimoniale. La condotta descritta al secondo comma, invece, ha ad oggetto beni di terzi, posseduti o amministrati dalla società, non per una accidentale situazione di fatto, ma in forza di un rapporto contrattuale. La dottrina maggioritaria opta per un'interpretazione ampia del termine beni sociali, ricomprendendovi tutte le componenti attive del patrimonio sociale. A rilevare è, dunque, il compimento di qualsiasi atto di disposizione di qualunque bene, purché suscettibile di arrecare un nocumento al patrimonio sociale. Vi rientrano, pertanto, le immobilizzazioni (materiali, immateriali, finanziarie), l'avviamento, le rimanenze di magazzino, i lavori in corso su ordinazione, i crediti e le disponibilità liquide (Benussi, 220). Quanto all'avviamento commerciale, la giurisprudenza di legittimità si mostra alquanto cauta nel riconoscere rilevanza penale alla distrazione dell'avviamento in sè, operando delle precisazioni. Pur riconoscendo, infatti, che l'avviamento, al pari dei rapporti di lavoro e della tecnologia costituiscono beni economicamente apprezzabili e, come tali, possono essere oggetto di distrazione, poiché nel concetto di beni, rientrano tutti gli elementi del patrimonio dell'imprenditore, compresi non soltanto i beni suscettibili di utilizzazione immediata, ma anche i beni strumentali e persino quelli futuri (Cass. pen. V, n. 8598/1982), ha, poi, più volte evidenziato che ai fini della configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta è necessario che la distrazione sia riferita a rapporti giuridicamente ed economicamente valutabili, con la conseguenza che non può costituire oggetto di distrazione l'avviamento commerciale di un'azienda (Cass. pen. V, n. 9813/2006), ove questo venga identificato come prospettiva di costituire rapporti giuridici solo teoricamente immaginabili (Cass. pen. V, n. 26542/2014). In tema di bancarotta fraudolenta, non è suscettibile di distrazione l'avviamento commerciale dell'azienda se, contestualmente, non sia stata oggetto di disposizione anche l'azienda medesima o quanto meno i fattori aziendali in grado di generare l'avviamento (Cass. pen. V, n. 5357/2017). La Corte nell'esprimere tali principi, ha ritenuto configurabile il reato di bancarotta per distrazione dell'avviamento in un caso in cui l'imputato aveva di fatto trasferito alla società della figlia l'azienda con tutti i suoi elementi positivi – clientela, locali, autorizzazione di somministrazione, attrezzature ecc. – determinanti l'avviamento. Inoltre, ha precisato ancora la giurisprudenza di legittimità, che non può costituire oggetto di distrazione l'avviamento commerciale dell'azienda ove questo venga identificato con fattori aziendali inidonei a rappresentare una posta attiva di bilancio (Cass. pen. V, n. 31677/2017). Per l'integrazione del reato di cui al primo comma non è necessario che il bene sociale oggetto di disposizione sia di «proprietà» della società, bastando un diritto reale limitato; in ogni caso rileva anche un atto dispositivo ridotto o modificato, purché idoneo a cagionare un danno patrimoniale all'ente. L'atto di diposizione potrà inerire, quindi, non solo al distacco definitivo del bene dall'attivo sociale, ma anche alla perdita economica del suo godimento (Antolisei, 313). Ai fini dell'integrazione della fattispecie in commento potranno rilevare, inoltre, anche atti di disposizione di beni sociali sottoposti a termine o a condizione, nonché atti di diposizione di beni futuri suscettibili di valutazione certa e di tutela attuale. Al contrario, non potendo essere inserite fra le attività dello stato patrimoniale, sono da ritenersi estranee alla fattispecie di infedeltà patrimoniale le aspettative di mero fatto o le possibili utilità. Esse, infatti, pur se giuridicamente ed economicamente suscettibili di valutazione, non rappresentano un bene sociale sotto forma di credito iscrivibile in bilanci e la loro perdita potrà configurare solo un'ipotesi di danno concreto ed attuale, suscettibile di risarcimento mediante la ripetizione dell'occasione perduta o per equivalente in danaro (Benussi, 221). Evento di danno e momento consumativoIl delitto di infedeltà patrimoniale è strutturato secondo lo schema dei reati con evento di danno. Esso, infatti, coerentemente alle direttive di riforma del diritto penale societario, e a differenza della previgente fattispecie di conflitto di interessi – reato di pericolo – richiede come requisito costitutivo esplicito che l'atto compiuto o l'operazione deliberata in una situazione di conflitto di interessi abbia provocato un danno effettivo alla società o ai terzi che alla stessa abbiano affidato i loro beni. La verificazione di tale evento dannoso, che il giudice sarà tenuto ad accertare, segna l'iter criminis del reato ed il suo momento consumativo (Lionetti, 241). Il legislatore, strutturando la fattispecie in commento come reato di evento, ha abbandonato i vecchi modelli di stampo formalistico e di tutela anticipata, per ancorare la fattispecie criminosa ad una solida base oggettiva, ossia il danno che svolge un ruolo selettivo dei comportamenti penalmente rilevanti (Musco, 218). Con tale previsione, dunque, si è voluto scongiurare il rischio di una eccessiva criminalizzazione dell'iniziativa economica, differenziando i rischi di impresa leciti da quelli meritevoli di repressione in sede penale, in quanto connessi ad infedeltà gestionali (Maccari, 156; Musco 218). Il danno, nella fattispecie in commento, va inteso nel senso di perdita di ricchezza, ossia come perdita economico-patrimoniale e deve costituire l'effetto delle condotta, quindi un evento di tipo naturalistico (Antolisei, 313). Controversa, inoltre, la possibilità di includere nella nozione di danno da infedeltà patrimoniale anche il lucro cessante. Una parte della dottrina fa discendere l'impossibilità di una simile inclusione dalla ricostruzione del danno in termini rigorosamente economici e dalla premessa che la condotta infedele può ricadere solo su «beni sociali», non essendo qualificabili come tali, né il lucro cessante, né la perdita di chanches, in quanto non ancora entrate nell'attivo patrimoniale (Maccari, 157). Di contrario avviso, invece, quella dottrina che, interpretando la nozione di interesse sociale in maniera ampia, attribuisce rilevanza anche al lucro cessante (Bellacosa, 104). La giurisprudenza di legittimità osserva che la tutela del patrimonio, dispiegata dall'art. 2634 c.c., si traduce non soltanto nella (indiretta) protezione degli interessi dei soci, ma anche dei creditori, che nell'asse attivo societario, rinvengono la garanzia alla soddisfazione delle proprie pretese (art. 2740 c.c.) e che, inoltre, l'evento di danno, previsto quale momento consumativo del delitto di infedeltà patrimoniale, può agevolmente compararsi al dissesto (a cui consegue un'alta probabilità di insoddisfazione nel recupero della pretesa), che analoga funzione riveste in seno all'a l. fall., art. 223, comma 2, n. 1, l.fall. (Cass. pen. V, n. 11019/2007). In ordine alla consumazione del reato, la norma richiede la necessaria idoneità della condotta a procurare un pregiudizio al patrimonio del soggetto passivo (la società amministrata o i terzi). Tale idoneità va accertata mediante il criterio della prognosi postuma attraverso il quale andrà verificata, sulla base dell'id quod plerumque accidit, l'adeguatezza della condotta a sfociare in un danno alla società o ai terzi. Occorre, quindi, che la condotta dell'agente produca una modificazione fenomenica attuale e non solo potenziale. Trattandosi di un reato con evento di danno, la dottrina pacificamente ammette la configurabilità del tentativo. Si pensi, infatti, a quelle ipotesi in cui vengono compiuti da parte dell'agente atti dispositivi di beni sociali idonei e diretti in modo non equivoco alla realizzazione di un danno patrimoniale, il quale, per circostanze indipendenti dalla volontà del soggetto attivo non si verifichi (Benussi, 242). Elemento soggettivoLa riforma dei reati societari ha innovato la figura criminosa dell'infedeltà patrimoniale anche sotto il profilo della componente psicologica del reato, stante la duplicità di dolo richiesta dalla norma. In particolare, l'art. 2634 c.c. prevede il dolo specifico del «fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio» ed il dolo intenzionale dell'evento di danno patrimoniale alla società (desunta dall'utilizzo dell'avverbio «intenzionalmente») rispetto alla causazione dell'evento di danno. Quanto al dolo specifico è stato osservato come tale previsione, unitamente al danno al patrimonio dell'ente, sembri contribuire a recuperare determinatezza al reato e a disegnare con nitidezza di contorni la direzione offensiva della condotta. Il dolo specifico, d'altro canto, sembra conferire rilevanza penale, all'interno dell'ampia gamma di fatti posti in essere in conflitto di interessi e produttivi di un danno al patrimonio dell'ente, alle sole condotte sorrette ex ante dal fine dell'agens di perseguire l'interesse extrasociale incompatibile con quello sociale, evitando così di sanzionare «il puro rischio coessenziale ad ogni operazione d'impresa» (Rainone, 440). L'allargamento del dolo specifico all'«altro vantaggio» – in difformità al testo del progetto Mirone – determina la punibilità di quegli atti di disposizione dei beni sociali, compiuti in conflitto di interessi e produttivi di un danno patrimoniale alla società, accompagnati non da un arricchimento patrimoniale, bensì dal perseguimento di scopi diversi. Esemplificando, si pensi all'obiettivo di accrescere il prestigio personale, di incrementare la capacità contrattuale con altri soggetti e via discorrendo (Foffani, 354). Meno comprensibile è apparso, secondo la dottrina, il ruolo dell'intenzionalità del danno. La necessità del dolo intenzionale di danno ai fini dell'integrazione del reato comporta l'ingresso della rappresentazione del verificarsi dell'evento lesivo «nella serie di scopi in vista dei quali il soggetto si determina alla condotta» (Gallo, 793). Tale previsione sembra rendere troppo angusti i limiti di rilevanza penale dell'infedeltà patrimoniale (Musco,220). In una norma, quale quella delineata dall'art. 2634 c.c., richiedere che il soggetto agente debba porsi come fine ultimo della sua azione l'evento di danno appare fortemente limitativo, rischiando di ridurre sensibilmente le possibilità applicative della norma. Appare difficile, infatti, nella pratica che il soggetto qualificato agisca col duplice scopo di profitto e di danno (Santoriello, 263). Il dolo intenzionale, da un lato, lascia fuori dall'area di rilevanza penale le ipotesi in cui il soggetto qualificato agisca con dolo eventuale, corrispondente all'usuale atteggiarsi dell'elemento psicologico degli operatori d'impresa (Militello, 702); dall'altro, esclude di fatto anche l'ipotesi del dolo diretto, che si riscontra nei casi in cui il soggetto abbia agito rappresentandosi come certa o altamente probabile la realizzazione del danno patrimoniale alla società, senza però che tale rappresentazione entri nella serie di scopi in vista dei quali il soggetto si determina alla condotta (Gallo, 793). Il rischio di una concreta paralisi dell'applicazione della fattispecie avrebbe potuto essere evitato proprio costruendo il dolo di danno patrimoniale nei termini del predetto dolo diretto, inserendo nella fattispecie incriminatrice l'avverbio «consapevolmente» in luogo di «intenzionalmente». In tal modo si sarebbe raggiunto un più giusto equilibrio tra le esigenze legate alla tutela del patrimonio sociale dalle operazioni abusive degli organi gestori ed il rischio di impresa (Lionetti, 250). La giurisprudenza di legittimità in tema di elemento soggettivo ha evidenziato come per il nuovo delitto di infedeltà patrimoniale occorra il fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto od altro vantaggio e la volontà direttamente orientata a cagionare un danno patrimoniale alla società, ossia una componente soggettiva, indubbiamente, qualificabile in termini di dolo specifico (Cass. pen. V, n. 22495/2015). Il dolo richiesto, quindi, non è caratterizzato soltanto da intenzionalità nel cagionare il danno alla società, ma deve essere ulteriormente qualificato dallo specifico fine di procurare ingiusto profitto od altro vantaggio, non solo per l'autore, ma anche per altri, per i quali il vantaggio concretizzi, per l'appunto, il conflitto d'interessi dello stesso autore (Cass. pen. V, n. 29268/2007). L'estensione della tutela ai beni gestiti dalla società per conto di terzi (comma 2)La previsione contenuta nel secondo comma dell'art. 2634 c.c. estende l'ambito applicativo della fattispecie di infedeltà patrimoniale ai fatti commessi «in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi, cagionando a quest'ultimi un danno patrimoniale» (Maccari, 161). Si tratta del fenomeno dei c.d. patrimoni gestiti, la cui rilevanza ai fini dell'infedeltà patrimoniale arricchisce la dimensione, per certi versi tradizionale, del conflitto interno tra amministratore e società, rendendo rilevante anche il conflitto esterno tra società (e suoi soggetti qualificati) e clientela dei risparmiatori o investitori (Musco, 221; Bellacosa, 108). Secondo i primi commentatori della riforma, l'effetto più evidente della previsione in esame è rappresentato dalla decisa riduzione dello spazio operativo del reato contravvenzionale di cui all'art. 167 d.lgs. n. 58/1998 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria), che sanziona, «salvo che il fatto costituisca reato più grave», la condotta di «chi nella prestazione del servizio di gestione di portafogli di investimento su base individuale o del servizio di gestione collettiva del risparmio, in violazione delle disposizioni regolanti i conflitti d'interessi, pone in essere operazioni che arrecano danno agli investitori, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto». In virtù della clausola di sussidiarietà espressa che la caratterizza, tale contravvenzione – che ha costituito il modello di riferimento per la costruzione del delitto di cui all'art. 2634 c.c. – risulterebbe oggi applicabile nei soli casi marginali di amministrazione infedele posta in essere da un intermediario non costituito in forma societaria (Aldrovandi, 199; Musco 221). Oltre all'oggetto materiale della condotta incriminata (atti dispositivi «in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi»), la figura criminosa di infedeltà patrimoniale prevista dal comma 2 dell'art. 2634 c.c. si differenzia da quella delineata al comma 1 anche con riguardo all'evento. Invero, si richiede che il danno patrimoniale sia a carico dei terzi che abbiano affidato i beni in gestione alla società. Con riguardo all'elemento soggettivo del reato, il legislatore, omettendo il riferimento all'intenzione di causare un danno patrimoniale ai terzi, consente la sopravvivenza del dolo eventuale a differenza della fattispecie di infedeltà prevista dal primo comma dell'art. 2634 c.c., in cui è esclusa. La mancanza del requisito dell'intenzionalità è contestabile in quanto, da un lato, contrasta con l'identico regime sanzionatorio previsto dalla norma in entrambe le ipotesi d'infedeltà e, dall'altro, crea una diversità sul piano dei valori tutelati, poiché i requisiti soggettivi sono più rigorosi quando il danno è cagionato alla società stessa rispetto a quelli richiesti quando i beni, anche se gestiti dalla società, fanno capo ai terzi. Tale anomalia potrebbe essere superata ritenendo che l'ipotesi in esame richiami implicitamente, in tutto e per tutto, i requisiti psicologici (dolo specifico e dolo intenzionale) della fattispecie di cui al primo comma (Sciumbata, 122). L'infedeltà patrimoniale e i gruppi di società (comma 3)Con la riforma societaria, il Legislatore ha attribuito rilevanza giuridica al fenomeno dei «gruppi» di società, codificando la teoria dei c.d. vantaggi compensativi, ampiamente diffusa in dottrina a partire dalla metà degli anni '80 e recepita anche dalla giurisprudenza civile in talune sue pronunce (Benussi, 16). Prima della novella legislativa è stato evidenziato che per verificare se l'operazione societaria abbia comportato o meno – per la società che l'ha posta in essere – un depauperamento effettivo, occorre tener conto della complessiva situazione che, nell'ambito del gruppo, a quella società fa capo, potendo l'eventuale pregiudizio economico che da essa sia direttamente derivato aver trovato la sua contropartita in un altro rapporto e l'atto presentarsi come preordinato al soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto (Cass. I, n. 2001/1996; Cass. I, n. 12325/1998). Il terzo comma dell'art. 2634, dispone che «non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo». Va, in primo luogo, osservato come dal dettato normativo non emerga alcuna definizione di «gruppo» di società, la quale, allo stato, può essere desunta dalla figura speculare – sul versante della responsabilità civile – rappresentata dall'art. 2497 c.c. (v.), secondo cui «non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell'attività di direzione e coordinamento, ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette». Tale norma, sebbene introdotta con il d.lgs. n. 6 del 2003, successivamente, quindi, all'introduzione dell'art. 2634 c.c., costituisce, tuttavia, un indubbio punto di riferimento, di cui occorre tener conto al fine dell'enucleazione del concetto di «gruppo di società» anche sul versante penale ai fini dell'operatività dei c.d. vantaggi compensativi, disciplinando un fenomeno, che trova il proprio baricentro nell'esistenza di un'attività di «direzione e coordinamento di società». È proprio questa l'attività che rappresenta il dato caratterizzante della nozione di gruppo accolta nella prospettiva degli artt. 2497 ss. c.c. (Aldrovandi, 203). In passato, il codice civile non contemplava una disciplina dettagliata del fenomeno dei gruppi, limitandosi l'art. 2359 c.c. a delineare solo la nozione di controllo. Una società può ritenersi controllata quando viene a trovarsi, direttamente o indirettamente, sotto l'influenza dominante di altra società che è in grado perciò di indirizzarne stabilmente l'attività (Campobasso, 737). Oggi, il controllo non è più un requisito necessario per il riconoscimento del gruppo, il quale si caratterizza per essere dotato di una struttura gerarchica, nell'ambito della quale una società capogruppo (o holding) esercita un potere di indirizzo e direzione unitaria sulle singole società controllate o dipendenti (Benussi, 29). La giurisprudenza di legittimità risulta orientata nella condivisione della suddetta impostazione, avendo precisato che l'art. 2634, comma 3 c.c. trova applicazione nei casi in cui gli autori delle operazioni siano società facenti parte di un «gruppo» (inteso empiricamente per le modalità di gestione accentrata di un'impresa economicamente unitaria, ma articolata in più soggetti giuridicamente autonomi), ovvero siano collegate, ai sensi delle norme del medesimo codice civile e delle disposizioni ricavabili da altre norme di legge. Le società collegate, invero, sono quelle che presentano le caratteristiche di cui all'art. 2359, comma 3, c.c. («Sono considerate collegate le società sulle quali un'altra società esercita un'influenza notevole. L'influenza si presume quando nell'assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in mercati regolamentati»), mentre, per quanto concerne il «gruppo» (od i «gruppi») di società, pur in assenza una specifica codificazione del concetto e di un'armonica regolamentazione del fenomeno, è possibile ricavare dal codice civile, anche all'esito della riforma delle società di cui al d.lgs. n. 6 del 2003, le caratteristiche strutturali minime di esso, in relazione all'attivà di direzione e coordinamento che lo connaturano (Cass. pen. V, n. 8253/2015). Prima della riforma, il codice si occupava solo di aspetti strumentali del fenomeno dei gruppi, dettando la disciplina dei poteri di controllo, limitandosi a delineare, all'art. 2359 c.c., la sola nozione di controllo, sulla base della quale era possibile ricavare tre distinte forme, tutte ruotanti attorno al concetto di influenza dominante di una società sulle scelte operative di altre società, che assumevano per questo la veste di società controllate. L'opportunità di una disciplina dei gruppi, ha costituito una precisa scelta del legislatore delegante che, all'art. 10, lett. a), l. n. 366/2001, ha imposto di prevedere una disciplina del gruppo, secondo principî di trasparenza, tale da assicurare che l'attività di direzione e coordinamento contemperasse adeguatamente l'interesse del gruppo, delle società controllate e dei soci di minoranza di queste ultime. La legge delegata, tuttavia, ha aderito soltanto in minima parte a tale indicazione, introducendo una disciplina relativa al fenomeno di «direzione e coordinamento di società», senza alcun esplicito riferimento al «gruppo», in quanto tale, e senza alcuna preoccupazione definitoria, privilegiando il terreno fattuale e limitandosi alla disciplina delle conseguenze collegate allo svolgimento di attività di direzione e coordinamento di società. Ciò non toglie, tuttavia, che sebbene la fenomenologia dei gruppi di società non possa essere correlata esclusivamente alle poche nuove norme che regolano l'attività di direzione e coordinamento, tale attività debba costituire, comunque, l'elemento essenziale e caratterizzante del fenomeno dei gruppi; inoltre, dalla pur scarna disciplina codicistica possono, altresì, ricavarsi gli elementi indefettibili del gruppo e tra questi particolarmente significativo quello contemplato, per la tutela dei terzi, dall'art. 2497-bis c.c., il quale prescrive le forme di pubblicità cui sono tenute, non soltanto le società aggregate (indicazione negli atti e nella corrispondenza e iscrizione nel registro delle imprese della società o ente cui sono assoggettate), ma anche la stessa capogruppo (iscrizione in apposita sezione presso il registro delle imprese) e che, all'ultimo comma, impone altresì agli amministratori di indicare nella relazione sulla gestione i rapporti intercorsi con chi esercita l'attività di direzione e coordinamento e con le altre società che vi sono soggette, nonché l'effetto che tale attività ha avuto sull'esercizio dell'impresa sociale e sui suoi risultati (Cass. pen. V, n. 8253/2015). In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale è configurabile un "gruppo di imprese" - rilevante ai fini della ipotizzabilità di eventuali "vantaggi compensativi" - anche tra enti che abbiano differente natura giuridica (società ed associazioni senza fini di lucro), purché tra loro si instauri un rapporto di direzione nonché di coordinamento e controllo delle rispettive attività facente capo al soggetto giuridico controllante. All'uopo la Corte di Cassazione ha escluso, in concreto, l'esistenza di un "gruppo di imprese" per l'assenza di attività di direzione da parte dell'associazione senza fini di lucro indicata come controllante, nonché di un centro unico di coordinamento delle attività e di un piano di azione imprenditoriale comune con le società fallite ad essa collegate (Cass. pen. V, n. 31997/2018 ). Anche la giurisprudenza di legittimità civile ha costruito la nozione di «gruppo» intorno al concetto di «direzione unitaria», diverso dal «controllo», al quale faceva e fa tuttora riferimento l'art. 2359 c.c. In particolare, è stato ritenuto che il riferimento al «gruppo» è legittimo in quanto correlato all'istituto desumibile dalla suddetta disciplina, per modo da potersi propriamente discorrere di « gruppo» in quelle (sole) dinamiche in cui una società (la capogruppo) esercita la propria attività d'impresa dirigendo e coordinando le altre. Ne consegue che il «concordato di gruppo» non può ammettersi nel caso di crisi gestita da parte di singole società mediante forme di aggregazione diverse dal gruppo societario propriamente inteso, limitate a meri conferimenti di beni e all'accollo di debiti tra le dette società, essendo elemento imprescindibile quello dell'autonomia delle masse attive e passive e la conseguente votazione separata sulle proposte da parte dei creditori di ciascuna società o impresa (Cass. I, n. 19014/2017). La Cassazione civile, in particolare, ha operato un distinguo tra holding pura e holding operativa. La prima va individuata in quel tipo di aggregazione societaria che assolve una funzione puramente strumentale e che mediante il possesso di uno o più pacchetti azionari, e l'esercizio di poteri inerenti, esplica l'attività di direzione e controllo di quest'ultima; la seconda, invece, è utilizzata per contrassegnare quella figura di capogruppo che, detenendo nel suo portafoglio più aziende, esplica l'attività direttiva anche mediante l'esercizio di funzioni economiche e finanziarie nei confronti delle società possedute, ponendo così uno stretto legame tra il grado di diversificazione degli investimenti della holding e il ruolo che questa può assumere nel coordinamento finanziario del gruppo. Per la configurazione di una autonoma impresa è dunque necessario che l'attività, sia essa di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), oppure di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, quindi fonte di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima (Cass. I, n. 1439/1990; Cass. I, n. 12113/2002; Cass. I, n. 3724/2003). È, inoltre, configurabile una holding di tipo personale allorquando una persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società medesime, non limitandosi, così, al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio. A tal fine è necessario che la suddetta attività, di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, fonte, quindi, di responsabilità diretta del loro autore, e presenti, altresì, obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo e le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima (Cass. I, n. 5520/2017) Del pari la giurisprudenza di legittimità specificamente relativa al terzo comma dell'art. 2634 c.c. ha evidenziato che, al fine di valutare l'operatività dei c.d. vantaggi compensativi, gli elementi per la configurabilità del gruppo di società devono essere compiutamente allegati e deve escludersi l'operatività di un gruppo allorquando si faccia riferimento, non alle disposizioni relative alla direzione ed al coordinamento di società, di cui ai richiamati artt. 2497 e ss. c.c., bensì al dato empirico della mera riconducibilità delle varie società ad uno stesso soggetto, amministratore delle compagini coinvolte, senza alcun riferimento alla direzione e controllo delle società. Infatti, in caso di distrazione di beni sociali in favore di altra società appartenente al medesimo soggetto, la configurabilità, qualora intervenga il fallimento, del reato fallimentare non può essere esclusa, ai sensi del comma terzo del citato art. 2634 c.c., per il solo fatto che il soggetto abbia il controllo di entrambe le società, occorrendo, invece, che egli abbia svolto una vera e propria funzione imprenditoriale di indirizzo e coordinamento delle società controllate (cosiddetta «holding pura»), eventualmente anche accompagnata da attività ausiliaria o finanziaria (cosiddetta «holding operativa») dotandosi, a tal fine, di apposita, idonea organizzazione, con correlativa assunzione di responsabilità ai sensi dell'art. 2497 c.c. (arg. ex Cass. pen. V, n. 10688/2004; Cass. pen. V, n. 8253/2015). La nozione di gruppo si può altresì ricavare dalla definizione di holding proposta da un'autorevole dottrina, che la identifica come quell' aggregazione di imprese societarie formalmente autonome ed indipendenti l'una dall'altra, ma assoggettate tutte alla direzione unitaria e dominante di una società che, direttamente o indirettamente, controlla e coordina la loro attività d'impresa (Campobasso, 77). Il fenomeno del gruppo è infatti caratterizzato da uno sfasamento tra realtà economica e forma giuridica, in quanto si verifica che un'impresa (gruppo) sostanzialmente unitaria dal punto di vista economico, appare giuridicamente frammentata in una pluralità di società, facenti capo ad una società madre, capogruppo o holding (Bellacosa, 112). La direzione unitaria che cementa l'insieme – esercitata dalla capogruppo, direttamente o tramite società intermedie (cd. holding di settore) – rimane fisiologicamente ispirata al perseguimento dell'interesse del gruppo, complessivamente considerato. Trattasi di un interesse trascendente, che non solo non riflette necessariamente quello delle singole entità aggregate, ma può entrare addirittura in aperta frizione con esso. Sovente, infatti, la massimizzazione del risultato economico globale esige sacrifici economici, in termini di «travasi di risorse» dall'una all'altra affiliata (Napoleoni, 3787). Dall'analisi dell'economia dei gruppi industriali è emerso con chiarezza che nel gruppo coesistono tre diversi interessi: l'interesse della controllante, l'interesse delle controllate e l'interesse di gruppo. L'interesse di gruppo è il punto di equilibrio, il centro di convergenza, l'asse di coordinamento tra l'interesse della controllante e l'interesse delle altre società del gruppo. In tema di infedeltà patrimoniale il legislatore sembra aver prediletto l'esigenza di contemperare gli interessi del gruppo e quelli delle singole società, bilanciando gli uni e gli altri in una logica che viene definita di tipo compensativo (Musco, 222). La difficoltà di una regolamentazione legislativa dei problemi nodali che il gruppo suscita, risiede, proprio nella individuazione di un punto di equilibrio tra unitarietà del gruppo e separazione soggettiva dei centri di imputazione, tra coordinamento e/o omogeneità e/o unità d'impresa e autonomia dei componenti e in altri termini, il problema è quello di stabilire in che misura la capogruppo può limitare l'autonomia decisionale delle società controllate, fino a che punto può imporre direttive alle società soggette alla propria influenza dominante, quale sia dunque il confine tra legittimo esercizio del dominio e indebita coartazione delle singole sfere di autodeterminazione (Montalenti, 710). La prevalente giurisprudenza civile di legittimità ritiene, poi, che l'appartenenza d'una società ad un gruppo non legittima l'esercizio di qualsiasi attività estranea all'oggetto sociale, sol perché a favore del gruppo o di altra società del gruppo. V'è, infatti, un'esigenza generale di assicurare il mantenimento dell'attività societaria all'interno dei confini segnati dall'oggetto sociale, che trova univoci indici nell'ordinamento ed in particolare, nell'art. 2361 c.c., che vieta, addirittura, l'assunzione di partecipazioni ad altre imprese se, per la misura e l'oggetto della partecipazione, ne risulti modificato, sostanzialmente, l'oggetto sociale della società aspirante alla partecipazione. Di conseguenza, anche nell'ipotesi di società appartenente ad un gruppo, vi deve essere sempre un nesso tra attività ed oggetto sociale, ed un simile nesso non sussiste quando l'attività negoziale dell'amministratore non solo sia eterogenea rispetto all'oggetto, ma si risolva per la società nella sola partecipazione al rischio di perdite, e non ai guadagni ed avvenga senza corrispettivo di sorta. Dal punto di vista economico il gruppo di società costituisce una aggregazione di unità produttive giuridicamente autonome (le singole società), collegate sul piano organizzativo, attraverso la cd. direzione unitaria al fine d'una migliore attuazione degli obiettivi perseguiti dal complesso. Infatti, non esistono ostacoli di carattere giuridico a che le decisioni adottate a livello dell'organo gestorio del gruppo vengano attuate dalle società del gruppo. Tanto, tuttavia, a due condizioni. Le decisioni delle società in conformità alle linee direttive del gruppo, devono essere assunte formalmente dagli organi delle società collegate (assemblea o consiglio di amministrazione) competenti secondo le regole statutarie. Inoltre, l'interesse della società non deve contrastare con quello del gruppo, fermo restando, però, che perché scatti la tutela degli interessi che alle singole società fan capo è necessaria non solo la potenzialità del conflitto di interessi, ma l'effettività del conflitto idoneo a causare danno alla società (Cass. I, n. 1759/1992). In altri termini, in tema di «gruppi» di società collegate tra loro in senso economico e dirigenziale (ma non anche sotto il profilo giuridico), la validità di atti compiuti dall'organo amministrativo di una di esse in favore di altra ad essa collegata è condizionata all'esistenza di un interesse economicamente e giuridicamente apprezzabile in capo alla società agente, non potendosi, per converso, predicare la legittimità di atti che, favorendo le società collegate, non rivestano alcun interesse, fuoriescano completamente dall'oggetto sociale, o addirittura pregiudichino la società operante (Cass. I, n. 8159/2000; Cass. I, n. 9571/2000; Cass. I, n. 16416/2002; Cass. I, n. 17696/2006; Cass. III, n. 15879/2007; Cass. I, n. 9475/2014; Cass. I, n. 25409/2016). Quindi, si può ammettere che la partecipazione d'una società ad un gruppo comporti la legittimità di attività che perseguono anche interessi del gruppo; certo è, tuttavia, che non si possono ritenere legittime attività che, nel perseguire interessi del gruppo, contrastino con quelli della società sino al punto di recarle pregiudizio (Cass. I, n. 1439/1990). Tale orientamento giurisprudenziale ha attirato numerose critiche, nella misura in cui riconferma una visione atomistica del diritto societario. Affermare, infatti, che l'interesse di gruppo, in tanto può essere perseguito, in quanto non incida sull'interesse delle singole società, che esso deve essere «ulteriore» ma «non confliggente», rispetto all'interesse delle controllate, significa in realtà asserire l'irrilevanza dell'interesse di gruppo nell'ambito del diritto societario vigente (Montalenti, 710). Va precisato che in data 11 ottobre 2017 è stato definitivamente approvato il testo della legge delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza (l. 19 ottobre 2017, n. 155), che all'art. 3 prevede, sotto la rubrica «gruppi di imprese» che: «1. Nell'esercizio della delega di cui all'articolo 1, il Governo si attiene, per la disciplina della crisi e dell'insolvenza dei gruppi di imprese, ai seguenti princìpi e criteri direttivi: a) prevedere una definizione di gruppo di imprese modellata sulla nozione di direzione e coordinamento di cui agli articoli 2497 e seguenti nonché di cui all'articolo 2545-septies del codice civile, corredata della presunzione semplice di assoggettamento a direzione e coordinamento in presenza di un rapporto di controllo ai sensi dell'articolo 2359 del codice civile; b) prescrivere specifici obblighi dichiarativi nonché il deposito del bilancio consolidato di gruppo, ove redatto, a carico delle imprese appartenenti a un gruppo, a scopo di informazione sui legami di gruppo esistenti, in vista del loro assoggettamento a procedure concorsuali; c) attribuire all'organo di gestione della procedura il potere di richiedere alla Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB) o a qualsiasi altra pubblica autorità informazioni utili ad accertare l'esistenza di collegamenti di gruppo, nonché di richiedere alle società fiduciarie le generalità degli effettivi titolari di diritti sulle azioni o sulle quote a esse intestate; d) prevedere per le imprese, in crisi o insolventi, del gruppo sottoposte alla giurisdizione dello Stato italiano la facoltà di proporre con unico ricorso domanda di omologazione di un accordo unitario di ristrutturazione dei debiti, di ammissione al concordato preventivo o di liquidazione giudiziale, ferma restando in ogni caso l'autonomia delle rispettive masse attive e passive, con predeterminazione del criterio attributivo della competenza, ai fini della gestione unitaria delle rispettive procedure concorsuali, ove le imprese abbiano la propria sede in circoscrizioni giudiziarie diverse; e) stabilire obblighi reciproci di informazione e di collaborazione tra gli organi di gestione delle diverse procedure, nel caso in cui le imprese insolventi del gruppo siano soggette a separate procedure concorsuali, in Italia o all'estero; f) stabilire il principio di postergazione del rimborso dei crediti di società o di imprese appartenenti allo stesso gruppo, in presenza dei presupposti di cui all'articolo 2467 del codice civile, fatte salve deroghe dirette a favorire l'erogazione di finanziamenti in funzione o in esecuzione di una procedura di concordato preventivo e di accordo di ristrutturazione dei debiti. 2. Nell'ipotesi di gestione unitaria della procedura di concordato preventivo di gruppo devono essere previsti: a) la nomina di un unico giudice delegato e di un unico commissario giudiziale e il deposito di un unico fondo per le spese di giustizia; b) la contemporanea e separata votazione dei creditori di ciascuna impresa; c) gli effetti dell'eventuale annullamento o risoluzione della proposta unitaria omologata; d) l'esclusione dal voto delle imprese del gruppo che siano titolari di crediti nei confronti delle altre imprese assoggettate alla procedura; e) gli effetti dell'eventuale annullamento o risoluzione della proposta unitaria omologata; f) i criteri per la formulazione del piano unitario di risoluzione della crisi del gruppo, eventualmente attraverso operazioni contrattuali e riorganizzative intragruppo funzionali alla continuità aziendale e al migliore soddisfacimento dei creditori, fatta salva la tutela in sede concorsuale per i soci e per i creditori delle singole imprese nonché per ogni altro controinteressato. 3. Nell'ipotesi di gestione unitaria della procedura di liquidazione giudiziale di gruppo devono essere previsti: a) la nomina di un unico giudice delegato e di un unico curatore, ma di distinti comitati dei creditori per ciascuna impresa del gruppo; b) un criterio di ripartizione proporzionale dei costi della procedura tra le singole imprese del gruppo; c) l'attribuzione al curatore, anche nei confronti di imprese non insolventi del gruppo, del potere di: 1) azionare rimedi contro operazioni antecedenti l'accertamento dello stato di insolvenza e dirette a spostare risorse a un'altra impresa del gruppo, in danno dei creditori; 2) esercitare le azioni di responsabilità di cui all'articolo 2497 del codice civile; 3) promuovere la denuncia di gravi irregolarità gestionali nei confronti degli organi di amministrazione delle società del gruppo non assoggettate alla procedura di liquidazione giudiziale; 4) nel caso in cui ravvisi l'insolvenza di imprese del gruppo non ancora assoggettate alla procedura di liquidazione giudiziale, segnalare tale circostanza agli organi di amministrazione e di controllo ovvero promuovere direttamente l'accertamento dello stato di insolvenza di dette imprese; d) la disciplina di eventuali proposte di concordato liquidatorio giudiziale, in conformità alla disposizione dell'articolo 7, comma 10, lettera d)». I vantaggi compensativi Per quanto concerne la previsione della clausola dei vantaggi compensativi, il legislatore – conscio che il fenomeno del gruppo, sul versante penalistico può presentarsi in forma bivalente, ossia come fattore di frode (nel senso di imprimere connotazioni di illiceità ad operazioni che pregiudicano l'interesse di una singola società controllata), o di giustificazione (allorché il pregiudizio arrecato da una specifica operazione può trovare una contropartita nei molteplici rapporti esistenti tra le diverse entità del gruppo) – ha voluto creare uno spazio di liceità per le operazioni infragruppo. Il fine perseguito è cioè quello di evitare che la risposta punitiva possa scattare in presenza di un mero atto di disposizione che, singolarmente considerato, appaia dannoso per una delle società del gruppo e vantaggioso per l'altra, ma che, nell'ambito di una più generale e reale visione d'insieme, si innesti in un complesso di scambi che assicurino il sostanziale riequilibrio interno dei rapporti (Benussi, 40). Da ciò discende che il profitto conseguito non è ingiusto se compensato da vantaggi per la società, i cui beni sono stati oggetto dell'atto di disposizione dannoso. In dottrina è stato rilevato che il termine «ingiusto» non va riferito al profitto, ma al danno. Tale improprietà lessicale potrebbe essere fuorviante, per esempio, nelle ipotesi in cui il profitto della società collegata o del gruppo complessivamente inteso sia in sé «giusto», ma arrechi comunque un danno alla società controllata, non compensato da alcun vantaggio. Va, inoltre, osservato che per quanto non specificato a livello legislativo, il «profitto» deve essere interno al gruppo. Si può cioè ipotizzare che esso corrisponda a quello del gruppo nel suo insieme o di una singola società, ma non evidentemente a quello di un soggetto esterno. Al tempo stesso, neppure è indicato colui al quale spetterebbe il vantaggio e che, anche per esigenze di coordinamento con quella che parrebbe la lettura preferibile della normativa civilistica di cui all'art. 2497, comma 1 c.c., sarebbe opportuno individuare esclusivamente nella società danneggiata (Codazzi, 599). Sulla qualificazione giuridica della clausola dei vantaggi compensativi si sono registrati due opposti orientamenti. Un primo indirizzo, minoritario, ritiene che la clausola in esame rechi in sé la stigmate della scriminante, poiché espressamente esclude l'ingiustizia del profitto che possieda le caratteristiche descritte dalla norma (Mucciarelli, 631). Altra tesi, maggioritaria, attribuisce, invece, alla clausola il ruolo di causa di esclusione del dolo specifico che incide sulla struttura stessa del reato eliminando la tipicità del fatto (Lionetti, 247; Musco, 226; Mezzetti, 234). In particolare, la formula normativa che definisce a quali condizioni poter ritenere assente il carattere di ingiustizia del profitto non rappresenta una mera causa di non punibilità, bensì inerisce alla struttura stessa del reato, determinando l'esclusione del dolo specifico che rappresenta un criterio di ulteriore tipizzazione del fatto (Musco,226). L'art. 2634, comma 3, utilizza il termine «compensato», che rimanda alla nozione di «compensazione», il cui valore semantico potrebbe far pensare ad una valutazione aritmetica del vantaggio che fronteggia il danno patito. Così ragionando si finirebbe tuttavia con il negare la stessa logica del gruppo e si ridurrebbe la funzione della clausola ad una specie di causa di non punibilità collegata al risarcimento del danno (Mucciarelli, 632). La teoria dei vantaggi compensativi non è, infatti, la teoria dell'indennizzo. Mentre quest'ultima impone di quantificare, e quindi di definire in termini numerari, il pregiudizio, e di risarcirlo in denaro, la prima si configura come insieme di criteri di valutazione della non extrasocialità di una decisione nel quadro della politica di gruppo (Montalenti, 710). In questa materia il punto critico consiste nell'individuazione di criteri e di indici per stabilire i confini tra «fisiologia» e «patologia», tra prestazione di garanzie in cui si realizza il meccanismo compensativo e prestazione di garanzie con cui si opera un trasferimento fraudolento di risorse (Miola, 236). In tale contesto è stato osservato che, quanto all'impatto che la clausola di cui al 3° comma dell'art. 2634 c.c. può avere sul sistema, da un confronto tra tale disposizione e la corrispondente norma civilistica di cui all'art. 2497, comma 1 c.c. sembrerebbe possibile affermare che la seconda ha un ambito di applicazione diverso e più ristretto della prima, includendo solo i vantaggi «conseguiti» e non quelli «fondatamente conseguibili» (Codazzi, 599), recitando tale norma che: «Le società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principî di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all'integrità del patrimonio della società. Non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell'attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette». La giurisprudenza di legittimità ha, appunto, evidenziato come la previsione normativa – che relativamente alla fattispecie incriminatrice dell'infedeltà patrimoniale degli amministratori esclude la rilevanza penale dell'atto depauperatorio, in presenza appunto dei «vantaggi», dei quali la società apparentemente danneggiata abbia fruito, o sarebbe stata in grado di fruire, in ragione della sua appartenenza a un più ampio gruppo di società – conferisca valenza «normativa» a principî, già desumibili dal sistema, in punto di necessaria considerazione della reale offensività, che sono senz'altro applicabili anche alle condotte sanzionate dalle norme fallimentari e, segnatamente, a fatti di disposizione patrimoniale contestati come distrattivi o dissipativi (Cass. pen. V, n. 49787/2013). Nella disposizione strettamente civilistica dei «vantaggi compensativi», il legislatore, con la previsione di cui all'art. 2497, comma 1 c.c., ha privilegiato una dimensione di tipo aritmetico, laddove nella causa di esclusione della responsabilità penale, ai sensi dell'art. 2634, comma 3 c.p., ha ampliato l'ambito operativo della clausola, estendendone i confini anche ai vantaggi «fondatamente prevedibili»: la responsabilità civile viene ad essere esclusa allorquando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo della attività di direzione e coordinamento, ovvero integralmente eliminato a seguito di operazioni a ciò dirette; mentre, per quel che concerne la responsabilità penale, l'art. 2634 c.c. ha preferito una clausola che consente all'interprete di comprendere i vantaggi «fondatamente prevedibili». Tale clausola presuppone che i vantaggi compensativi dell'appropriazione e del conseguente danno provocato alle singole società, siano concreti, non essendo sufficiente la mera speranza, e che i vantaggi corrispondenti, compensativi della ricchezza perduta siano «conseguiti» o basati su elementi sicuri, pressoché certi e non semplice aspettativa (Cass. pen. V, n. 8253/2015). Quanto alla casistica determinate l'operatività dei c.d. vantaggi compensativi, ai sensi del terzo comma dell'art. 2634 c.c., è stato evidenziato che la regola in questione esclude la rilevanza penale del fatto, solo in quanto sia dimostrato che le operazioni contestate abbiano prodotto uno specifico vantaggio, anche indirettamente derivante da quello riferibile al gruppo nel suo complesso, idoneo a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi delle operazioni stesse (arg. ex Cass. pen. V, n. 23997/2015). Deve escludersi, infatti, l'esistenza di una distrazione, se la mancanza di corrispettivo sia solo apparente, in considerazione dei concreti vantaggi che rendano appunto solo apparente la diminuzione patrimoniale della società (Cass. pen. n. 48327/2012). In particolare, se si accerta che l'atto non risponde all'interesse diretto della società, il cui amministratore lo ha compiuto, e che ne è scaturito nell'immediato un danno al patrimonio sociale, potrà ben ammettersi che il medesimo amministratore deduca e dimostri, innanzitutto, l'esistenza di un gruppo, alla luce della quale anche quell'atto è destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi (Cass. pen. V, n. 49787/2013), nonché alleghi e provi che gli ipotizzati benefici indiretti della società fallita risultino non solo effettivamente connessi ad un vantaggio complessivo del gruppo, ma altresì idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione compiuta, in guisa tale da non renderla capace di incidere (perlomeno nella ragionevole previsione dell'agente) sulle ragioni dei creditori della società (Cass. pen. V, n. 36764/2006; Cass. pen. I, n. 48327/2012; Cass. pen. V, n. 49787/2013). L'interesse che può escludere l'effettività della distrazione non può, dunque, ridursi al fatto stesso della partecipazione al gruppo, nè identificarsi nel vantaggio della società controllante, perché il collegamento tra le società e l'appartenenza a un gruppo imprenditoriale unitario è solo la premessa dalla quale muovere per individuare uno specifico e concreto vantaggio per la società che compie l'atto di disposizione del proprio patrimonio (Cass. pen. I, n. 48327/2012; Cass. pen. V, n. 48518/2011; Cass. pen.V, n. 8253/2015), perdurando l'autonomia soggettiva delle singole società facenti parte del gruppo. In conclusione, qualora il fatto distrattivo si riferisca a rapporti intercorsi fra società appartenenti al medesimo gruppo, solo il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell'interesse del gruppo, consente di ritenere legittima l'operazione temporaneamente svantaggiosa per la società sacrificata, nel qual caso è l'interessato a dover fornire la prova di tale circostanza indispensabile per considerare lecita l'operazione temporaneamente svantaggiosa per la società depauperata (Cass. pen. V, n. 29036/2012; Cass. pen. V, n. 49787/2013; Cass. pen. V, n. 8253/2015; Cass. pen. V, n. 46689/2016). In applicazione di tali principî è stata esclusa, la natura distrattiva di un'operazione infra-gruppo in presenza di vantaggi compensativi riequilibranti gli effetti immediatamente negativi per la società fallita e neutralizzino gli svantaggi per i creditori sociali. La S. C., nella fattispecie al suo esame, ha censurato la sentenza impugnata che aveva affermato la natura distrattiva del trasferimento di risorse dalla società fallita ad altre società del gruppo, senza considerare la prospettazione da parte dell'imputato di un evidente vantaggio compensativo per i creditori della fallita conseguente a tale operazione, trattandosi di società debitrice solidale con le società del gruppo verso i medesimi creditori ed in particolare verso il sistema bancario, con cui si erano raggiunti accordi di consolidamento del debito di gruppo con la sospensione temporanea e condizionata del decorso degli interessi, cosicché il fallimento di una di esse avrebbe comportato l'attivazione della responsabilità solidale della società fallita, con l'aggravio di pesantissimi interessi di cui avrebbero subito gli effetti negativi gli stessi creditori individuali della società (Cass. pen. V, n. 16206/2017). Recentemente è stato ribadito il principio che, in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, la natura distrattiva di un'operazione infra-gruppo può essere esclusa in presenza di vantaggi compensativi che riequilibrino gli effetti immediatamente negativi per la società fallita e neutralizzino gli svantaggi per i creditori sociali (Cass. pen. I, n. 18333/2022), anche se, pur a fronte dell'esistenza di un soggetto economico unitario, l'esistenza del vantaggio compensativo derivante dall'atto di disposizione patrimoniale, complessivamente riferibile al gruppo, produttivo per la fallita di indiretti effetti compensativi ex art. 2634, comma 3, c.c., rispetto a quelli immediatamente negativi dell'operazione, deve essere provato dall'interessato (Cass. pen. V, n. 46689/2016; Cass. pen. V n. 29036/2012; Cass. pen. I, n. 18333/2022). In proposito, per escludere la natura distrattiva di un'operazione di trasferimento di somme da una società ad un'altra non è sufficiente allegare la partecipazione della società depauperata e di quella beneficiaria ad un medesimo "gruppo", dovendo, invece, l'interessato dimostrare, in maniera specifica, il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell'interesse di un gruppo ovvero la concreta e fondata prevedibilità di vantaggi compensativi, ex art. 2634 c.c., per la società apparentemente danneggiata (Cass. pen. V, n. 47216/2019). Peraltro, in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, non può escludersi la natura distrattiva di un'operazione infra-gruppo, effettuata in assenza di contropartite, invocando la provenienza dal patrimonio personale dell'imprenditore della liquidità destinata ad una società appartenente allo stesso gruppo di quella fallita, quando questa si trovava già in difficoltà finanziaria, in quanto il denaro, una volta immesso nel patrimonio della società, le appartiene ed è destinato alla garanzia dei suoi creditori (Cass. pen. V, n. 39043/2019). Inoltre, in tema di bancarotta fraudolenta, i c.d. vantaggi compensativi per la società fallita facente parte di una realtà di «gruppo» non possono essere successivi al fallimento, nè possono consistere in una diminuzione dell'entità del passivo, conseguente a concordato preventivo cui venga ammessa altra società controllante, appartenente allo stesso gruppo, grazie a mutui fondiari concessi per la destinazione del patrimonio immobiliare della società fallita (Cass. pen. V, n. 7079/2015). La procedibilità a querela di parte.I delitti di infedeltà patrimoniale sono procedibili – secondo quanto previsto dall'ultimo comma dell'art. 2634 c.c. – a querela della persona offesa, rappresentata, per quanto riguarda l'ipotesi di cui al primo comma, dalla stessa società e, per quanto concerne la fattispecie di cui al secondo comma, dai terzi titolari dei beni posseduti o amministrati dalla società. Laddove si tratti di gruppi societari, la legittimazione spetta in capo al singolo organismo che ha tratto detrimento patrimoniale dalla scelta illecita. Nel caso della società il potere di formare la volontà dell'ente con riferimento alla proposizione della querela deve necessariamente appartenere all'assemblea ordinaria dei soci (Aldrovandi, 205-206). L'opzione per il regime di procedibilità a querela ha attirato numerose critiche tra i primi commentatori della riforma dei reati societari. Le perplessità si sono incentrate non soltanto sulla opzione di fondo a favore della perseguibilità a querela, ma anche sulla mancata estensione soggettiva del diritto di proporre querela (Bellacosa, 122). In primo luogo, la perseguibilità a querela risulta in netto contrasto con il carattere meta-individuale del bene protetto, ossia il patrimonio sociale che, come tale, richiederebbe la perseguibilità d'ufficio, atteso che la perseguibilità a querela è adatta per reati che ledono o pongono in pericolo beni giuridici di carattere individuale; inoltre, tale regime di procedibilità sconta una notevole dose di ineffettività, tenuto conto che è l'assemblea dei soci l'organo deputato a decidere sulla proposizione della querela, ossia lo stesso organo la cui maggioranza ha nominato il management e che difficilmente si determinerà contro lo stesso (Lionetti, 247). Stante il carattere collettivo del bene giuridico tutelato dalle fattispecie di infedeltà patrimoniale, la soluzione preferibile, secondo la citata dottrina, sarebbe stata quella individuata dal progetto Mirone, ovverosia la perseguibilità d'ufficio, non condividendo pertanto quella giurisprudenza che ritiene come titolare del diritto di querela il singolo socio. La disposizione inoltre fa riferimento alla proponibilità della querela della «persona offesa», senza ulteriori indicazioni, e la persona offesa è la società, rappresentata a questi fini dalla sola assemblea. Ne consegue una sostanziale vanificazione delle aspettative di tutela di altri soggetti, quali i soci di minoranza ed i creditori sociali, pur meritevoli di salvaguardia in quanto potenziali danneggiati dalle condotte illecite di infedeltà (Foffani, 365). Come già evidenziato sub 2, per la Suprema Corte la legittimazione alla proposizione della querela per il reato di infedeltà patrimoniale dell'amministratore spetta non solo alla società nel suo complesso ma anche – e disgiuntamente – al singolo socio (Cass. pen. V, n. 39506/2015; Cass. pen. V, n. 35080/2014). Ciò in quanto la condotta dell'amministratore infedele è diretta a danneggiare certamente la società, ma principalmente i soci o quotisti della stessa, i quali per effetto della condotta medesima vedono depauperarsi il proprio patrimonio, di guisa che non può negarsi al singolo socio il diritto di querelare il presunto responsabile della infedeltà, proprio perché deve allo stesso riconoscersi non solo la qualifica di danneggiato dal reato, ma anche quella di vera e propria parte lesa, qualifica che consente la proposizione della querela ai sensi dell'art. 120 c.p. È stato, inoltre, rilevato come tale conclusione sia corroborata dal rilievo che quando il socio è anche «unico», egli è chiamato, dall'art. 2362 c.c., a rispondere illimitatamente delle obbligazioni in caso di insolvenza della società, sicché la tutela apprestata dalla norma, non sollecitabile dall'amministratore in conflitto di interessi, non può non considerarsi concepita in via immediata anche a favore della posizione del socio (Cass. pen. V, n. 37033/2006; Cass. pen. II, n. 24824/2009; Cass. pen. V, n. 35080/2014; Cass. pen. V, n. 39506/2015). Per la decorrenza del termine perentorio della querela occorre che l'offeso abbia avuto conoscenza precisa, certa e diretta del fatto delittuoso, in maniera da possedere tutti gli elementi di valutazione onde determinarsi. Invero, per notizia del fatto che costituisce reato, indicata dal primo comma dell'art. 124 c.p., è da intendere la conoscenza certa del fatto, non solo sotto il profilo oggettivo, ma anche sotto quello soggettivo, concernente la identificazione dell'autore del reato, la cui conoscenza è indispensabile perché la parte offesa dal reato, anche intuitu personae, possa fare quella scelta che la legge per motivi di politica criminale rimette alla sua discrezione (Cass. pen. II, n. 2863/1999; Cass. pen. V, n. 3315/2000; Cass. pen. IV, n. 1583/2001; Cass. pen. II, n. 18710/2003; Cass. pen. II, n. 11781/2003). La legittimazione alla proposizione della querela per il reato di infedeltà patrimoniale dell'amministratore spetta anche al socio receduto della società di persone, potendo la condotta infedele determinare un depauperamento del valore della quota alla cui liquidazione il socio ha diritto a norma dell'art. 2289 comma primo, c.c. (Cass. pen. V, n. 35384/2016). Il termine trimestrale per la proposizione della querela ex art. 124 c.p. decorre dal giorno in cui, l'assemblea dei soci, una volta convocata sia stata ufficialmente informata del fatto di reato, con apposita relazione da parte di uno o più soci. Il diritto di rimessione della querela compete, poi, esclusivamente alla persona offesa che l'ha proposta e non è trasmissibile inter vivos, anche nel caso in cui venga alienato il diritto leso dalla condotta antigiuridica altrui (aggiudicatario della quota del querelante), posto che non è trasferibile la qualità di persona offesa, che si cristallizza al momento in cui il soggetto titolare del bene giuridico tutelato subisce l'offesa da reato (Cass. pen. V, n. 22495/2015). Rapporti con altre figure di reatoLe norme incriminatrici dell'infedeltà patrimoniale (art. 2634) e dell'appropriazione indebita (646 c.p.) sono in rapporto di specialità reciproca. L'infedeltà patrimoniale tipizza la necessaria relazione tra un preesistente conflitto di interessi, con i caratteri dell'attualità e dell'obiettiva valutabilità, e le finalità di profitto o altro vantaggio dell'atto di disposizione, finalità che si qualificano in termini di ingiustizia per la proiezione soggettiva del preesistente conflitto. L'appropriazione indebita presenta caratteri di specialità per la natura del bene (denaro o cosa mobile), che solo ne può essere oggetto, e per l'irrilevanza del perseguimento di un semplice «vantaggio» in luogo del «profitto». L'ambito di interferenza tra le due fattispecie è dato dalla comunanza dell'elemento costitutivo della «deminutio patrimonii» e dell'ingiusto profitto, ma esse differiscono per l'assenza nell'appropriazione indebita di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi, che invece connota l'infedeltà patrimoniale (Cass. pen. II, n. 40921/2005; Cass. pen. II, n. 15879/2008). In particolare, l' appropriazione indebita presenta caratteri di specialità per la natura del bene (denaro o cosa mobile) che solo ne può essere oggetto, e per l'irrilevanza del perseguimento di un semplice vantaggio in luogo del profitto. L'ambito di interferenza tra le due fattispecie è dato dalla comunanza dell'elemento costitutivo della deminutio patrimonii e dell'ingiusto profitto, ma esse differiscono per l'assenza, nell'appropriazione indebita, di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi che, invece, connota l'infedeltà patrimoniale (Cass. pen. V, 40446/2019). Sicché si è ritenuto che integra il delitto di appropriazione indebita, non quello di infedeltà patrimoniale previsto dall'art. 2634 c.c., l'erogazione di denaro compiuta dall'amministratore di una società di capitali, in violazione delle norme organizzative di questa e per realizzare un interesse esclusivamente personale, in assenza di una preesistente situazione di conflitto d'interessi con l'ente, senza che possa rilevare l'assenza di danno per i soci. Analogamente, si è affermato il principio che configura il reato di cui all'art. 646 c.p. la distrazione di danaro della società, in favore di soggetti terzi, compiuta dall'amministratore, in assenza di una preesistente situazione di conflitto d'interessi con l'ente (Cass. pen. V, n. 37932/2017; Cass. pen. II, n. 3397/2012; Cass. pen. V, 40446/2019). Inoltre, è stato ritenuto che integra il delitto di appropriazione indebita, e non quello di infedeltà patrimoniale previsto dall'art. 2634, l'erogazione di denaro compiuta dall'amministratore di una società di capitali, in violazione delle norme organizzative di questa e per realizzare un interesse esclusivamente personale, in assenza di una preesistente situazione di conflitto d'interessi con l'ente, senza che possa rilevare l'assenza di danno per i soci (Cass. II, n. 3387/2012). Il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale e quello di bancarotta societaria per infedeltà patrimoniale sono in rapporto di specialità reciproca e possono quindi concorrere, con la conseguenza che l'insussistenza del secondo non comporta automaticamente l'inconfigurabilità del primo (Cass. pen. V, n. 43001/2012; Cass. pen. V, n. 26083/2008). In particolare, il giudizio di responsabilità dell'imputato per il delitto di bancarotta non è incompatibile con la sussistenza della ipotesi di cui all’art. 2634 c.c. riferita alla infedeltà patrimoniale. Invero, il reato di bancarotta fraudolenta impropria, ex art. 223,comma primo, l.fall. e quello di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario, ex art. 223, comma secondo n.1, L. F. in dipendenza del rapporto di specialità reciproca, sicché è possibile che un'attività distrattiva non integri l'infedeltà patrimoniale per mancanza di conflitto di interessi e che una condotta di infedeltà patrimoniale non integri distrazione, trattandosi di reati preordinati alla tutela di interessi diversi, l'uno (art. 216 LF) i creditori sociali, l'altro (art. 2634 c.c.) il patrimonio sociale. Non è pertanto, in tal caso, necessario per l'integrazione della bancarotta fraudolenta che la condotta cagioni il dissesto ex art. 223, comma secondo n.1, in riferimento all'art. 2634 c.c. (Cass. pen., 11421/2016). BibliografiaAldrovandi, Sub art. 2634 c.c., in I nuovi reati societari, a cura di Lanzi, Cadoppi, Padova, 2007; Antolisei, Manuale di diritto penale, leggi complementari, I, Reati ed illeciti amministrativi in materia societaria, finanziaria e bancaria, Milano, 2013; Benussi, Infedeltà patrimoniale e gruppi di società, Milano, 2009; Bellacosa, Obblighi di fedeltà dell'amministratore di società e sanzioni penali, Milano, 2009; Campobasso, La riforma delle società di capitali e delle cooperative, Torino, 2003; Campobasso, Gruppi e Gruppi Bancari: un'analisi comparata, in Banca, borsa, tit. cred. 1995, I; Codazzi, Vantaggi compensativi e infedeltà patrimoniale (dalla compensazione «virtuale» alla compensazione «reale»): alcune riflessioni alla luce della riforma del diritto societario, in Giur. comm. fasc. 6, 2004; Gallo, dolo (dir. pen.), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964; Foffani, Le infedeltà, in Il nuovo diritto penale delle società, a cura di Alessandri, Milano, 2002; Lionetti, Analisi critica del delitto di infedeltà patrimoniale, in Diritto penale dell'economia, a cura di Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Milano, 2017; Maccari, Infedeltà patrimoniale, in I nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali, a cura di Giunta, Torino, 2002; Militello, Attività di gruppo e comportamenti illeciti: il gruppo come fattore criminogeno, in Riv. trim. pen. econ. 1998; Militello, I reati di infedeltà, in Dir. pen. e proc. 2002, VI; Militello, Infedeltà patrimoniale e corruzione nel futuro del diritto societario, in Riv. trim. pen. econ. 2000; Masullo, Sub art. 2634, in Le leggi penali d'udienza, a cura di Padovani, Milano, 2003; Miola, Le garanzie intragruppo, Torino, 1993; Montalenti, Conflitto di interesse nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, in Giur. comm. 1995; Mucciarelli, Il ruolo dei «vantaggi compensativi» nell'economia del delitto di infedeltà patrimoniale degli amministratori, in Giur. comm. 2002; Musco, I nuovi reati societari, Milano, 2007; Napoleoni, Geometrie parallele e bagliori corruschi del diritto penale dei gruppi (bancarotta infragruppo, infedeltà patrimoniale e vantaggi compensativi), in Cass. pen., 2005; Rainone, Il delitto di infedeltà patrimoniale tra modernità e post-modernità penalistica, in Banca borsa tit. cred., 2006; Romano, Profili penalistici del conflitto di interessi dell'amministratore di società per azioni, Milano, 1967; Santoriello, Il nuovo diritto penale delle società, Torino, 2003; Paliero, Nasce il sistema delle soglie quantitative: pronto l'argine alle incriminazioni, in Guida dir. 2002; Sciumbata, I reati societari, Milano, 2008. |